D’Annunzio e Pirandello, così diversi così distanti. Eppure…

‹‹Spregevole (sempre per lui fu spregevole) uomo D’Annunzio››. Luigi Pirandello detestò Gabriele D’Annunzio, come testimoniano le parole del figlio Stefano riportate nella biografia del premio Nobel di Gaspare Giudice, tra le diverse la più documentata e attendibile.

 

 

Tanti i motivi che divisero fino allo screzio i due letterati, a cominciare dall’indole: schivo e riservato il drammaturgo agrigentino, esuberante e viveur il poeta pescarese. A ciò si aggiungono la rivalità, le divergenze estetiche in letteratura, la differente considerazione da parte del duce e, probabilmente, il loro diverso rapporto col gentil sesso: tormentato in Pirandello – sia nella sofferta convivenza con la moglie malata Antonietta Portulano, sia nella platonica infatuazione per Marta Abba –, di affettati corteggiamenti e ostentate conquiste in D’Annunzio.

 

 

È bene precisare tuttavia che fu Pirandello a manifestare apertamente la sua ostilità verso D’Annunzio, il quale mai rispose ai suoi tanti attacchi, forse per il suo temperamento assai meno astioso o per una sottesa alterigia.  Per lungo tempo – giova evidenziare –  quanto a prestigio letterario, D’Annunzio sovrastò Pirandello, che si affermò tardi benché fosse di quattro anni più grande. Nel corso degli anni – in un arco temporale che va dalla fine dell’Ottocento ai primi decenni del Novecento – sono tanti gli scritti di Pirandello dai quali traspare la sua avversione per il “vate”.

A partire dal testo Arte e coscienza d’oggi pubblicato su La Nazione letteraria di Firenze del settembre del 1893 in cui Pirandello accosta D’Annunzio ai ‹‹poeti sedicenti preraffaelliti e decadenti d’oggi…che ripetono le stesse parole, le stesse domande con una uniformità che porta alla disperazione›› rimproverandolo di imitarli ‹‹quando non li copia senz’altro››. Successivamente, ad appena un mese dalla pubblicazione del romanzo di D’Annunzio Le vergini delle rocce, Pirandello su La critica dell’8 novembre del 1895 lo stronca: trova i suoi personaggi ‹‹straordinariamente ridicoli›› e privi di ‹‹fisionomia e caratteri propri››. In un numero della stessa rivista dell’anno dopo plaude Enrico Thovez che sulla Gazzetta Letteraria di Milano denuncia i ‹‹plagi›› di D’Annunzio.

Sempre su La critica, questa volta del 28 marzo 1896, il drammaturgo ironizza sulla moda dei poeti simbolisti francesi, contro cui si scaglia con un epigramma, e se la prende con chi fa il verso ai francesi, D’Annunzio per primo. Sulla rivista Ariel del 13 febbraio 1898 il futuro premio Nobel definisce la tragedia di D’annunzio La città morta ‹‹farsa fatta per ridere›› con un linguaggio artificioso (‹‹nessuno, oggi, per fortuna, parla come i personaggi di questa tragedia››), sottolineando ‹‹la sproporzione tra il suo valore reale e la fama che gli si è in questi ultimi tempi costituito›› e afferma che ‹‹l’autore avrebbe una personalità di forma: sensuale, tumida, monotona, fascinosamente artificiosa››.

Come da citazione ad apertura di questa nota, nella biografia pirandelliana di Giudice è riportato quanto espresso dal figlio sullo stato d’animo dello scrittore agrigentino a seguito del discorso interventista di D’Annunzio pronunciato a Quarto dei Mille il 5 maggio 1915: ‹‹Era molto intristito dal fatto che lo spregevole (sempre per lui fu spregevole) uomo D’Annunzio fosse stato assunto a guida di sentimenti che la partecipazione (intrusione) di lui non poteva se non sporcare››. L’avversione per il rivale è espressa anche un anno prima in una lettera all’amico Ugo Ojetti, riportata alla luce da Sarah Zappulla Muscarà, in cui il drammaturgo si sfoga per la mancata pubblicazione su La lettura del suo romanzo Si gira e si chiede ‹‹se è giusto che il D’Annunzio debba continuare a godere la fama che gode, prepotente e invadente così da vietare ogni altra manifestazione letteraria, condannando al silenzio ogni altra voce››.

