“Futuro”, “passato”, “nuovo”: parole da maneggiare con cura. Le parole abusate possono vendicarsi

Le noterelle di Pangloss

CulturaPolitica

Lo spunto per questa noterella viene dalla mancata elezione di Luigi Di Maio.

Quello che è stato un leader dei 5 Stelle, sotto la tutela di Grillo, da cui pare che il nuovo capo del Movimento, Giuseppe Conte, si voglia affrancare, e farebbe bene, dopo essere uscito dalla sua famiglia politica di origine, si era presentato alle elezioni con una lista-partitino dal nome non troppo originale: “Insieme per il futuro”. Un nome peraltro irriducibile ad acronimo, e perciò ne era stato aggiunto un altro:  “Impegno civico”.

Il “destino cinico e baro” si è accanito anche contro Luigi Di Maio, per pochi giorni ancora ministro degli Esteri. L’elettorato non lo ha premiato: nel collegio uninominale nella sua Campania, la culla dove aveva emesso i primi vagiti politici, “Giggino” ha perso.

E il mondo dei social si è scatenato, impietosamente. Ricordando la originaria attività di Di Maio, vendere birre allo Stadio san Paolo, i buontemponi social ma poco sociali gli hanno dedicato sberleffi e sfottò. Il più gettonato di questi: il Napoli ha fatto un grande acquisto. Di Maio torna al san Paolo. Oppure: ora dovrà chiedere il reddito di cittadinanza e trovarsi un lavoro.

Ma in questa noterella non ci occupiamo oltre del destino personale e politico dell’ex leader pentastellato: tra l’altro, uno che è stato capo della Diplomazia italiana (se qualcuno non ci crede può controllare su Internet) avrà avuto contatti molteplici e un lavoro prima o poi lo troverà. Una presidenza, come si dice della croce di cavaliere, di un sigaro toscano o di dieci righe sul giornale, non si nega a nessuno.

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Ci preme sottolineare, avanzando un’ ipotesi al limite della superstizione, è la parola “futuro”

Dopo aver appreso la trombatura elettorale di Di Maio, e della sua lista “Insieme per il futuro”, è venuta spontanea l’osservazione: la parola “futuro” non porta fortuna. Anzi, a dirla tutta: e se portasse jella?

Ma può portare sfortuna una parola che non può mancare nel lessico del politico, dato che questo termine richiama un progetto, un programma, un’idea da realizzare, insomma lea stessa anima progettuale dell’agire politico?

Epperò altri esempi non mancano.

Ne ricordiamo almeno due, tre.

Gianfranco Fini, dopo essere stato per una legislatura presidente della Camera nonché leader di Alleanza nazionale, poi venuto in collisione con Berlusconi fino a essere espulso dal Pdl, partito della Libertà, nel quale Fini aveva fatto confluire il suo partito, si presentò alle elezioni del 2018 con una sua lista-partitino: Futuro e libertà. Appunto!. Non fu eletto. Come Bertinotti, del resto in un’altra legislatura.

Matteo Renzi:  non solo quando era all’apice della sua popolarità ma anche ora che la sua stella politica come un sole calante sfiora l’orizzonte, cita la parola futuro in ogni occasione. Eclatanti certe sue frasi: guardate fuori, il futuro vi attende. Lavoriamo per il futuro. Questo è un discorso pieno di futuro.

Una volta un mio nipotino di otto anni, invitato per gioco a immaginare un discorso ai suoi coetanei per indurli a liberarsi dalla schiavitù dei telefonini e dei tablet, disse improvvisando: “Cari ragazzi, non siate schiavi dei telefonini. Aprite quella porta, fuori c’è il mondo tutto il che vi aspetta”. Spontanea venne l’osservazione: ma che fai? parli come Renzi?

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La parola passato

A sentire certi discorsi dei politici, sembra che il passato non esista. Se viene citato, è quasi sempre per rinfacciare agli avversari quello che “non hanno fatto” negli anni precedenti.

Mai che si parli di passato nel senso di stagioni politiche, per esempio quelle che hanno portato alla ricostruzione dell’Italia dopo la guerra, o di fasi della vita politica italiana dove hanno governato, con meriti ed errori, grandi figure della storia nazionale.

Quando Renzi arrivò alla guida del Pd e poi di Palazzo Chigi suscitò l’ira di De Mita. Renzi parlava del passato liquidandolo, e presentandosi come l’homo novus, il novatore che avrebbe innovato, costruito, realizzato. Dando un’idea da ‘’anno zero’’ della politica (logica da anno zero che semmai si può applicare a Gesù, intanto nel senso del criterio di calcolare le date della storia, partendo dalla sua nascita). Disse De Mita, che ne fece quasi una questione personale: Prima di lui non è stato fatto niente? E la Ricostruzione, e la Costituzione, e le riforme del Dopoguerra? Sembra che faccia tutto lui ora.

Stesso atteggiamento quello dei 5 stelle.

