Forse perché fa rima con la “cavallinità”, di cui Aristotele negava l’esistenza per polemizzare con Platone e la sua teoria delle idee innate, il concetto di “licealità” ha sempre goduto di scarsa fortuna fra gli studiosi di scienze pedagogiche, ammesso che la pedagogia sia effettivamente una scienza e non un’arte.
Definire lo “specifico liceale”, che distingue tale ordine di studi dall’arcipelago dei tecnici e dei professionali, è particolarmente difficile da quando si è registrata una proliferazione di istituti che rivendicano a ragione o a torto tale qualifica. Sino agli anni Novanta, il numero dei licei usciti dalla riforma Gentile era relativamente limitato. Dopo l’illacrimata fine del liceo femminile, uscito di scena già nel 1928, perché anacronistico anche nel clima culturale del Ventennio, in cui il ruolo della donna stava già cambiando, i licei cui si rivolgevano gli alunni usciti dalla scuola media erano sostanzialmente quattro il liceo classico, il liceo scientifico, il liceo artistico e il liceo linguistico.
I primi due erano figli della riforma Gentile; il liceo artistico era nato invece da una sperimentazione degli anni Sessanta, come scuola propedeutica sia all’Accademia di Belle Arti sia alla facoltà di Architettura. Il liceo linguistico era invece un piccolo grande scandalo burocratico. Era nato da una sperimentazione dei primi anni Settanta, voluta dal ministro Malfatti – quello degli omonimi decreti delegati, – ma tale sperimentazione era stata avviata solo presso istituti parificati o legalmente riconosciuti, in parole povere privati.
Di conseguenza era una scuola per ricchi, molto caro alle ragazze della buona società desiderose d’intraprendere la carriera, all’epoca alla moda, di hostess o quella più impegnativa di interprete. Uno schiaffo al dettato costituzionale dell’istruzione gratuita anche ai livelli più alti per i capaci e meritevoli, di cui fece le spese anche la giovane Giorgia Meloni. Desiderosa di studiare le lingue, ma priva dei mezzi necessari per frequentare una scuola privata, il futuro presidente del Consiglio frequentò un istituto alberghiero, per altro con ottimi risultati, diplomandosi con sessanta sessantesimi, come dimostra per altro anche la sua scioltezza nelle relazioni internazionali.
Tutti questi licei prevedevano nel curriculum scolastico lo studio del latino, a parte l’Artistico, e della filosofia, considerati essenziali per una paideia fondata su valori di humanitas e sullo sviluppo dello spirito critico; l’apprendimento della lingua madre era previsto del resto anche nell’abortito Liceo femminile, nel cui curriculum non c’erano solo lo studio del pianoforte e dell’economia domestica. La situazione è iniziata a cambiare negli anni Novanta, per effetto di due fattori: la tendenza a diversificare l’offerta formativa in funzione delle reali o presunte richieste delle famiglie (o, per usare un termine caro al “pedagoghese”, della “utenza”) e la scomparsa degli istituti magistrali.
Gli istituti magistrali, così denominati con la riforma Gentile, che li aveva elevati culturalmente soprattutto nelle discipline umanistiche, erano scuole che con quattro anni di studio dopo le medie permettevano di accedere al diploma di abilitazione all’insegnamento nelle scuole elementari. Mentre un laureato per insegnare nelle scuole medie o superiori doveva (e deve) superare un esame di Stato, come del resto medici, architetti, avvocati e via discorrendo, il maestro non doveva superare questo scoglio. Nel corso degli anni il quadro orario di tale ordine di studi aveva conosciuto diverse variazioni, ma lo studio del latino e della filosofia, sia pure integrato con quello della pedagogia, non era mai stato messo in discussione.
Carlo Alberto Biggini, l’ultimo ministro dell’Educazione nazionale del regime fascista, nonché il primo e ultimo della Rsi, aveva quinquennalizzato questo tipo di scuola, con una scelta non infondata: non si capisce perché per formare un maestro, che educa le future generazioni, sia necessario meno tempo che per istruire un ragioniere o un geometra. Dopo la guerra, però, l’istituto magistrale era tornato a essere quadriennale: secondo il giudizio malizioso di taluno, non tanto per avversione alla scelta di un ministro fascista, quanto perché molti istituti magistrali erano istituti paritari gestiti da suore, cui un prolungamento del corso di studi avrebbe fatto perdere un ottimo bacino di utenza.
