La tentata svalutazione della democrazia occidentale
Atene e Sparta: democrazia v/s autoritarismo
Atene e Sparta: democrazia v/s autoritarismo
La colomba della pace tiene un ramoscello d’ulivo nel becco, non la bandiera bianca. Bianca come la veste candida che nella Chiesa cattolica il Papa soltanto può indossare. Non occorre essere papisti o antipapisti, cattolici, protestanti, ebrei o islamici, ma semplicemente umani per giudicare il pensierino di papa Francesco alla stregua di “voce dal sen fuggita”. In effetti, l’inaccettabile esortazione ad alzare bandiera bianca, esortazione rivolta agli aggrediti Ucraini anziché ai Russi aggressori, deve essergli scappata proprio. Candore significa, pure, schietta semplicità, innocenza, purezza, ingenuità. Vogliamo interpretare così il pensierino del Papa? Non possiamo. E non solo perché “in claris non fit interpretatio”: quando l’espressione è chiara non deve essere interpretata. Se no, dovremmo dedurre che la parola ha tradito il pensiero: una deduzione irrispettosa verso un Pontefice che parla. Sappiamo che è inattaccabile quando parla ex cathedra ed afferma una verità di fede. Ma qui non si tratta di una verità, né di fede, né d’altro. “Nescit vox missa reverti”: la parola detta non sa tornare indietro. Specialmente se a dirla è il romano Pontefice, che anche in ragione del “munus petrino” non può pentirsi mai di parole sfuggitegli in un momento di irriflessione. E tuttavia il pentimento, sebbene invano, c’è stato, per interposta persona. Il povero cardinale Segretario di Stato ha dovuto esperire tutte le sue raffinate arti diplomatiche per spiegare che il Papa non aveva detto quel che gli altri avevano capito. Insomma nel mondo intero, stampa e televisioni, secondo il cardinale Parolin, avevano frainteso o, peggio, male inteso. Le spiegazioni, le smentite, le chiarificazioni vengono di solito lasciate alla Sala stampa vaticana. Questa volta, il giorno dopo, il compito è stato affidato addirittura al Segretario di Stato: “interpretare” Urbi et Orbi le parole del Papa, nientemeno! Era indispensabile tentare di attenuare lo choc provocato dalle affermazioni
Ispirata da un gustoso aneddoto Andreotti- Ariosto (Egidio, non Ludovico naturalmente)
Il 24 febbraio sono stati due anni dall’inizio della guerra e gli Ucraini contano i morti. Le vittime civili sono almeno trentamila, mentre rimane sconosciuto il numero di caduti al fronte, stimati tra venticinquemila e settantamila. Al peggio, centomila morti che non sarebbero morti se la Russia di Putin non avesse aggredito e invaso l’Ucraina, violandone i confini una seconda volta dopo l’impossessamento della Crimea. E ciò, tra l’altro, infrangendo proditoriamente gli impegni contratti nella Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa, il cui Atto finale, sottoscritto a Helsinki nel 1975, contiene la “Dichiarazione sui principi che guidano le relazioni tra gli stati partecipanti”, il cosiddetto “decalogo”. È indispensabile elencare tali principi affinché gli smemorati si rendano conto che la Russia di Putin, aggredendo l’Ucraina, non ne ha violati soltanto uno o due, bensì l’intero decalogo. Non era mai accaduto prima. Anche semplicemente scorrendoli, i dieci principi fanno capire a chi vuol capire l’enormità morale, giuridica, politica della guerra di Putin all’Ucraina, guerra che non si spiega se non nell’ottica di operazione bellica prodromica: la nazione aggredita era considerata dall’aggressore un facile boccone perché isolata e debole, e perciò utile a saggiare la volontà e la capacità di resistenza delle limitrofe nazioni ex sovietiche e dell’Occidente tutto. Ecco il decalogo: 1. Eguaglianza sovrana, rispetto dei diritti inerenti alla sovranità; 2. Non ricorso alla minaccia o all’uso della forza; 3. Inviolabilità delle frontiere; 4. Integrità territoriale degli Stati; 5. Risoluzione pacifica delle controversie; 6. Non intervento negli affari interni; 7. Rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione o credo; 8. Eguaglianza dei diritti ed autodeterminazione dei popoli; 9. Cooperazione fra gli Stati; 10. Adempimento in buona fede degli obblighi di diritto internazionale. Putin avrebbe voluto conquistare Kiev e catturare il presidente Zelensky per deportarlo a
Rischi di un bicefalismo di fatto. La legge elettorale dovrebbe precedere non seguire la riforma del premierato
