Pd, ora è tutto da rifare. Non basta un congresso ma una rinascita. Finora, “partito della Ztl”, ma anche “società di mutuo soccorso”

Paradosso: agenda Draghi, Letta ne ha fatto una bandiera ma ora è Meloni che ci lavora

Detto con parole semplici ma anche con schiettezza, i dirigenti del centrosinistra, a cominciare dal segretario Pd Enrico Letta, non hanno saputo fare in questa occasione il lavoro per il quale erano stati chiamati, sbagliando l’indicibile.

Possibilmente vincere e tentare di governare questo Paese. Bisogna, invece, registrare, per quanto prevedibile, una clamorosa battuta d’arresto, una sconfitta che è stata paragonata a quella del ’48. Lontani dal vero, ma sino a un certo punto. Dovendo comunque segnalare, con tanti commentatori affascinati dalla vittoria di Meloni, un paio di dati non precisamente analizzati: il suo partito al 26% ha sostanzialmente inglobato buona parte della Lega, ridotta al lumicino (al di sotto del 9%), compreso il frastornato Salvini, relegandola a junior-partner sconfitto nella rappresentanza e forse un giorno pronta a digrignare i denti per lo “sgarbo” ricevuto; l’aver prosciugato la Lega giocando di conserva.

A quel punto (presto si vedrà), Meloni potrebbe pagare dazio in sede di spartizione dei posti di comando. Cosa che potrebbe anche verificarsi con l’altro alleato, quella Forza Italia di Berlusconi che parla di un’Italia immobile e immarcescibile. L’icona: il presidente forzista Renato Schifani che ringrazia “Totò Cuffaro” (già condannato per associazione mafiosa).

L’altro dato fa scoprire che il centrodestra ha gli stessi voti, se non qualcuno in meno, del 2018! E che è maggioranza, sì in Parlamento (“ ma non nel Paese”) , così dicono gli sconfitti. Forse è così, ma resta pur sempre magra consolazione per chi l’ha più volte ripetuto. Pertanto, dove sta l’inghippo, per una vittoria che appare (in un qualche modo lo è pure) schiacciante?

Chiedetelo all’ultradestra Marine Le Pen! (nella sua lunga vita politica ha avuto consensi e percentuali anche più alte della stessa Meloni). All’annuncio della vittoria della sua amica italiana, per prima cosa l’ha chiamata per congratularsi, poi s’è rifugiata in camera per mangiarsi le unghie delle mani.

“In Italia – ha detto a sé stessa con un moto di pianto – avrei vinto anch’io facilmente”!

Soltanto che lì, in Francia – questo lo diciamo noi – grazie a una legge elettorale a doppio turno  le forze democratiche e antifasciste, antipopuliste, la stessa borghesia con la schiena dritta, hanno fatto sempre barriera a ogni avventura fascista e parafascista e Marine  Le Pen è dovuta precipitosamente rientrare nei ranghi. Anche nelle ultime elezioni, dove Macron, al primo turno pur con “solo” 25% dei voti, al secondo turno (meme per il Pd!), è riuscito poi a sbaragliare la destra di Le Pen.

Mentre qui in Italia succede che una forza dichiaratamente di destra sino al midollo, Fratelli d’Italia col 26% e alla vigilia del centenario della “Marcia su Roma”, pare aver conquistato il Paese da cima a fondo. Chiaramente non è così, ma è anche così perché da quelle parti qualcuno s’era letto il meccanismo del “Rosatellum” mentre, paradossalmente, quelli del Pd, che non avevano nemmeno ripassato la lezione (il Pd, artefice del “Rosatellum”, avendolo votato ndr)   venivano pesantemente castigati e lasciati in una terra di nessuno.

C’è ancora da dire dei protagonisti in questione (coalizione centrosinistra), che hanno mostrato una incrollabile propensione a non capire il vento contrario; persino a digiuno del funzionamento della legge elettorale, cosa che ha portato il centrodestra a fare cappotto nell’uninominale. Averlo capito avrebbe certamente limitato i danni e, visti i numeri delle coalizioni, l’eventuale vittoria della Meloni sarebbe stata annacquata, rendendola ininfluente. Si è trattato di un errore così marchiano da ipotizzare, si fa per dire, che l’abbiano fatto apposta. Insomma, una sorta di suicidio assistito, la vocazione alla sconfitta.

Ma, è chiaro, c’è dell’altro nell’analisi del voto.

Il risultato è la fotografia di un Paese spaventato e anche disperato. Stavolta anche con un terzo che non ne vuole sapere di recarsi alle urne. E’ lo stesso clima che periodicamente si ripete. Sempre alla ricerca del “nuovo”, dell’ “uomo forte”, oggi della “donna forte”, osannata oltre ogni merito, icasticamente nell’occasione la “mujer”, la “madre” “la patriota”, la “cattolica” per ricordare le grida scomposte della Meloni nel comizio di sostegno al gruppo di estrema destra spagnolo “Vox”.