Ma è nel 1920, quando Pirandello pronuncia il suo discorso di omaggio agli 80 anni di Giovanni Verga, che la bocciatura di D’Annunzio è più evidente per le motivazioni che la sorreggono. In quell’intervento infatti distingue tra ‹‹gli scrittori di cose››, includendovi Verga oltre a Dante, Machiavelli, Ariosto, Manzoni, e ‹‹gli scrittori di parole›› – tra i quali rientra ‹‹il vate›› –  precisando che ‹‹dove non c’è la cosa, ma le parole che la dicano…c’è la non creazione…non l’arte ma l’avventura››.

Dopo, a partire dal clamore suscitato nel 1921 da Sei personaggi in cerca d’autore, Pirandello comincia ad affermarsi sempre di più fino a contendersi con D’Annunzio la candidatura al Nobel e pare che Mussolini debba intercedere per la sua assegnazione nel 1926 a Grazia Deledda per ‹‹non suscitare gelosie pericolose in Italia››. Nel 1929 Pirandello è nominato accademico d’Italia e due anni dopo pronuncia all’Accademia un discorso che ricalca quello della commemorazione di Verga 11 anni prima; ed è un discorso che fa rumore non solo per le allusioni a D’Annunzio – che tra i ‹‹due tipi umani…i costruttori e i riadattatori, gli spiriti necessari e gli esseri di lusso›› fa parte dei secondi – ma anche per la condanna della retorica che è la quinta essenza del fascismo.

 

 

Tuttavia, a detta di un’autorevole studiosa – Annamaria Andreoli, curatrice delle opere di D’annunzio nei Meridiani della Mondadori e anche cultrice di Pirandello -, i rapporti tra due giganti (non solo italiani) della letteratura del Novecento vanno rivisitati tenendo conto, da un lato, che taluni documenti che certificherebbero la loro inconciliabilità vanno contestualizzati, dall’altro di qualche affinità riscontrabile tra le loro opere.

La Andreoli afferma, ricorrendo a un paradosso: «Pirandello ha scritto molto su D’annunzio, odiandolo troppo. Quindi lo ama» ed è convinta che il siciliano – malgrado l’uomo del Vittoriale non gli fosse simpatico – abbia apprezzato più di una sua opera. Così per Sogno d’un mattino di primavera del 1897, da Pirandello pubblicamente disprezzata ma dalla quale sarebbe rimasto affascinato per la messa in scena della pazzia, per la Gioconda del 1898 in cui è rappresentato il binomio vita e forma – cruciale nella sua poetica – e per il secondo libro delle Laudi del 1904 dove in Per la morte di un distruttore si legge l’invocazione «o Vita dai mille volti» che anticipa un tema al centro di Uno nessuno centomila pubblicato l’anno dopo.

Nel 1934 Pirandello dirige l’opera di D’Annunzio La figlia di Iorio che va di scena il 10 ottobre al Teatro Argentina di Roma: un’imposizione del duce che accompagna le promesse di finanziamento alla sua compagnia? Tra i due vi è uno scambio epistolare – non però un incontro – che sembra sancire la loro riconciliazione. D’Annunzio, tra l’altro, gli scrive: ‹‹Forse tu non sai che ti sono vicino fin da quando tu eri giovinetto…››.

Ma Corrado Alvaro racconta come Pirandello reagisse alle lettere e ai doni di D’Annunzio: ‹‹…accanto alla lettera dannunziana posta sul tavolo, c’era una scatola d’argento con sopra una delle imprese e un motto di D’Annunzio. La scatola era piena di sigarette. Pirandello ne accese una e la buttò disgustato. Erano sigarette profumate di una forte essenza di rose. “Sempre il solito” disse riferendosi a D’Annunzio››.  Troppo diversi per temperamento e indole, il letterato siciliano e quello abruzzese, per immaginarsi una loro pur simulata ‹‹amicizia››.

 

Antonino Cangemi – Giornalista e scrittore

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