Cultura

Uno nessuno e…..Unamuno

Non è cosa rara scorgere forti affinità tra scrittori coevi soprattutto se condividono, come in questo caso, l’attitudine a filosofeggiare o siano filosofi autori di opere letterarie orientate solitamente sul dramma e sul romanzo: due generi in cui si aprono larghi spazi per dissertare, monologare, astrologare, mettersi di fronte allo specchio e almanaccare su sé stessi e sul senso dell’esistere. Sto parlando di quella singolare convergenza che caratterizza alcuni scritti di Miguel de Unamuno e del nostro Pirandello. Una somiglianza di intenti, invenzioni, riflessioni, che in taluni momenti finisce per sorprendere, tanto è stretta, tanto è sovrapponibile. Per singolare coincidenza anche l’anno della morte dei due è lo stesso: il 1936. In un articolo del 1923 è lo spagnolo a riconoscere questa forte parentela, fin dal titolo Pirandello y Yo:  “È un fenomeno curioso e che si è dato molte volte nella storia della letteratura, dell’arte, della scienza o della filosofia, quello che due spiriti, senza conoscersi né conoscere una per una le loro opere, senza porsi in relazione l’uno con l’altro, abbiano perseguito uno stesso cammino ed abbiano tramato analoghe concezioni o siano arrivati agli stessi risultati. Si direbbe che è qualcosa che fluttua nell’ambiente. O meglio, qualcosa che è latente nella profondità della storia e che cerca chi lo riveli”.       Unamuno usa alcuni termini già di per sé pirandelliani come tramare concezioni o portare alla luce dalle profondità della storia significati latenti, che fanno pensare alla dolorosa ma implacabile ermeneutica pirandelliana, alla pressione esercitata su di lui dal demonietto umoristico, dall’infernale macchinetta della coscienza critica come mental detector in grado di  andare oltre le apparenze storiche e le maschere sociali. Non si tratta di coincidenze tematiche o di motivi riconoscibili in entrambi gli autori (come accade nelle composizioni musicali) ma di interi pezzi di pensiero

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Dalla redazione

Riletture/ Guido Gozzano, un dandy dissimulato

Spesso incluso e confuso nel movimento dei Crepuscolari, Guido Gozzano si staglia su di loro con una sua purezza, oserei dire assolutezza lirica che – rovesciata- ha la stessa importanza dell’avventura dannunziana. Guido e Gabriele furono entrambi cultori del dandysmo, ma se il pescarese declinò la religione del bello e il bisogno ardente di singolarità in forme sonoramente evidenti e atteggiamenti esibiti, il torinese nascose la sua repulsa dei valori borghesi fingendo di accoglierli e facendone il focus della sua poetica, che potrei definire “del modular modesto e timoroso”. Ma non riesce a nascondere l’alta letterarietà del suo prosaico poetare, la raffinatezza del suo gusto, per quanto cerchi di dissimularle nell’esibire l’artificio citando le fonti proprio mentre rovescia i miti del dannunzianesimo corrivo ( eros, donna, automobile, eroe, attivismo..). In questo consiste l’effetto paradossale che ottiene, quello di risultare molto più “aristocratico” del vate abruzzese. Mentre racconta la vergogna di essere poeta di quel coso con due gambe detto Guido Gozzano, canta il peana più convincente alla bellezza come valore irrinunciabile per l’uomo. Stesso paradosso ottiene quando, “fingendo” aridità sentimentale, canta amori improbabili con cocottes, servette e “signorine” ( che brutta parola, degno prodotto del nostro tempo….) e li affida a versi lucidissimi in cui intreccia aulico e prosaico, facendo rimare Nietzsche con camicie. Versi parnassiani li definì Montale, indicando con quell’aggettivo una scelta estetica consapevole e un gusto per il cammeo prezioso, il lavoro di lima di un “verso che colma e sostiene la strofa” nascondendo i dislivelli, i salti in aria così frequenti nei grandi lirici. Un riconoscimento dovuto che poteva provenire solo da chi ne aveva anche assorbito la lezione, insieme all’attraversamento inevitabile di D’Annunzio. Amo leggere Gozzano (ecco, viene da sé l’assonanza) e le sue rose non colte. Mi pare superfluo ricordare la simbologia erotica della

