Pirandello e Deledda un rapporto molto difficile. La scrittrice Premio Nobel non fu propheta in Patria

Lo scrittore Antonino Cangemi arricchisce la sua godibile galleria di "coppie" di personaggi con un ritratto di due scrittori con vari tratti comuni di destino, e divisi da gelosie, invidie e, da parte di Pirandello, da qualche motivo maschilista.

Nemo propheta in patria. Non fece eccezione Grazia Deledda: apprezzata in tutta la Penisola e fuori di essa, bistrattata dai conterranei. L’accusa, ricorrente per tanti scrittori meridionali: infangava la sua isola descrivendone miserie e arretratezze.

La Deledda nasce a Nuoro il 27 settembre del 1871. La sua è una famiglia della buona borghesia sarda: il padre è laureato in Legge e ama la letteratura ma, possidente, si dedica all’agricoltura e al commercio; la madre è una donna severa votata alla tradizione. Le impone una rigida educazione impedendole di frequentare la scuola: solo la quarta elementare, poi istruttori privati. Fin da piccola, la Deledda rivela la passione per la scrittura. Appena diciassettenne, invia i suoi primi racconti alla rivista “L’ultima moda”, che li pubblica e che, subito dopo, dà alle stampe un suo romanzo. Il suo racconto Sangue sardo desta scandalo, il prete, durante l’omelia, l’accusa ai fedeli: ‹‹Farebbe bene a pregare chi invece si diletta nello scrivere per i giornali storie scostumate››.

Nel 1890, non ancora ventenne, con uno pseudonimo pubblica sul quotidiano di Cagliari “Avvenire di Sardegna” Stella d’Oriente e successivamente altri romanzi e novelle. Ma il romanzo che le regala la prima vera soddisfazione è La via del male del 1896. Lo recensisce Luigi Capuana, uno dei suoi più autorevoli sostenitori: ‹‹La signorina Deledda fa benissimo a non uscire dalla sua Sardegna e a continuare a lavorare in questa preziosa miniera, dove ha già trovato un forte elemento di originalità. I suoi personaggi non possono essere confusi con personaggi di altre regioni; i suoi paesaggi non sono vuote generalità decorative.

Il lettore, chiuso il libro, conserva vivo il ricordo di quelle figure caratteristiche, di quei paesaggi grandiosi; e le impressioni sono così forti, che sembrano quasi immediate, e non di seconda mano››. La conferma del suo talento giunge poco dopo, nel 1903, con Elias Portolu e con altri romanzi che piacciono ai lettori e alla critica: Cenere del 1904 – da cui è tratto nel 1916 l’omonimo film con l’interpretazione (l’unica nel cinema) di Eleonora Duse -, L’edera del 1908  e, soprattutto, Canne al vento del 1913, l’opera che più di tutte resiste nel tempo.

Il 10 dicembre del 1927 la Deledda riceve il premio Nobel: è riferito all’anno precedente quando non era stato assegnato per mancanza di candidati idonei. E’ la prima donna italiana a ottenerlo e la seconda in assoluto. Nella motivazione si legge: ‹‹Per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita qual è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano››.

Ed è una sintesi felice della sua poetica che non si esaurisce in un’adesione (tardiva) al Verismo (Borgese la definì ‹‹una degna scolara di Verga››) né al Regionalismo e al Decadentismo.

Deledda è una voce originale: nell’universo ancestrale e tribale, rurale e pastorizio, della sua Sardegna si consuma il dramma della fragilità umana sospeso tra la passione dell’amore, il peccato e il rimorso e si sente l’eco, otre che della letteratura realistica italiana, dei grandi scrittori europei, quelli russi soprattutto. Non a caso Maksim Gor’Kij e David Herbert Lawrence, che nel 1928 scrive la prefazione alla traduzione in inglese de La madre, ne tessono le lodi.

 

Chi invece non la plaudì fu Luigi Pirandello.

Tra i due vi fu un lungo, mal dissimulato rancore. S’incontrano a Roma nella redazione di “Nuova Antologia” e il drammaturgo agrigentino, più che lei, nota il marito: si chiama Palmiro Madesani ed è il suo agente letterario. La Deledda lo conosce a Cagliari alla fine del 1899. Dopo pochi mesi si sposano e vanno a vivere a Roma. Lui è un funzionario del ministero delle Finanze originario del Mantovano ma, dopo le nozze, lascia l’impiego e diventa il suo segretario.

 

 

 

Negli ambienti letterari lo battezzano Grazio Deleddo, forse su suggerimento di Pirandello. Il 18 dicembre 1908 Pirandello scrive all’amico Ugo Ojetti e gli annuncia che invierà a Emilio Treves il romanzo Suo marito che prende spunto da Madesani: ‹‹Manderò pure a Treves, spero in aprile, il romanzo “Suo marito”. Sono partito dal marito di Grazia Deledda. Lo conosci? Un capolavoro, Ugo mio, dico il marito di Grazia Deledda – intendiamoci…››. Un romanzo a cui Pirandello tiene molto e di cui ha cominciato la stesura già da alcuni anni, come testimonia le lettera a Luigi Villari del 10 marzo 1905: ‹‹Intanto scrivo un altro romanzo umoristico: Suo marito. Il marito di una grandonna, marito contabile e segretario. Figuratevi!››.

