Caso Di Cesare, una voce fuori dal coro. La lezione dimenticata di Cossiga

Una destra che farebbe bene a guardare il suo album di famiglia

“La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna”. Le belle illusioni (tradite), il Paradiso in terra (non realizzato), il comunismo. La rivoluzione che Donatella Di Cesare sente di condividere con Barbara Balzerani è solo questa: non la P38, alzata verso il cielo, con il volto coperto da un passamontagna, non le prigioni del popolo, non le uccisioni a freddo.

La professoressa di filosofia, che ha commemorato la brigatista scomparsa in un tweet, non ha fatto che recitare il Credo di una generazione: la fede in una società di liberi e uguali, senza oppressione, con più giustizia, soprattutto per gli ultimi, i grandi dimenticati della terra. Secondo Massimo Cacciari, quello della Di Cesare è un post di speranze rivoluzionarie fallite, più che di nostalgia per una “compagna” andata via.

“Conoscendo Donatella Di Cesare e conoscendo la sua storia, che non ha nulla a che vedere con le Br, voleva semplicemente dire che siamo nati tutti negli anni ’60 con la speranza di una trasformazione radicale di questo mondo finito in merda”, ha spiegato il filosofo.

Chi si scandalizza, diceva Pier Paolo Pasolini, è sempre banale. Le pizie del politicamente corretto – talmente democratiche da chiedere la sospensione della professoressa dall’insegnamento – sembrano aver dimenticato la lezione di Francesco Cossiga, ministro dell’Interno al tempo del sequestro Moro e nemico giurato dei terroristi rossi (scrivevano il suo cognome con la K e la doppia esse stilizzata per indicare le SS naziste). L’ex capo dello Stato, che chiamava il fenomeno del partito armato non “terrorismo” ma “sovversivismo di sinistra”, si fece promotore di un’iniziativa per l’amnistia dei guerriglieri marxisti-leninisti: voleva graziare persino Renato Curcio (si oppose l’allora guardasigilli Claudio Martelli in quanto il fondatore delle Brigate rosse aveva rivendicato in uno scritto la lotta armata).

“In quelli anni – disse il presidente picconatore – ci fu il tentativo di innescare una guerra civile: chi combatté lo fece non con l’animo del terrorista ma con l’animo del partigiano”. Bisogna intendersi: il proposito di rovesciare con la rivoluzione armata una Repubblica con doppia assemblea rappresentativa, con uno Statuto dei lavoratori avanzatissimo e un partito comunista sopra il 30 per cento, il più forte dell’Occidente, era una idea folle. Come folle era il piano di trasformare uno Stato democratico nella Cambogia di Pol Pot. Il guaio è che quelli non erano anni normali.

Ecco la cronaca senza pretesa di completezza: poteva capitare che un anarchico volasse giù dalla finestra di una Questura (Giuseppe Pinelli); che un paio di nazisti mettesse una bomba in una Banca ma che poliziotti fascisti di uno Stato antifascista volessero attribuirne la colpa agli anarchici (leggete della strage di piazza Fontana e dei suoi depistaggi); che carabinieri – pagati per evitare stragi, golpe e stupri – coprissero stragisti, facessero sentire il tintinnio di sciabole a chi di dovere e organizzassero persino una violenza sessuale lasciando la barbara esecuzione alla manovalanza fascista (il monologo di Franca Rame, lo Stupro, è da brividi).

Quelli erano tempi di prìncipi golpisti, di “grandi vecchi” e giovani sorprese: della P2, dei servizi deviati e dei poliziotti che sparavano ad altezza d’uomo (Giorgiana Masi è stata uccisa dalle Forze dell’ordine durante una manifestazione del Partito radicale).

Erano gli anni della strategia della tensione, con il tempo della clessidra sempre scandito da una bomba, in una piazza o una stazione poco importa: il fine era lo stesso, impedire l’alternanza politica e l’avanzamento su equilibri più avanzati (cioè i comunisti non dovevano andare al governo: anche se eletti democraticamente, in omaggio all’ordine geopolitico determinato a Yalta).

Erano i giorni in cui la teppaglia fascista cantava “Ankara, Atene, poi Roma viene”: molti missini nel ’67 volevano farci diventare come la Grecia dei colonnelli, nel ’73 brindavano al golpe di Augusto Pinochet (mentre già circolavano le immagini dei ragazzi torturati nello stadio di Santiago). Molti di quei bravi ragazzi nel ’76 trescavano con Licio Gelli che a propria volta flirtava con il regime di Videla, l’Hitler della Pampa responsabile dei voli della morte, delle sparizioni forzate, degli stupri di Stato (tutto con la benedizione di una parte consistente dell’alto clero argentino).

Da questo mazzo, la cui fiamma patriottica ancora arde, provengono – almeno idealmente – molti dei tanti che ora si stracciano le vesti per le parole della docente universitaria: dicono di avercela con lei perché ha difeso una brigatista. In realtà l’attaccano perché ha espresso una romantica nostalgia per gli anni ’70: il vero bersaglio di questi raid. Quelli anni, che non saranno stati i più belli, hanno significato Statuto dei lavoratori e divorzio, scioperi e diritti sociali: femminismo, libertà in fabbrica, manifestazioni. L’idea, ingenua quanto si voglia, che un mondo migliore fosse possibile.

A Balzerani e compagni, oltre che una lenzuolata di crimini da volgari killer, deve essere imputato il delitto politico di aver recitato il ruolo di utili idioti oggettivamente a favore di colonnelli traditori, fascisti mai pentiti, golpisti impenitenti e massoni intriganti: tutti uniti da un oltranzismo atlantico paranoico volto a fermare con qualsiasi mezzo l’applicazione della Costituzione repubblicana.

Da sodali, manutengoli, nipoti o semplici nostalgici di tale risma, la professoressa Di Cesare fa bene a non accettare lezioni. Si godano pure questi signori – per dirla con il fumettista Francesco Tullio Altan – “dopo il gelo degli anni di piombo, il calduccio di questi anni di merda”. Si risparmino i processi, a meno che finalmente non vogliano fare piena luce su quello che è veramente accaduto in quella parte del secolo scorso: negli apparati polizieschi dello Stato, nei partiti politici ultraconservatori, nell’album di famiglia della destra più nera. Post scriptum: la foto più bella dell’album, come accade sempre nelle migliori famiglie, è quella del primo appuntamento: andate a vedere chi c’era al convegno sulla guerra rivoluzionaria all’Hotel Parco dei Principi di Roma nel 1965 e capirete perché l’Italia non era un Paese normale.

 

Andrea PersiliGiornalista

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