Sanremo, il festival della musica…regionale italiana

Un aspetto, quello della "regionalizzazione", che non è stato molto notato e tantomeno analizzato

È l’unico a sentirsi italiano, italiano vero. Ghali, giovane cantante nato a Milano ma d’origine tunisina, ripete la strofa del capolavoro di Toto Cutugno almeno una decina di volte. Fluttua con eleganza sul palco, canta pure “Cara Italia” e saluta il quartiere Baggio di Milano. È lì davanti a tutti i telespettatori Rai, reduci dalla camicia rossa di Goffredo Mameli, a ricordare che patria non fa rima con chiusura.

 

 

 

Il cardinal Gianfranco Ravasi rilancia sui social la sua canzone: “Ma qual è casa tua? Ma qual è casa mia? Dal cielo è uguale, giuro”. Vai a leggere i profili Twitter dei leghisti: muti. Qualcuno osa: “Ha salutato con Salam-Aleikum e cantato in arabo”. Poca roba: il Festival di Sanremo quest’anno è piegato sul particolarismo, Guicciardini è la sua musa. Se non era per il “golpe” di sala stampa e radio, uniti come aristocrazia e clero contro il terzo Stato, il popolo avrebbe incoronato Geolier: un rapper partenopeo che ha portato sul palco dell’Ariston una canzone in napoletano strettissimo “I p’ me tu p’ te”.

 

 

 

In sala stampa c’è chi azzarda: “Bloccate il televoto in Campania”. Maurizio Di Giovanni, lo scrittore che pure aveva criticato la purezza dialettale del testo, invita a rispettare il verdetto. Arriva la presa di posizione anche dell’ex sindaco di Napoli Luigi Di Magistris: “Odio verso la nostra città”. I social si ingolfano di dispute tra banalità e guizzi: Guelfi contro Ghibellini, Nord contro Sud. Tutto sembra tranne che l’Italia unita se pure la lingua vuole la secessione, dice qualcuno.

Le piccole patrie reclamano un posto al sole: Alessandra Amoroso e i Boomdabash intonano il mambo Salentino e rispolverano l’orgoglio identitario dei Sud Sound System. Le parole delle “radici Ca’ tieni” portano la magia del Sud in Liguria: “Egnu dellu salentu e quannu mpunnu parlu dialettu E nu mbede filu no Ca l’italianu nu lu sacciu”.

 

 

 

Il Paese delle cento città e dei mille campanili: il bacio portafortuna di Giuliano Sangiorgi ed Emma Marrone, sempre in onore del Salento. E ancora il duetto capitolino Fulminacci-Gazzelle sulle note di Notte prima degli esami di Antonello Venditti, l’omaggio dei giovani allievi al grande maestro della scuola romana: “Come i pini di Roma, la vita non li spezza, questa notte è ancora nostra”. Mamhood, con tanto di dedica alla madre e alla Sardegna, esegue ‘Come è profondo il mare’ insieme ai Tenores di Bitti Remunnu ‘E Locu che aggiungono una strofa tratta da una loro poesia in lingua sarda: “Finis, de s’Oceanu violentu / Currer dias sas abbas piùs malas” che tradotto significa “Sulla somma dell’oceano violento correrei le acque più feroci”.

Sullo sfondo l’immancabile bandiera dei quattro mori. L’identità, quando non è ombelicale, è territoriale: lontani i tempi di “Vola colomba” cantata da Nilla Pizzi. “Diglielo tu che tornerò. Dille che non sarà più sola. E che mai più la lascerò”: il soggetto è l’Italia, il complemento è Trieste che deve tornare in signoria tricolore. Il pubblico si alza in piedi e applaude: non c’è spazio per le interpretazioni, la rivendicazione è specifica.

Oggi il pensiero debole rende la parola debosciata. Tra appelli contro il genocidio, per la pace nel mondo e la felicità universale, su quel palco è mancata l’unica richiesta patriottica possibile: liberare Ilaria Salis, donna italiana e antifascista trattenuta da più di un anno nelle carceri ungheresi in condizioni bestiali e trascinata con le catene ai piedi nei tribunali magiari come si fa con gli animali. Nessuno l’ha nominata, manco un sussurro tricolore.

 

Andrea PersiliGiornalista

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