Dalla “Questione Romana” (risolta) alla “Questione Roma” (tuttora aperta)

Forse la salvezza potrà venire da una “città satellite” dove trasferire ministeri, uffici pubblici: come due polmoni potrebbero respirare entrambe, la Roma antica rinascimentale e barocca e la Roma burocratica. Già Merzagora negli anni Cinquanta lanciò una idea simile

La storica Questione romana (chi se ne ricorda più?) costituì il più grave conflitto “interno”, per così dire, nel processo di formazione dello Stato italiano unitario. Dopo il fallimento della Repubblica Romana e del Triumvirato del 1848, la questione della sovranità su Roma si acuì con l’unificazione nazionale sancita dalla stretta di mano tra Vittorio Emanuele II e Garibaldi il 26 ottobre 1860 a Taverna della Catena, l’odierna Vairano Patenora (Teano è un falso storico). La città caput mundi era ormai soltanto la capitale del Regno pontificio e tuttavia, come sede del papato, Roma era il centro di una religione universale.

La Questione romana fu chiusa il XX Settembre 1870 con la presa di Roma. Come il conte di Cavour aveva preconizzato, la Città eterna, l’Urbe, divenne così la capitale del Regno d’Italia, che, come disse quel Grande, non poteva avere altra capitale che Roma. La soluzione della Questione romana aprì per paradosso la Questione Roma che, con alti (pochi) e bassi (troppi) resta tuttora aperta. Allo stato delle cose pare irresolubile, dopo un secolo e mezzo.

La situazione potrebbe addirittura peggiorare se il Campidoglio, cioè l’area metropolitana, venisse eretto a ventunesima regione (sic!) mediante una legge costituzionale addirittura. Timore ben fondato giacché il progetto, già approvato la scorsa legislatura, è caldeggiato da quasi tutte le forze politiche, per ovvie ragioni. L’entusiasmo ha condotto i riformatori, che hanno escogitato una tale dirompente novità istituzionale, a scimmiottare qualcosa di simile al Distretto di Columbia, il territorio che, senza essere uno Stato, è la sede della capitale degli Stati Uniti, Washington, ed è posto sotto l’amministrazione diretta del Congresso (il Parlamento americano) che ha il potere di veto sugli atti del sindaco e del consiglio locale.

Se Roma non poteva non essere la capitale dell’Italia redenta e unificata, dal tempo della caduta dell’Impero romano, nondimeno era inadatta a diventare una capitale moderna, comunque si voglia intendere la modernità. Ciò che i secoli avevano ricompreso e sviluppato all’interno delle Mura aureliane costituiva un freno piuttosto che il volano di un nuovo inizio urbano, municipale, civico. Divenuta il centro politico e amministrativo del nuovo Stato, Roma dovette accogliere tutto ciò che vi è annesso e connesso, ogni genere di accessioni materiali e immateriali.  Subì una espansione e una dilatazione alle quali non era preparata. Vi fece fronte stratificando e aggiungendo, non innovando. Fu adattata anziché riordinata. Una città rinascimentale e barocca, per cavalli e carrozze, fu proiettata tal quale nel Ventesimo secolo, peggiorando di giorno in giorno mentre cresceva avvicinandosi al Ventunesimo.

Quanto di buono e di bello Roma possiede e mostra al giorno d’oggi deriva ad essa in larghissima parte dal suo passato. Il presente, quel presente che dura dai decenni postbellici, forse ha tolto qualcosa dell’uno e dell’altro piuttosto che aggiungerne. La qualità delle funzioni amministrative essenziali non migliora. Anzi, spesso, peggiora. Complessivamente considerati e generalmente parlando, i governanti capitolini (centro, destra, sinistra) hanno mostrato di somigliarsi, sebbene talvolta con differenti sfumature, a cose fatte.

Disdegnano la manutenzione, la cura della cosa pubblica giorno per giorno. Sonnecchiano nel tran tran politico referenziale. Una tantum, li risvegliano soltanto i grandi eventi, i giubilei, le olimpiadi, le esposizioni universali, dai quali si aspettano creduli la rigenerazione salvifica dell’Urbe. Praticano l’ordinaria amministrazione a singhiozzo, sotto la spinta di occasionali proteste popolari o disfunzioni eclatanti. Non solo sono tali e tante le cose negative ma addirittura costituiscono pure la normalità, sicché viene da chiedersi se un maleficio incomba sulla città a prescindere dagli elettori e dagli eletti. Gli amministratori sono incompetenti, impotenti, renitenti? Non rispondo a tale domanda, perché non ha risposta univoca. Devo salvare governanti e governati perché riconosco che versano in uno stato di necessità. A questo punto della storia cittadina e nelle condizioni date, la Questione Roma risulta infatti insolubile. A meno che…

A meno che l’intera amministrazione capitolina, baracca e burattini, con i ministeri e gli enti pubblici, venga trasferita in una nuova città satellite, lasciando la vecchia Roma, intendo quella entro le Mura aureliane, al suo destino ed alla sua vocazione di museo storico a cielo aperto. La costruzione della nuova Roma va affidata alle nostre archistar. Solo così la vecchia e la nuova riuscirebbero a respirare, in ogni senso, come i lobi dello stesso polmone, e ad ossigenare la Città eterna che non merita di languire ed affannare.

È solo un’idea, neppure del tutto nuova. Mi pare di ricordare che già Cesare Merzagora, presidente del Senato, propose negli anni ’50 di spostare all’Eur il Parlamento e il Governo. Io li lascerei dove sono e sposterei invece il resto. Dopo sessant’anni da immigrato nella capitale, non credo più che Roma, così com’è, possa giovarsi dei “rinnovamenti politici” e delle “alternative partitiche” in Campidoglio.

 

Pietro Di Muccio de QuattroDirettore emerito del Senato, PhD in Dottrine e istituzioni politiche, già parlamentare

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