Fatte salve le debite eccezioni, la formazione impartita in queste scuole era comunque di buon livello e quando, nel 1969, fu consentito l’accesso a tutte le facoltà universitarie ai diplomati di ogni istituto superiore le facoltà di magistero poterono disporre di frequentatori (e soprattutto frequentatrici) di un livello superiore e comunque più omogenei rispetto agli studenti di Lettere, cui poteva iscriversi anche chi usciva dai Professionali e non aveva mai studiato né filosofia né latino.
Chi scrive ricorda come la facoltà di Magistero fiorentina, con docenti come Luigi Baldacci, Giorgio Spini, Salvo Mastellone, il giovane Franco Cardini, non avesse nulla da invidiare a quella di Lettere. E ricorda anche la sua delusione per aver potuto seguire solo come uditore le lezioni sulla storia della cavalleria medievale di quest’ultimo, perché fra le due facoltà esisteva un rigoroso apartheid.
Siccome in natura nulla si crea e nulla si distrugge, quando venne stabilito che per insegnare anche alle elementari e persino alle materne fosse necessaria una laurea, si pose presto il problema di come utilizzare gli edifici scolastici, i docenti, i presidi e il personale tutto di istituti che avevano perso la loro ragion d’essere. Il risultato fu il moltiplicarsi di nuovi istituti, tutti intenti a contendersi le iscrizioni, magari con la pubblicità a pagamento sui giornali e quelli che, con un anglismo alla moda, vengono chiamati open days. E questi istituti non potevano non chiamarsi licei.
All’inizio, fu la volta dei licei linguistici, finalmente sottratti alla speculazione, scelta sacrosanta, visto che delle due l’una: o una scuola viene considerata inutile, e allora non dovrebbe essere consentito nemmeno ai privati aprirla, o è utile, e allora è immorale che lo Stato non ne consenta l’accesso a chi non ha i soldi per la retta. Ma poi l’italica fantasia si sbizzarrì, a furia di sperimentazioni, nella creazione di una serie di indirizzi non sempre utili, detti delle scienze umane, che scientifiche per altro non sempre lo sono. Ecco così il proliferare di licei psico-socio-pedagogici (orgia di pseudoscienze, avrebbero detto Croce e Gentile, uniti in questo dopo la frattura legata al fascismo…), ma anche economici, biologici e persino sportivi, in cui, con grande gioia degli allievi, lo studio delle norme della sintassi dei casi è sostituita da quella delle regole del fuorigioco.
In alcuni di essi un po’ di latino resta, ma spesso come semplice foglia di fico, nei primi anni, così come la filosofia, sia pur sommersa nel mare magnum delle scienze umane. In altri invece no. Ma quello che colpisce nei vari piani di studi è l’incompatibilità con quello che è sempre stato il fondamento dell’insegnamento liceale: non multa, sed multum, non molto, ma poco e bene. Ovvero non disperdere l’impegno degli alunni in una pletora di materie fatalmente poco approfondite, ma concentrarne lo studio su poche discipline intimamente formative.
Non a caso, prima delle recenti riforme, il quadro orario di un liceo classico prevedeva una permanenza a scuola molto inferiore rispetto a un tecnico e a un professionale, perché la finalità dell’insegnamento impartitovi era di favorire le capacità di approfondimento e di riflessione critica su alcune materie altamente formative.
Per tali motivi in Italia di tutto si avvertiva l’esigenza meno che di un nuovo liceo, anzi, sarebbe stato lecito aspettarsi che il nuovo governo provvedesse a una discreta potatura di una pletora di indirizzi di dubbia utilità, restituendo al Liceo, quello con la Elle maiuscola, il suo valore storico e in certo qual modo sacrale. E invece spiace dover constatare come il Ministero dell’Istruzione e del Merito di licei ne abbia partorito addirittura uno nuovo, che si presenta sin dalla denominazione come una singolare mésalliance fra un nobile vocabolo di origine greca e un’espressione inglese: strana idea, per un governo che sembrava, non a torto, intenzionato a porre un argine all’abuso di barbarismi nelle scartoffie burocratiche.
Secondo fonti ministeriali, il nuovo liceo si rivolge a chi “è interessato a conoscere l’origine e le caratteristiche delle eccellenze italiane, la creatività e l’imprenditorialità che caratterizzano la produzione made in Italy; vuole scoprire le caratteristiche di qualità e di eccellenza che rendono celebre in tutto il mondo il brandItalia; vuole possedere una cultura completa, che abbracci tanto le discipline umanistiche quanto le materie STEM (acronimo inglese per science, technology, engineering and mathematics, ndr) con una particolare attenzione al mondo dell’impresa.” È naturale che la presentazione di una nuova proposta educativa non possa essere che autoapologetica, tuttavia dinanzi a questo bel santino sarebbe opportuno porsi almeno due interrogativi.
