“What the actual fuck”. Sharon Stone, lungo vestito nero aderente con delle calle ricamate, doppio giro di collana di perle bianche e carta da zucchero, occhiali da sole con lenti color bronzo, mangia un pop corn alla volta scegliendoli con cura con indice e pollice da un sacchetto a strisce bianche e rosse che tiene vicino alle gambe accavallate. “Se avessi avuto il pene, la mia bellezza e la mia intelligenza non sarebbero state un peso”, afferma seduta su una poltroncina quando la incontriamo al Torino Film Festival dove è arrivata per ricevere il premio Stella della Mole e presentare al pubblico la proiezione di Pronti a morire, western del 1995 diretto da Sam Raimi di cui l’attrice era anche co-produttrice.
“Mi piaceva ed ero anche brava. Scritturai Russell Crowe dall’Australia e diedi un ruolo di primo piano a Leonardo DiCaprio. Ma quando ho voluto mettere della musica moderna in un western mi dissero che potevo tornare a casa. Mi è stato permesso di essere un produttore solo finché erano d’accordo con me”.
Intelligenza sprecata (negli Studios)
Sicura di sé, spiritosa, diretta, Sharon Stone si prende tempo per rispondere. Lunghi silenzi dopo i quali si abbandona a risposte oneste, pungenti, divertenti. “Per C’era una volta in America feci più provini, ma non mi presero perché avevo le tette troppo grandi. Per Mel Gibson, invece, ero troppo vecchia per recitare con lui. ‘Cresci’, gli dissi. Per Basic Instinct presi 500 mila dollari, Michael Douglas 14 milioni. Per quella stessa cifra andai agli Studios a chiedere di produrmi un film. Mi dissero che era il miglior pitch che avessero mai letto. ‘Ma una donna dietro la macchina da presa, davvero?’. È stato un peccato, sentivo che la mia intelligenza era stata sprecata nel tentativo di convincere i dirigenti degli Studios meno intelligenti di me a permettermi di dirigere. Quindi mi sono detta: ‘Combatterò con persone per permettermi di fare cose che non vogliono che faccia? No. Ho altro da fare’”.
A differenza di tanti colleghi che mettono paletti e preferiscono non esporsi per paura delle conseguenze che le loro opinioni potrebbero avere sulle loro carriere, Sharon Stone se ne infischia.
“Dobbiamo fermarci e riflettere sulle cose. Su chi scegliamo al governo e se lo stiamo effettivamente scegliendo o se si sceglie da sé. In Italia avete avuto il fascismo. L’avete già visto. Il mio Paese, invece, è nella sua fase adolescenziale. E l’adolescenza pensa di sapere tutto. È ingenua, ignorante e arrogante. L’80% degli americani non ha il passaporto, vive in una straordinaria ingenuità. L’unico modo per uscirne è aiutarci a vicenda”, afferma l’attrice parlando del problema della violenza di genere.
Uomini che aiutano gli uomini
“Non possiamo semplicemente dire che le donne devono aiutarsi a vicenda, perché è l’unico modo in cui siamo sopravvissute finora. Dobbiamo dire che gli uomini buoni devono aiutare gli altri uomini. Devono essere consapevoli che molti dei loro amici non lo sono. Non si può continuare a fingere. Devi avere la mente lucida e capire che sono uomini pericolosi e violenti e devi tenerli lontani dalle tue figlie, dalle tue mogli e dalle tue fidanzate. Non possiamo più distogliere lo sguardo. Il killer numero uno delle donne nel mondo sono gli uomini. Il killer numero degli uomini sono le malattie cardiache. È molto importante ricordarlo”.
Da sempre attiva a favore di cause sociali – il suo impegno nel raccogliere fondi per la ricerca contro l’HIV è storico ed ereditato da Elizabeth Taylor in persona – Sharon Stone non si tira indietro neanche quando si parla di politica. Quella statunitense, in particolare, alla luce delle recenti elezioni che hanno visto Donald Trump vincere a scapito di Kamala Harris.
Cosa pensa metà dell’America
“Quando le persone dicono una cosa, molto spesso ne fanno un’altra. Ci sono 200 persone al governo e milioni di persone in una società? Quelle 200 persone possono avere un’idea, ma devono anche convincere milioni di esseri umani a realizzarla. Il nostro nuovo presidente ha quattro anni per elaborare un’idea, implementarla e poi convincere milioni di persone a metterla in atto. Ecco perché abbiamo dei limiti di mandato”, commenta Stone.
