Alla ricerca di libri perduti

Con uno stile avvincente sono narrati – in questo articolo di un papirologo di fama internazionale, il professor Mario Capasso - alcuni momenti importanti ed esaltanti delle scoperte di antichi manoscritti attraverso sei secoli, dall’Umanesimo al Novecento

Nel 1965 apparve a New York un libro, un libro particolarmente fortunato, ristampato per ben altre 26 volte. Esso si intitola Testaments of time. The Research for Lost Manuscripts and Records, Testamenti del tempo. La ricerca di manoscritti e documenti perduti. Ne è autore Leo Deuel, uno storico dell’archeologia, il quale ricostruisce in esso, con una prosa accattivante, alcuni momenti più importanti ed esaltanti delle scoperte di antichi manoscritti succedutesi nel corso di sei secoli, dall’Umanesimo al Novecento, e in più aree del mondo, dall’Egitto all’Italia, dal Mar Morto all’Afghanistan, dalla Cina al Messico. 

Il volume apparve in traduzione italiana a Milano nel 1968 col più intrigante titolo Cacciatori di libri sepolti e con sulla sovraccoperta un’immagine di Giovanni Belzoni (1778-1823), il così detto gigante del Nilo, l’esploratore avventuriero padovano, che andò in cerca, tra l’altro, di papiri funerari nelle tombe egizie. 

All’inizio del volume il Deuel riporta un brano del romanzo di Anatole France Il delitto di Sylvestre Bonnard, membro dell’Istituto, romanzo apparso a Parigi nel 1881 che ha come protagonista un accanito bibliofilo. Questo il brano:

“’A che mi serve’, mi chiesi, ‘sapere che questo prezioso libro esiste, se non potrò mai possederlo, se non potrò mai neppure vederlo? Andrei a cercarlo nel cocente cuore dell’Africa o nelle gelide regioni del Polo, se sapessi che è là: Ma non so dov’è. Non so se è chiuso dietro le tre serrature della cassaforte d’un bibliomane geloso; non so se sta ammuffendo nella soffitta d’un ignorante. Tremo al pensiero che i suoi fogli strappati possano essere serviti a chiudere i vasetti di sottaceti d’una qualche massaia’”.

Il brano di Anatole France rende perfettamente l’inquietudine che nasce dalla consapevolezza che un libro prezioso, un libro desiderato esiste, ma non si sa dove si trovi, e dalla possibilità che la sua importanza non sia compresa da chi ne è in possesso. Scrive Deuel: “La storia del ritrovamento delle testimonianze scritte è una storia di scoperte per molti versi paragonabile a quella degli scavi che riportarono in luce tombe colme di tesori; spesso implicò anzi scavi veri e propri, con i pericoli e le ansie che vi vanno uniti, oltre al tedio di una lunga e incerta ricerca. Più di una volta, rischiose spedizioni in paesi stranieri diventarono imprese veramente epiche di studiosi avventurieri” (p. 8).

“Non vi possono essere dubbi sull’interesse che merita [l’archeologia dei libri]. Una civiltà perduta, per quanto splendidi possano essere i monumenti messi in luce dallo scavatore, rivela i suoi più segreti contenuti solo attraverso i documenti scritti” (p. 9). “Il recupero di testi letterari perduti esorbita dall’ambito dell’archeologia pura. Gli “scavi” possono avere per teatro i più riposti recessi della biblioteca d’un villaggio sperduto o il museo nazionale di un’indaffarata metropoli; l’agnizione può avvenire grazie all’esposizione a raggi di luce infrarossa di una pergamena sbiadita, scritta due volte; l’identificazione dell’autore, la lettura, la penetrazione del significato sono fasi importanti, quando non decisive, della maggior parte delle scoperte in questo campo. Il cacciatore di libri, come l’archeologo da tavolino, può dunque lavorare senza muoversi dal suo studio, lasciando le spedizioni in terre lontane ai colleghi di temperamento più vagabondo”(p. 10).