Nel 1911 la sua pubblicazione con i tipi di Treves sembra imminente: in una lettera del 6 febbraio Pirandello chiede ad Alberto Albertini, fratello del direttore del Corriere della Sera Luigi, di pazientare per l’invio di novelle perché ‹‹stretto da un impegno con Treves›› e gli fa sapere, per giustificare i suoi ritardi, che deve ‹‹assolutamente consegnare il manoscritto del romanzo Suo marito alla fine del mese venturo››.

Ma nel settembre del 1911 giunge, inatteso, il rifiuto di Treves. La sua è una lettera garbata ma decisa che mette in guardia Pirandello dai riflessi che quella pubblicazione potrebbero avere sulla sua infelice situazione coniugale. La posizione dell’editore è ragionevole e mira a evitare pettegolezzi nei salotti letterari a danno del drammaturgo e, soprattutto, della Deledda – anche lei nel catalogo di punta di Treves – che non gradisce il romanzo e si adopera per impedirne le stampe.

Pirandello non la prende bene e in una lettera a Ojetti del 30 luglio 1911 sfoga la sua rabbia e la sua indignazione verso Treves: ‹‹Mio caro Ugo, mi capita un bel caso! Mando finalmente a Treves il ms del romanzo “Suo marito” che – come sai – è dedicato a te e – come non sai – mi è riuscito veramente bene e tale che potrà avere – se gli saran candidi i fati – una grande fortuna. Ed ecco che cosa mi risponde il Treves! Evidentemente la D.dda, la quale ha saputo dell’invio da un giornale di Roma che mi ha “intervistato” è corsa al riparo dal Treves […]. Ti assicuro, mio caro Ugo, che è una persecuzione ingiustissima! Io non ho preso dalla realtà che un semplice spunto, il che è perfettamente legittimo; poi ho lavorato liberamente con la fantasia, ho inventato personaggi azioni e tutto. Non posso, pe’ brutti occhi della signora D., buttar via un’opera d’arte. Potrei forse costringere legalmente il Treves, che aveva accettato il romanzo “per contratto”, a stamparlo, ma non mi conviene, tu mi capisci››.

Pirandello è convinto che Un marito sia un capolavoro, di essere vittima di una macchinazione ordita  da Treves e dalla Deledda nei suoi confronti e che i riferimenti alla scrittrice siano minimi; in realtà ha una visione deformata dei fatti: tra i suoi romanzi Un marito non spicca (si fa apprezzare solo per la satira sugli ambienti letterari), l’editore e la scrittrice hanno le loro buone ragioni, le allusioni, per quanto velate, riconducono ai soggetti presi di mira e non passerebbero inosservate nel mondo della carta stampata. Pirandello non si arrende e lo stesso anno pubblica Un marito con l’editore Quattrini, prestigioso ma meno di Treves. Tuttavia, esaurite le vendite, non vi saranno ristampe del romanzo (per veto della Deledda?) fatta salva la stesura di una nuova versione che si sarebbe dovuta intitolare Giustino Roncello nato Boggiòlo (la moglie scrittrice del protagonista si chiama Silvia Roncello…) che però Pirandello non fa in tempo a concludere.

Quando alla Deledda viene assegnato il Nobel, Pirandello riferisce al figlio Stefano giudizi non lusinghieri sulla collega beneficiaria di un premio a cui lui legittimamente ambisce e che tarda ad arrivare esacerbando la sua vita già abbastanza infelice. Per il drammaturgo agrigentino, il Nobel giunge solo nel 1934 e la Deledda trama, senza riuscirci, perché non gli sia attribuito.

Di certo non si amarono, Pirandello e la Deledda: rivalità e invidie dividono anche i letterati più eletti. Ma è lecito chiedersi perché Pirandello si ostinò a pubblicare Un marito malgrado il rifiuto di Treves e tutto ciò che ne evidenziava l’inopportunità e, a distanza di anni, ne iniziò una nuova versione? Perché lo considerava un capolavoro? Per l’acredine nutrito nei confronti di una scrittrice che in quel momento era più affermata di lui? Sono motivazioni credibili ma non sufficienti.

Per cercare di comprendere il comportamento di Pirandello probabilmente bisogna indagare l’uomo, complicato, tortuoso, rancoroso, retrivo nei suoi più intimi convincimenti. Pirandello è un “maschilista”, come si direbbe oggi, e non riesce a concepire che in una coppia sia l’uomo a occupare un ruolo ancillare, ciò lo trova ridicolo. A ciò si aggiunga che l’autore di Uno, nessuno, centomila inconsciamente raffronta la sua situazione coniugale infelice con quella felice della coppia Deledda-Madesani, alimentando il suo astio verso la rivale avvelenato da una sotterranea invidia.

Per Pirandello e la Deledda il destino è stato comunque beffardo: entrambi isolani tenaci con il demone della scrittura, di pari estrazione sociale e provinciali stabilitisi a Roma da periferie della Penisola, entrambi premi Nobel. E costretti ad arrendersi nel 1936, a distanza di pochi mesi, a quell’oscura invincibile forza che tacita ogni ostilità.

 

Antonino Cangemi – Scrittore  

 

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