“Abbiamo visto che metà del Paese la pensa in un modo e metà in un altro. Cosa succederà? Non lo so. Non sono una sensitiva, ma penso che gli Stati Uniti probabilmente trarranno beneficio da questo esperimento. Perché la democrazia stessa lo è. Quando la campagna era in corso, ho supportato una persona diversa”, continua l’attrice. “Ma ora la campagna è finita ed è mio compito rispettare la carica del presidente. Come patriota non andrò in giro per il mondo a dire cose brutte sul mio Paese. Non sono un politico, ma una persona che si preoccupa degli sforzi umanitari del mondo. E il mio compito non cambierà, non importa quale presidente sia in carica. Sono vigile e consapevole e continuerò a lavorare a livello globale al meglio delle mie possibilità”.
Parola di Ron, oltre la retorica
“È molto difficile per me commentare l’amministrazione e cosa sarà, perché è un’incognita. Ho le mie preoccupazioni, naturalmente, ma dovremo aspettare e vedere dove finisce la retorica e iniziano le decisioni”. A parlare è Ron Howard. Il regista premio Oscar, molto più cauto di Sharon Stone nell’esprimersi su questioni politiche, ma con una visione simile, che nel 2021 ha diretto Elegia americana, libro di memorie di J.D. Vance, vicepresidente per la campagna presidenziale 2024 di Donald Trump.
Cappellino e camicia nei toni del tortora, giacca grigio scuro con una punta di marrone, occhiali da vista e fede al dito, il regista ci tiene che ogni giornalista che ha davanti, in una sala di un albergo elegante nel centro di Torino, abbia lo spazio e il tempo per fargli una domanda. Al festival torinese ha accompagnato la proiezione del suo ultimo film, Eden, tratto da una storia vera.
Quella del dottor Friedrich Ritter (Jude Law) e sua moglie Dora Strauch (Vanessa Kirby) che, nel 1929, lasciarono la Germania per trasferirsi nelle Galápagos, sull’isola di Floreana. Il loro obiettivo era lasciarsi alle spalle le convenzioni borghesi e fondare una nuova filosofia che avrebbe cambiato il mondo. Ma, per loro immane fastidio, poco dopo vennero raggiungi dalla coppia composta da Margaret e Heinz Wittmer (Sydney Sweeney e Daniel Brühl) e dalla baronessa Eloise Bosquet de Wagner Wehrhorn di Ana De Armas. Tutti intenzionati a vivere sull’isola per raggiungere scopi diversi, ma nessuno disposto a convivere con l’altro.
Cosa avresti fatto al posto loro?
“Quando ho scoperto questa storia, quindici anni fa, ero in vacanza con la famiglia. E tutto ciò che abbiamo fatto è stato parlare di questi personaggi. Si è creato un dibattito. ‘Tu cosa avresti fatto al posto loro?’”, ricorda il regista. “In tutto il mondo siamo in lotta per cercare di capire l’impatto degli esseri umani sul pianeta. E certamente questo è uno dei temi del film che spero possa portare a un punto di svolta per gli spettatori riguardo la gamma di approcci che tutti possiamo scegliere di adottare o non adottare nella nostra convivenza con la natura”.
Perché sebbene Eden sia ambientato nella prima metà del Novecento ha molti punti in contatto con il nostro presente, dal bisogno di una fetta della popolazione di trovare un’alternativa ad una società la cui economia è al collasso e in cui il fascismo è in ascesa all’idea che un’alternativa è possibile.
“Sono molto preoccupato, come tutti gli esseri umani, per la grande sfida di trasformazione che sta avvenendo in questo momento nel mondo. È come se fossimo al tempo di una rivoluzione industriale unita al Rinascimento, moltiplicata per mille volte con un acceleratore”, chiosa Ron Howard.
“Condivido una situazione di ansia che molte altre persone nel mondo stanno vivendo e per cui purtroppo non ho una risposta. Mi sento esattamente come tutti. Ed è per questo che ho trovato interessante osservare che alla fine degli anni Venti e all’inizio degli anni Trenta, in particolare in Europa, c’erano delle persone che sentivano il bisogno di reinventarsi, di trovare un altro posto dove vivere e un diverso modo di vivere. Perché sono stato e sarò sempre un’umanista”.
Manuela Santacatterina – Giornalista