E avanti , pertanto, con le “fascinazioni” italiche. Una sorta di innamoramento, un’ubriacatura senza freni, per fortuna, “a tempo” e più o meno lunghe. Così è stato per il Bossi della prima Lega (quello dei “300mila fucili” a difendere i confini); poi lunga stagione di Berlusconi, Grillo, Salvini, Di Maio (che fine!), Renzi, oggi Meloni, nelle ultime ore insolitamente meno guascona e preoccupata per l’impegno che l’attende.

Così preoccupata da non negarsi un paio di telefonate al giorno con lo stesso Draghi, (anche qui un paradosso: lei sì, astutamente ancorata all’”Agenda-Draghi” quando i suoi veri sostenitori sono stati bocciati dalle urne), poiché le crisi (economica, sociale, Pnrr, la collocazione internazionale, la guerra ) che stanno investendo il Paese sono tali da non far dormire la notte. Lei e, certo, tutti noi. Senza dire che siamo ancora al palo rispetto a riforme fondamentali che riguardano giustizia, lavoro, scuola, sanità, welfare, coesione sociale.

Questa doveva essere la vera agenda per il centrosinistra, non certo ignorata in questa campagna elettorale, ma scarsamente comunicata, imprecisa e tale da non fare breccia nell’elettorato. E con tutti gli sforzi miranti alla formazione delle liste, a salvare questo e quello. Intanto l’opposizione cresceva, stando semplicemente ferma e s’ingrassava sugli errori madornali degli avversari. Che s’erano riuniti in quel governo “di tutti”, immobile, litigioso, con ciascuna forza attenta a garantire i suoi interessi, immobili, in attesa delle elezioni, che poi si sono svolte in anticipo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Da parte sua il Pd (“capofila” della coalizione di centrosinistra), ha scontato la sua scarsa attrattività. Dall’inizio alla fine i suoi messaggi sono apparsi imprecisi e confusi, non una parola d’ordine, non una parola chiara. Anche depresso.  Eppoi, poche parole sui giovani che dopo lo studio se ne vanno all’estero e ancor meno su quelli che restano e non trovano nemmeno lavoro. Con leggi buone soltanto “sulla carta” e che stentano a partire. È il caso della legge sul caporalato del 2020 con lo sfruttamento dei lavoratori nelle campagne, mai debellato. Non certo, comunque, partito di giovani.

Non conosco tra le mie conoscenze un solo ragazzo sotto i 25 anni che abbia votato Pd! Per giunta non riuscire a far breccia in quel proletariato indistinto delle mille precarietà, nelle cosiddette periferie, in tutti quei lavoratori disamorati dell’impegno politico e sindacale. Non si fa una grande scoperta dicendo che si tratta di elettori che si sono persi per strada, si astengono, come anche succede che votano a destra. Eppure, nemmeno si può dire che il Pd non abbia trattato tematiche ambientali o del lavoro! Ma i risultati sono stati sempre scarsi e poco incisivi, avendo da tempo dato l’idea di partito chiuso e atrofizzato. In ogni caso, oggi, sconta anche lo scarso appeal.

La portata della sconfitta è tale da non ammettere discussioni, né di poter essere edulcorata da attenuanti, nemmeno dalle mancate dimissioni di Enrico Letta che comunque ha annunciato il suo ritiro.  Ma, sia chiaro, questo non basta e già ci si chiede (il più lucido è sembrato Antonio De Caro, sindaco di Bari e presidente Anci, che ha parlato di rimettere tutto in discussione “il modello su cui si fonda il Pd va smantellato dalle fondamenta”), se un congresso, se un qualsiasi congresso possa bastare. Tenendo anche conto che il Pd nelle sue varie declinazioni ha cambiato otto segretari negli ultimi quindici anni!

Ed ora, avanti col nono segretario (ammesso che si azzecchi la scelta)? Già si parla di Stefano Bonaccini (presidente Regione Emilia-Romagna o della sua vicepresidente Elly Schlein, dello stesso Antonio De Caro). Tutti validi, ma probabilmente non è la strada giusta per correggere la rotta. Una “costituente”, invece, darebbe il senso della situazione e mostrerebbe il coraggio di una forza plurale capace di interpretare i bisogni del Paese, ancorata al riformismo e alle istanze libertarie, attenta ai temi della giustizia, del lavoro, della formazione, dei temi ambientali. Programmi di modernità e civiltà che ovviamente dovranno essere costruiti con l’apporto di forze politiche e sociali che si riconoscono in questo fondamento.

Con un messaggio sempre chiaro e non contorto come si è visto in questa stessa campagna elettorale. Che, oltre alla sconfitta, ha registrato un’acuta contrapposizione con il M5S di Conte, rafforzatosi, ma anche confinatosi nel fortino meridionale, e con gli alfieri Calenda-Renzi, col loro progetto centrista non riuscito (7%). È parso chiaro che quest’ultimi volessero fare le scarpe al Pd ( senza comunque essere riusciti a infilarsele ai propri piedi); più intenti a dimostrare quanto fossero bravi (Revanche poteva essere il loro motto!), che  interessati alle sorti del Paese.

 

Luigi Nanni  – Pubblicista, analista politico               

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