“Ogni scoperta d’un testo da gran tempo perduto, importante o meno, ha contribuito a respingere indietro quella sorta di sipario nel tempo di là dal quale tutte le attività umane appaiono oscure, a contorni imprecisi. Ogni scoperta ci dice qualcosa di più sul nostro passato, sul modo in cui siamo diventati ciò che siamo. Questa la potente motivazione delle ricerche dei nostri scienziati, questa la ragione per cui tali ricerche continueranno; perché c’è ancor tanto da fare”. 

“Domani, dopodomani potrebbero portarci una sorpresa. Ma nessuno è in grado di prevedere da dove verrà: dai primitivi monasteri cristiani abbandonati nella penisola del Sinai, o dalle sabbie desertiche del Nord-Africa, dalla rilegatura d’un manoscritto medioevale conservato in una collezione europea o dalla biblioteca nascosta dello zar Ivan? Una cosa sola possiamo dare per certa: che vi saranno molte altre scoperte” (p. 513). 

“Se, fin dal primo Rinascimento, gli studiosi non avessero nutrito la speranza di poter accrescere gli scarsi resti della letteratura antica, non avrebbero forse corso tante avventure, e noi non conosceremmo le ansie né le gioie della ricerca ancora non finita” (p. 514).

Queste affermazioni di Deuel meritano alcune considerazioni. Come egli scrive, è certamente il desiderio di allargare i confini della nostra conoscenza che ha spinto e spinge gli uomini alla ricerca di libri perduti: in fondo è un modo per riappropriarsi di una parte del nostro passato e quindi di noi stessi. Dal 1965, anno in cui Deuel pubblicava il suo libro, le nuove scoperte, le sorprese, come lui le chiama, non sono mancate. I papiri negli ultimi cinquant’anni ci hanno dato nuovi testi, arricchendo, se non di nuovi capitoli, certamente di nuove pagine il libro soprattutto della letteratura greca.

Mi limito a ricordare il papiro di Strasburgo, che, datato alla fine del I d.C., ci ha restituito 52 frammenti del poema di Empedocle Physikà e costituisce il primo caso di tradizione diretta di un testo presocratico (PStrasb gr Inv, 1665-1666); il papiro, utilizzato per la fabbricazione del supporto di una corona funeraria, fu edito da O. Primavesi e A. Martin nel 1999; il così detto Archiloco di Colonia, il PKöln 7511 recuperato da un cartonnage, vale a dire da un sarcofago di mummia fatto di gesso e papiri riciclati, e contenente quasi per intero un epodo; datato al I-II d.C. e pubblicato nel 1974 da R. Merkelbach e M.L. West, esso ha rivelato un Archiloco dallo sconcertante approccio sessuale nei confronti di una ragazzina, probabilmente sorella minore di Neobule, la promessa sposa del poeta; il POxy LXIX 4708 (seconda metà del II d.C.), che ha restituito dello stesso Archiloco un’elegia sul mito di Telefo; pubblicato nel 2005 da D. Obbink narra un momento dello scontro tra gli Achei diretti a Troia e Telefo, sovrano di Misia; il POxy LIX 3965 (II d.C.), contenente elegie di Simonide di Ceo, pubblicato simultaneamente nel 1992 da P.J. Parsons e M.L. West; i PKöln inv. 21351 e 21376 (inizio III a.C.), editi nel 2004 nel 2005 da M. Gronewald e R. W. Daniel, che originariamente facevano parte dello stesso rotolo (è il rotolo di Saffo più antico a noi pervenuto) e restituiscono tre componimenti, di cui due di Saffo e l’altro di incerta paternità; i due carmi saffici hanno per tema rispettivamente l’aldilà (Saffo sembra esprimere la speranza che sarà ammirata anche dopo la sua morte dalle anime dell’Ade, così come le capita sulla terra) e la vecchiaia, che inesorabile avanza anche per la poetessa di Lesbo portando lo sfacelo nel suo corpo; il PSapph Obbink e il PGC inv. 105, pubblicati nel 2014 rispettivamente da D. Obbink e da Burris, J. Fish e lo stesso Obbink e appartenenti allo stesso rotolo databile tra il I e il III d.C. e contenenti diversi carmi di Saffo; il PSapph Obbink contiene due nuovi componimenti della poetessa, di cui in precedenza si conosceva qualche lettera grazie a due papiri di Ossirinco, denominati rispettivamente il carme dei fratelli e il carme di Cipride: nel primo, dedicato ai due fratelli della poetessa, Carasso e Larico, Saffo esprime la sua preoccupazione per il fatto che Carasso non sta tornando da un viaggio per mare intrapreso probabilmente per motivi commerciali ed auspica che Larico maturi e diventi un uomo; nel secondo, molto frammentario, si riesce a cogliere un cenno all’impossibilità di sfuggire al dolore in una situazione che probabilmente riguarda l’amore. 