Quando arrivarono a Montecitorio dissero che l’avrebbero aperto come una scatoletta di tonno. Uno slogan quantomai bizzarro, e comunque da inscrivere in quella logica da improvvisati innovatori indifferenti al passato o denigratori di esso.

Il meno che si possa dire di questi atteggiamenti è che dimostrano, più o meno volontariamente, un’ assoluta mancanza di senso storico, e di consapevolezza storica. Brutto affare, che si ritorce contro gli stessi fautori di questa linea. Il passato si può criticare ma prima deve essere studiato, non gettato nella discarica dell’oblio, altrimenti non si capiscono neanche quelle che Norberto Bobbio chiamava “le dure repliche della storia”. Per non tacere di Giorgio Santayana che ammoniva: Chi non conosce (o dimentica) la propria storia è condannato a riviverla.

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Il Nuovo e il canto delle sirene di turno

Il discorso sul “nuovo” in politica ha molti punti di contatto con la parola “passato”.

Spesso il nuovo sbandierato da alcuni partiti somiglia a certe auto di cui è stato fatto solo un leggero restyling: hanno cambiato i fari, le maniglie, ma il motore è sempre lo stesso. Le prestazioni anche.

Nel marketing dell’attuale politica i partiti veri, fucine di idee come lo sono stati nella cosiddetta Prima Repubblica, spesso vituperata eppur così rimpianta, non ci sono più e rendono fragile la democrazia, come afferma Luciano Benadusi, un intellettuale cattolico in una intervista che uscirà a giorni su queste pagine.

E perciò, in assenza di idee alte, e puntando sugli effetti speciali degli slogan e delle promesse più inverosimili e irrealizzabili, riesce più facile piazzare una offerta politica come un prodotto commerciale.

Perfino i programmi elettorali ora vengono affidati ad agenzie di marketing politico, e si capisce subito quando si leggono: sono senz’anima,  una sequela di buoni propositi che non accendono la passione.

Forse così si spiega come l’elettorato, sempre più volatile e sempre più volubile, da qualche anno a questa parte, si faccia incantare dalla sirena di turno.

Cominciò Berlusconi, che di sirene aveva uno stuolo e quindi fu più forte e durevole l’effetto fascinatore.

Poi è arrivato Renzi, con l’alone del nuovo e del rottamatore (quasi rispondendo al cattolico Renzi, papa Francesco indirettamente fece notare che si rottamano i frigoriferi non gli uomini, e deplorò quella che definì “la cultura dello scarto”). Anche il nuovo di Renzi ha perso via via brillantezza, appeal, fascino.

Poi è stata la volta dei 5 Stelle, un’ondata travolgente come una pioggia torrenziale benefica ma anche pericolosa, che si impose nelle elezioni politiche del 2018 in tutto il Paese suscitando entusiasmi, attese ma anche paure e diffidenze. Poi aumentate anche per responsabilità degli stessi “novatori”, che non hanno tardato a vestire idee nuove con panni vecchi e già noti.

Il 2022, anno del centenario della marcia su Roma e dell’avvento mussoliniano al potere con mezzi non certo elettorali, elezioni democratiche hanno visto la novità di turno: la vittoria della destra, la prima da quando c’è la Repubblica, costruita anno dopo anno dalla sua leader Giorgia Meloni che ha portato il suo partito da un modesto 4 per cento a circa una cifra più che sestuplicata.

Concludendo e parlando in linea generale, senza allusioni specifiche: spesso del nuovo si può dire quello che un critico disse a uno scrittore che gli aveva portato un manoscritto: quel che c’è di nuovo non è buono, e quel che c’è di buono non è nuovo.

Ecco perché anche la parola “nuovo” deve essere maneggiata con cura.Non basta affermarla, dichiararla, bisogna inventarla, farla diventare carne e sangue di un progetto, di un’opera, di un fatto.

L’obsolescenza colpisce anche il nuovo   

Oggi, più di ieri, non solo gli oggetti tecnologici d’uso quotidiano subiscono quella che si chiama obsolescenza, cioè la progressiva perdita di novità, di valore (del valore d’uso si capisce) e il consumatore cambia.

L’obsolescenza, come gli esempi prima citati dimostrano, ha colpito anche la politica e i suoi leader. Prima vengono osannati come idoli. Poi gli elettori vedono questi idoli, li toccano come fossero statue dorate. E il fascino si appanna, l’attrazione diminuisce, l’incantesimo si rompe.

La soluzione sarebbe quella suggerita dalle parole di Flaubert: non bisogna toccare gli idoli. Resta sempre un po’ di doratura tra le mani.

Tuttavia la logica della politica oggi è di tipo orizzontale: il leader non resta nella torre, come il re di una volta, inaccessibile, come il Castello di Kafka. La modernità vuole le strette di mano, i bagni di folla. La cancellazione delle distanze tra elettori ed eletti. Per fortuna.

Ci guadagna la democrazia, ma c’è una perdita di “autorevolezza”, che si nutre anche  della distanza.

 

Pangloss

 

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