In primo luogo, siamo sicuri che per conoscere le eccellenze italiane sia necessario frequentare uno specifico liceo? L’insegnamento della storia, della storia dell’arte, della storia della scienza dovrebbe essere sufficiente, se svolto correttamente e senza complessi d’inferiorità, a far sapere ai giovani – fin dalle elementari – che la maggior parte dei capolavori architettonici, artistici, letterari patrimonio dell’umanità sono opera di autori italiani e che le maggiori scoperte e invenzioni – dalla pila al telefono, dal motore a scoppio alla dinamo e alla radio, per tacere del contributo di Fermi alla fisica atomica – sono opera di italiani.
Questo andrebbe insegnato in tutte le scuole, a partire dalle prime classi, ma non c’è bisogno di istituire un apposito liceo per farlo sapere. Certo, noi italiani siamo i peggiori nemici di noi stessi, prova ne sia che abbiamo accettato che l’unità di misura della tensione elettrica si chiami volt e non volta, mentre i francesi non hanno accettato di contrarre ampère in amp, limitandosi a sacrificare l’accento grave sulla e perché le tastiere inglesi non hanno l’accento. Ma questo è un altro discorso.
In secondo luogo, il comunicato ministeriale afferma che il nuovo liceo si rivolge a coloro che ambiscono a formarsi “una cultura completa”. Ma ne siamo proprio sicuri? E soprattutto cosa si intende con tale espressione? Da quanto si evince dal quadro orario del biennio del nuovo liceo, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 27 dicembre scorso, non vi è previsto l’insegnamento del latino. Se tale disciplina non è presente nei primi due anni, difficilmente lo sarà nel triennio, visto che com’è noto l’insegnamento delle lingue è consigliabile quando la mente è più fresca e la memoria più ricettiva. Ora un liceo (per di più del made in Italy) che non preveda l’insegnamento, sia pure all’acqua di rose, della nostra lingua madre non può dire di fornire una cultura completa. È amaro constatare che, mentre un governo di centrosinistra, nel 1962, volle estendere a tutti gli alunni di seconda media un anno di insegnamento del latino, un governo di centrodestra lo escluda anche per i liceali. Inoltre, non essendo ancora stato pubblicato il quadro orario completo, non è possibile sapere se al triennio sarà previsto l’insegnamento della filosofia, disciplina che – se insegnata storicamente, non sotto forma di indottrinamento ideologico – costituisce con il latino la differenza specifica fra un liceo e un istituto tecnico o professionale.
Dal quadro orario in questione emerge poi che all’insegnamento della storia dell’arte, fondamentale per una scuola che voglia insegnare a valorizzare le nostre eccellenze, sarà dedicata solo un’ora settimanale, la metà che all’educazione fisica, e che l’insegnamento della storia e della geografia sarà accorpato in un ristretto ambito orario, a vantaggio di discipline come diritto ed economia.
Può darsi che al triennio, certe lacune saranno colmate, ma si tratta di una mera ipotesi, e questo aiuta a comprendere la riluttanza di molti istituti – prevenzioni politiche a parte – ad adottare un po’ a scatola chiusa il nuovo indirizzo e di molte famiglie a iscrivervi i figli.
Il fatto è che al momento non risulta ben chiaro chi si intenda formare con il nuovo corso di studi: delle guide turistiche, dei venditori di prodotti di nicchia, degli osti che decantano le prelibatezze della ribollita o della finocchiona, degli spedizionieri, dei cantastorie emuli di Toto Cutugno?
Si tratta, beninteso, di mestieri rispettabilissimi, anche l’ultimo, ma non è propriamente questo il compito di un liceo, che dovrebbe preparare persone di buona cultura in grado di svolgere lavori di concetto ma soprattutto entrare all’università con una solida formazione di base e magari, al momento di porre un aut aut, non scrivere out out, come ormai spesso avviene anche a dei laureati. Purtroppo, invece, spiace constatare come accanto a una licealizzazione dei professionali e dei tecnici, col diradamento delle discipline tecnicopratiche, stiamo assistendo a una professionalizzazione dei licei. Ed è strano che questo avvenga con un ministro come Valditara che è un insigne latinista e un serio studioso di diritto romano. In Toscana, con un’espressione un po’ brusca, si suole dire che “non si deve confondere il culo con le quarantore”. In questo caso, viene spontaneo domandarsi che senso abbia nelle aule di un liceo sostituire il culatello a Cicerone.
Enrico Nistri – Saggista