Nella trasmissione “di Martedì” del 23 gennaio, Giovanni Floris ha concesso a Michele Santoro la tribuna per un comizio dei suoi, più lungo del sopportabile. Il solito Santoro, verrebbe da dire, se servisse a qualcosa. Un punto del suo sproloquio merita tuttavia il commento per metterne a nudo la faziosità, non dico l’ignoranza, frammista ad errori. Al culmine dell’intemerata contro l’Occidente, gli Americani, i fascisti, il capitalismo, i guerrafondai, eccetera, Santoro ha citato un episodio a sostegno della sua posizione su fascismo e antifascismo. Anni fa intervistò Gianfranco Fini sulla svolta di Fiuggi, (dal neofascismo del vecchio Msi alla trasformazione in Alleanza nazionale). L’intervista fu allargata ai presenti alla trasmissione, ai quali fu concesso di porre domande a Fini. Qui Santoro ha superato sé stesso con i peculiari paralogismi che usualmente adopera per discorrere e comiziare. Dunque egli ha ricordato che in quell’occasione si alzò dal pubblico un giovane che pose Fini con le spalle al muro rivolgendogli la più straordinaria domanda che egli avesse mai udito e che lui stesso (forse) non avrebbe saputo formulare: “Onorevole Fini, nella seconda guerra mondiale Lei sarebbe stato con Hitler o con Stalin?” La rievocazione dell’episodio ha scatenato applausi scroscianti in studio. Santoro ha appagato la sua vanità. L’ineffabile Floris ha sorriso compiaciuto chissà perché. Con tutta la comprensione per l’età, in realtà il giovane aveva posto una domanda alquanto stupida. Cionondimeno Santoro ha confermato di considerarla perfetta, un’infallibile cartina di tornasole che, a suo dire, smascherò l’ipocrisia della conversione antifascista di Fini. Giovanni Floris non ha replicato a Santoro. Il pubblico in studio non poteva intervenire. Così la strepitosa domanda dell’ingenuo giovanotto, esaltata da Santoro, è stata consegnata a Floris, al pubblico in studio e ai telespettatori in tutta la sua subdola falsità. Perciò devo porre
(a proposito di un libriccino di Giovanni Sallusti con prefazione di Giuliano Ferrara)
Un articolo di stampa ha riacceso, da ultimo, l’annoso dibattito sull’imposta patrimoniale. Non che debba considerarsi una novità, c’è già. Ma ricompare di tanto in tanto, specialmente quando la finanza pubblica è più in crisi del solito. A me sembra già un paradosso introdurre una nuova imposta patrimoniale quando i contribuenti sono in difficoltà. Riterrei che debba parlarsene quando l’economia va prosperando e le sostanze dei contribuenti sono floride. La patrimoniale, afferma il partito dei tartassatori, “serve alla crescita” ed ha “molte buone ragioni a sostegno”, le quali però si ridurrebbero a due: “serie difficoltà nella finanza pubblica” e “gravi iniquità sociali”. Sulle difficoltà finanziarie è impossibile dissentire. Sulle gravi iniquità da sanare con un’imposta straordinaria, sorge più di un dubbio. Innanzitutto, l’idea che un aumento del prelievo tributario “serva alla crescita” è semplicemente assurda, dal momento che, secondo l’Ufficio studi della Cgia di Mestre, nel 2023 i contribuenti italiani fedeli al fisco hanno subìto una pressione fiscale reale del 47,4 per cento: quasi 5 punti in più rispetto al dato ufficiale, che l’anno scorso si è attestato al 42,5 per cento. Inoltre, in che modo la patrimoniale potrebbe “servire alla crescita”? Secondo il partito dei tartassatori, verrebbe impiegata per ridurre il costo del lavoro ed aumentare i salari. Insomma, l’uovo di Colombo. La riduzione del costo del lavoro ottenuta mediante la proporzionale riduzione degli oneri contributivi produce nondimeno l’aumento del debito pensionistico e assistenziale se non compensata da altre entrate fiscali o parafiscali. Pertanto la patrimoniale da straordinaria (l’eccezionalità è la sua essenza originaria) dovrebbe diventare ordinaria. E perché mai i contribuenti dovrebbero pagare l’aumento delle retribuzioni dei salariati? Almeno, quando il cosiddetto cuneo fiscale viene ridotto con il ricorso al debito pubblico, la riduzione pesa sulle spalle di tutti i cittadini, compresi i lavoratori che ne beneficiano. A
Diamo inizio, con questo dotto e analitico articolo d’ inquadramento, firmato dai Pietro Di Muccio de Quattro, a una serie di articoli e interviste sull’Europa, in vista delle elezioni che si terranno quest’anno. Sull’Europa sognata dai grandi europeisti, sull’Europa attuale, sulle sue criticità, sulle riforme necessarie, sulle nuove prospettive e sui nuovi orizzonti, in termini di ruolo più attivo nel contesto geopolitico mondiale
Patendo da due recenti notizie, l’autore nota come esse mettano in luce due facce dello stesso problema ed evidenzino la paradossale disaffezione verso quel libero sistema democratico che nel ventesimo secolo è stato difeso o ottenuto con un mare di sangue proprio dai popoli che ne avevano goduto o anelavano a goderne.
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