C’è qualcuno che ride

Partendo da un discusso "spot televisivo", si dipana una riflessione sulla comunicazione, l’umorismo, la satira arrivando a Pirandello

Mentre mi accingo a scrivere, dall’altra stanza mi arriva la voce di uno degli intrattenitori mattutini della nuova tv di stato che ha sostituito quasi tutto il vecchio staff, specialmente nella Rete cosiddetta Ammiraglia e quasi non credo alle mie orecchie: sta letteralmente parlando di soldini che, grazie al generoso intervento del governo, entreranno nei portafogli della gente ad hoc selezionata.

Intendevo parlare d’altro, ma lo stupore e il fastidio mi costringono a riflettere sulle attuali modalità di comunicazione della TV generalista. Neppure negli anni Cinquanta ci si permetteva un tale livello di infantilizzazione espressiva, degna di un imbonitore che debba reclamizzare la sua merce. Non c’è nulla di casuale in questa revolution regressiva (mi scuso per l’ossimoro) inaugurata dalla premier con la sillabazione delle parole: corrisponde alla ri-funzionalizzazione del medium secondo l’ideologia che la sostiene e che presuppone un pubblico da persuadere della bontà del prodotto.

Oggi un adulto non oserebbe parlare così neppure a un bambino; i teleutenti-di qualunque fascia- non sono dei minus habentes cui propinare un linguaggio o sdolcinato o rétro o aggressivo. I nuovi diktat della comunicazione mediatica di stato sono infatti suadere, prescrivere, asserire, allettare, blandire: a seconda delle fasce orarie si scelga tra queste opzioni. Da un anno è scomparsa dagli schermi qualunque forma di umorismo, per non parlare poi della satira, grande assente da troppo tempo per non rappresentare un aspetto preoccupante sul piano culturale e politico. Non potrebbe essere altrimenti, però.

Il primo, l’umorismo, soprattutto quando è “alto”, rappresenta la breccia aperta dall’intelligenza critica nel muro della rappresentazione corriva delle cose, come insegnano Pirandello, ma anche Bateson, per i quali le strategie umoristiche indicano in primis il disallineamento interpretativo, lo sdoppiarsi del livello narrativo, il contro-potere del ridere. Ma ormai resta escluso anche il tipo di gioco che all’umorismo appartiene e che consiste nell’arte del paradosso, nella creatività della vis jocosa.

Ammessi solo i giochi infantili: regali, indovinelli, pacchi, pacchetti da scartare, cassetti da aprire per scoprire lati sconosciuti di persone che dovrebbero risultarci interessanti o per portare a casa quei soldini, per l’appunto. Lontana anni luce da questa dimensione di intrattenimento è quella che Fry, in comune con Bergson, ha definito la dolce follia, cioè la modalità paradossale dell’atto comunicativo, l’esplorazione di altri modi di sentire e di giudicare. In poche parole la vena umoristica di Guzzanti.

So benissimo- come rilevava Gregory Bateson- che l’umorismo è un’arte sottile, difficile da esercitare e che si presta poco ad essere massificata dai media. Non è facile stare in bilico in una situazione che si sdoppia e in cui si scambiano il dentro e il fuori, in un discorso perennemente esposto al rischio di oltrepassare la linea immaginaria e oscillante della verità paradossale. Si tratta della linea della libertà (parà-doxa) contrapposta a quella della rigidità della logica: solo l’immaginario narrativo e teatrale di Pirandello è riuscito a coniugarle e a dimostrare la paradossalità del suo argomentare con la stessa forza stringente della logica classica. I suoi teoremi sono esposti e spiegati ricorrendo a una speciale “retorica” capace di costruire una vera e propria anti-doxa, di rendere accettabile una visione del mondo alternativa, di asserire “verità” che sono il frutto della sospensione e confutazione di quelle correnti e unanimemente accolte. Nel gioco dialettico del Grande Me e del Piccolo me ( un testo- chiave del cosiddetto dualismo pirandelliano) la macchinetta infernale della dimostrazione umoristica smonta luoghi comuni, lacera il tessuto delle convinzioni, entra nei frameworks (per usare il lessico teorico di Erving Goffman che con Pirandello ha molti legami di parentela) e li smonta, li lacera, li fa attraversare dalla riflessione umoristica, strappando il cielo di carta del teatrino borghese.

E lo fa non con un discorso focalizzato sull’interiorità, come generalmente si afferma, ma platealmente, teatralmente, come un tribuno che sale sul palco della dialettica tradizionale e la moltiplica rendendola inservibile. Un ring dove l’anti- pensiero pirandelliano abbatte- sotto la luce dei riflettori- la comune doxa, un’aula di tribunale dove la sua esposizione dei fatti smonta quella dell’avversario, un luogo pubblico dove “rappresenta” la sua visione del mondo: il teatro.

Tutto in Pirandello è teatro, anche nella dimensione narrativa, e le storie immaginate diventano veicolo di un “discorso pubblico” dove il protagonista sfrutta ogni risorsa sermocinante perché deve persuadere il pubblico di quanto va asserendo e che deve disturbare la pubblica quiete. Soprattutto sulla scena teatrale Pirandello riesce ad ottenere questo risultato: il portatore dell’anti-doxa, il suo “eroe” deve permanere in uno stato di estraneità incomprensibile agli “altri”.

Una  lezione di affrancamento da convenzioni e stereotipi oggi più che mai utile a contrastare energie retroattive sia sul piano morale che sociale, tese a forzare la iper-modernità( per altri versi ben accolta) per riproporre regole e invocare valori sociali che un secolo fa il grande scrittore-umorista si era premurato di smantellare: identità, perbenismo, famiglia (la trappola per eccellenza secondo l’autore siciliano), buon senso borghese (mai l’onestà..),lavoro (altra trappola se è monotono e frustrante), Dio (addirittura da difendere!), natura come normalità (quindi forma/morte e non nell’accezione vitalistica dell’ “essere”, del vivere nel flusso indistinto dell’esperienza).

Certo che nello scrittore di Girgenti la spinta anarchica era molto forte, il bisogno di “libertà” una pulsione irreprimibile come la risata, grande la “pena del chiudersi” in una forma. Ma proprio questo bisogno- al di là dei frutti letterari che ha prodotto- lo iscrive nella famiglia della controcultura, che va da Baudelaire a Kerouac passando per Freud: di quest’ultimo, in modi non specialistici, Pirandello anticipava la dialettica tra le ferree leggi del principio di realtà, che esige un ampio dispendio di energie psichiche (fino alla preferenza per la follia, l’ascetismo o la mendicità, come accade a Vitangelo Moscarda) e il principio di piacere, liberatorio, informale, improvviso come una risata, fresco come l’aria che respiriamo da bambini.

 

Caterina Valchera – Filologa

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