I media italiani hanno raccontato con una certa meraviglia i primi passi di Starmer, il nuovo premier laburista britannico. Certo, visto dal lato della scena politica italica, inchiodata nella gabbia dello schema “amico/nemico” e del “noi non facciamo prigionieri”, l’incipit del leader dei Labour, pieno di parole rispettose per il past-premier e avversario Sunak, con passaggi che ne apprezzano l’azione “in un momento difficile per il paese”, dev’essere apparso quasi lunare. La nostra dialettica politica ha abbandonato da anni quella prosa ( democristiana?) sicuramente netta e irriducibile in punta di principio, ma sicuramente rispettosa delle persone che quel principio incarnavano, lasciando il posto al turpiloquio, alla violenza lessicale, ai nobili dialoghi De Luca Meloni, al vannaccismo concettuale e al salvinismo verbale. Problema antropologico? Forse, probabilmente riparabile con un po’di buone maniere. Tutt’altro film, diverso dalla programmazione italiana, viene dunque proiettato nelle sale inglesi. Il risultato del voto non poteva essere più netto: con quasi il 34 % dei voti popolari ( e, grazie al maggioritario, con il 63,38% di seggi alla Camera dei Comuni), torna il partito del Labour, dopo 14 anni di opposizione. Chi ha fatto questo miracolo, dopo la lunga e trista stagione di Corbyn che condannò nel 2019 al più brutto risultato laburista della storia, è un avvocato londinese, sir Keir Starmer, a cui va riconosciuto il merito di aver modificato la percezione che la pubblica opinione ha del partito, emarginando la sinistra radicale. Anzi, ha fatto di più: ha espulso dal partito Corbyn, che emblematicamente ha rappresentato, per una parte significativa del corpo elettorale, la ragione suprema dell’inaffidabilità del Labour, perché troppo “sinistro”. Insomma, Starmer, penalista di successo ed esperto di diritti umani, nella variegata genealogia della grande famiglia della sinistra inglese sembra più vicino alla visione blairiana o, se si vuol fare un salto oltre-oceano, a quella di