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Cultura

Ma cos’è questo fantastico? Il “sospetto” di una filologa

A proposito delle celebrazioni del geniale autore della saga “Il Signore degli anelli“, una filologa fa chiarezza su fantastico e fantascientifico. E fa l’esempio di Italo Calvino: egli “ha dimostrato nelle Cosmicomiche come si possano coniugare tensione fantastica, conoscenza scientifica e pensiero critico, vedere cioè il rovescio delle cose, il lato oscuro della Luna”.       Poi la filologa esprime un sospetto: “la seduzione esercitata da Tolkien sui nostri fanciulleschi e sorridenti governanti non sarà legata alla sua formula sostanzialmente rassicurante?” Le “celebrazioni”(fortemente volute dal nostro governo con amplificazione mediatica) del geniale autore della saga “Il Signore degli anelli”, mentre ne amplificano la caratura letteraria, esondano verso esegesi del testo in chiave etico-sociale che scomodano archetipi filosofici e religiosi, finiscono col ridurre il valore intellettuale e la cultura di Tolkien, presentandolo semplicemente come uno scrittore di fantascienza. In realtà egli tentò per due volte l’approccio a questo genere narrativo impegnandosi nel tema del “viaggio nel tempo”, senza però arrivare a buon fine. Ciò dimostra materialmente che la sua opera appartiene piuttosto alla grande categoria del fantastico o -come si ama dire- del fantasy, anzi dell’high fantasy. Il successo popolare di The Lord of the Rings, fin dalla sua apparizione nel 1965- in edizione pirata e nell’immediato sconfessata dall’autore- ne consacrò malgré lui la fama di scrittore fantascientifico, assimilabile ad Asimov e comunque al genere che privilegia il sense of wonder, almeno per i lettori non specialisti.     Tra fantastico e fantascientifico, pur essendo facili la confusione, la contaminazione o addirittura la sovrapposizione, in realtà corre una sensibile differenza in termini di purismo letterario. Differenza che lo stesso Asimov contribuì a cancellare, quando manifestò pubblicamente la sua ammirazione per l’opera di Tolkien, che definì un “capolavoro”. Da allora la dislocazione di quella saga così letta e apprezzata dal vastissimo

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Cultura

“La terra più amata”

Dopo l’articolo sulla letteratura come antidoto del fanatismo, scritto nella scia di Amoz Oz, ecco un omaggio di Caterina Valchera alla poesia palestinese, con i suoi sogni, i suoi dolori e ideali. Non è un gesto di rituale par condicio, è un anelito e un augurio di pace tra i due popoli, al cui raggiungimento la poesia può dare una forte spinta e alimento.

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Cultura

Perché non dovremmo mentire? (Einstein)

A proposito del film Oppenheimer “Prometeo moderno” e della “moralità” della scienza, Il focus del film al di là delle forti suggestioni da biopic movie: come si può conciliare il carattere irrinunciabilmente descrittivo della scienza con quello prescrittivo della morale e della politica?

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Cultura

Quando rubare vale la… penna

Ladra di versi. Così si autodefinisce Patrizia Valduga nel suo Libro delle laudi con consumata ironia e profonda consapevolezza letteraria. E da questa sua divertita e divertente ammissione mi piace prendere il via per il mio omaggio a una grande poeta, ancora vivente, che è una tra le più sorprendenti voci del secondo Novecento.     Lo faccio solo per il gusto di parlare di quella inutile, trascurata, forse dileggiata cosa che è la poesia ai giorni nostri, e anche per disintossicarmi dal linguaggio monotonale dei media, o forse ancora come antidoto alla irragionevolezza degli accadimenti attuali. La poesia, infatti, anche se non sembra, ha sempre le sue ragioni, e le ha ancora di più quando, come in questo caso, sembrano trascendere la poeta stessa, obbligandoci a seguirla nei suoi rincorrersi, nel suo perdersi e cercarsi nelle increspature dei suoi tanti Io, realtà predicate come essenze da scoprire sempre attraverso la parola. La parola “altra” che si nutre voracemente di parole “altre”, che si carica di senso e di sonorità portando con sé, come una rete a strascico, il lavoro creativo del passato, vicino o remoto, come una vena d’acqua che si alimenti alle fonti del poetare, tra sacralità e trasgressione. Da poeta “forte” qual è, la Valduga sa perfettamente che, nel mondo sovrappopolato del linguaggio letterario, ogni poesia è una riscrittura, un’“interpoesia”(per citare Harold Bloom): anche quando sembra assolutamente nuova e inedita, essa è sempre una ripartenza. “Sono una sorta di juke box che va da Dante, a Pascoli, a Raboni ”- confessa candidamente Patrizia Valduga- non solo identificando così alcuni suoi maestri, ma soprattutto ricordandoci che la poesia vive sempre all’ombra della poesia. Sembra pensare anche, come Vico, che essa si muova in una sfera contaminata con il regno dei morti, degli auspici, del divinari. Perciò chiama questi

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