Un articolo di stampa ha riacceso, da ultimo, l’annoso dibattito sull’imposta patrimoniale. Non che debba considerarsi una novità, c’è già. Ma ricompare di tanto in tanto, specialmente quando la finanza pubblica è più in crisi del solito.
A me sembra già un paradosso introdurre una nuova imposta patrimoniale quando i contribuenti sono in difficoltà. Riterrei che debba parlarsene quando l’economia va prosperando e le sostanze dei contribuenti sono floride. La patrimoniale, afferma il partito dei tartassatori, “serve alla crescita” ed ha “molte buone ragioni a sostegno”, le quali però si ridurrebbero a due: “serie difficoltà nella finanza pubblica” e “gravi iniquità sociali”. Sulle difficoltà finanziarie è impossibile dissentire. Sulle gravi iniquità da sanare con un’imposta straordinaria, sorge più di un dubbio.
Innanzitutto, l’idea che un aumento del prelievo tributario “serva alla crescita” è semplicemente assurda, dal momento che, secondo l’Ufficio studi della Cgia di Mestre, nel 2023 i contribuenti italiani fedeli al fisco hanno subìto una pressione fiscale reale del 47,4 per cento: quasi 5 punti in più rispetto al dato ufficiale, che l’anno scorso si è attestato al 42,5 per cento. Inoltre, in che modo la patrimoniale potrebbe “servire alla crescita”? Secondo il partito dei tartassatori, verrebbe impiegata per ridurre il costo del lavoro ed aumentare i salari. Insomma, l’uovo di Colombo.
La riduzione del costo del lavoro ottenuta mediante la proporzionale riduzione degli oneri contributivi produce nondimeno l’aumento del debito pensionistico e assistenziale se non compensata da altre entrate fiscali o parafiscali. Pertanto la patrimoniale da straordinaria (l’eccezionalità è la sua essenza originaria) dovrebbe diventare ordinaria. E perché mai i contribuenti dovrebbero pagare l’aumento delle retribuzioni dei salariati? Almeno, quando il cosiddetto cuneo fiscale viene ridotto con il ricorso al debito pubblico, la riduzione pesa sulle spalle di tutti i cittadini, compresi i lavoratori che ne beneficiano. A tacere che le imposte già gravano quasi totalmente soltanto sul 40% della popolazione.
Anche quest’ultima vampata degli zeloti della patrimoniale conferma quanto Adam Smith sia da sempre nel vero ad affermare che “non c’è arte che un governo apprende prima di quella di prosciugare il denaro dalle tasche del popolo.” Un maestro di saggezza economica come Sergio Ricossa esprimeva la stessa verità in modo brutale ma incisivo quando, giustamente indignato, sbottava: “Qualunque imbecille può inventare una nuova imposta”. In effetti, l’arte di governo consiste nel fare al meglio con poco. Generalmente parlando, il meglio con molto parrebbe più facile. Tuttavia non in politica, dove al contrario vige la legge dell’inutilità marginale crescente, da definire così: quanto più cresce il prelievo dei tributi (il sangue dei contribuenti), tanto decresce l’utilità sociale nell’impiegarli.
Anche quella fazione del partito dei tartassatori, che riconosce nei governi la tendenza a spendere soldi presi a prestito, cade poi nell’illusione draghiana sulla possibilità di distinguere tra “debito buono” (investimenti in capitale fisico ed umano che aumentino la produttività) e “debito cattivo” (investimenti improduttivi). Forse quella fazione sottintende pure una distinzione tra “patrimoniale buona” e “patrimoniale cattiva”? Con tutta l’ammirazione rispettosa che possa nutrirsi verso un Garibaldi delle istituzioni, resta che, senza volerne dir male, la distinzione di Draghi è ottima come retorica politica ma approssimativa per l’azione economica.
La spiegazione, semplice quanto inoppugnabile, sta in ciò: ogni investimento è intrinsecamente aleatorio. Conseguire a tavolino la certezza della remuneratività di un investimento contraddice la natura umana dell’ordine sociale. E l’alea dell’investimento decretato dai soggetti pubblici è logicamente più elevata innanzitutto perché non rischiano nulla in proprio. All’evidenza, l’investimento pubblico del capitale ricavato dai tributi o, peggio ancora, dal debito pubblico è di per sé più rischioso dell’investimento privato dello stesso capitale. L’alea equivale addirittura alla sprovvedutezza conclamata allorché il prelievo tributario consista, appunto, in una imposta patrimoniale incidente su contribuenti (la minoranza che contribuisce davvero!) già sottoposti ad una pressione fiscale alla soglia di compatibilità con il sistema libero.
Pietro Di Muccio de Quattro