Ricordo anche il PMil Vogl VIII 309, proveniente da un cartonnage di mummia e pubblicato nel 2001 da G. Bastianini e C. Gallazzi con la collaborazione di C. Austin, contiene 112 epigrammi in distici elegiaci di Posidippo di Pella, per un totale di circa 600 versi; il papiro, risalente alla metà del III a.C., ha dato spessore alla fino ad allora evanescente figura del poeta e ha contribuito alla ricostruzione del genere epigrammatico.

L’acquisizione più clamorosa degli ultimi decenni è senz’altro l’ormai celebre papiro di Artemidoro: un papiro datato al I d.C., recuperato, a quanto si dice, da un groviglio di papiri utilizzato per fini pratici e contenente sul recto le colonne iniziali di un testo greco riconosciuto come facente parte della Geografia di Artemidoro di Efeso (I a.C.-I d.C.); dal momento che la trascrizione del testo geografico fu interrotta, in due successivi momenti furono disegnati sullo stesso recto del papiro varie parti anatomiche, probabilmente immagini preparatorie di statue, e sul verso animali reali e fantastici, con accanto a ciascuno dei quali la didascalia. 

Il papiro fu pubblicato nel 2008 da C. Gallazzzi, B. Kramer e S. Settis; nel 2006 l’autenticità del documento fu clamorosamente messa in dubbio da L. Canfora, secondo il quale si tratterebbe di un falso di Costantino Simonidis (1820?-1890?), calligrafo greco, già autore di diversi falsi su papiro. Il manoscritto rappresenta il caso più controverso di tutta la storia della papirologia.

Degna di menzione è anche la riscoperta nel 2005 nel Monastero dei Vlatades di Salonicco del codice Thessalonicensis Vlatadon 14, che risale al XV secolo e restituisce una trentina di trattati di Galeno o pseudogalenici; quattro dei galenici sono autobiografici: L’ordine dei propri trattati, I propri trattati, Le proprie dottrine, Il non affliggersi

Del tutto inedito è quest’ultimo, nel quale il medico risponde a chi gli chiede come sia riuscito a sopportare nell’incendio che devastò Roma nel 192 d.C. la perdita di strumenti chirurgici, medicamenti e libri, libri scritti da lui, libri copiati da lui ed edizioni rare. Il trattato è un formidabile contributo alla ricostruzione della biografia, del metodo di lavoro e della storia dell’opera di Galeno.

Un’altra importante acquisizione è quella del Vangelo di Giuda, restituitoci dal codice Tsachos, un manoscritto papiraceo, che si fa risalire al III-IV d.C. e contenente diversi testi in copto, vale a dire la lingua dei Cristiani di Egitto, prodotti in ambiente gnostico. Lo gnosticismo era una teoria filosofico-religiosa, che predicava la gnosi, vale a dire la conoscenza rivelata dei misteri divini e della grandezza di Dio, il Dio del nuovo Testamento (il demiurgo buono, opposto al Dio del Vecchio Testamento, creatore del mondo, corrotto e corruttibile), dalla quale dipende la salvezza, bene supremo. 

Il codice conteneva, tra l’altro, una lettera di Pietro a Filippo, una nuova versione della Prima Apocalisse di Giacomo e appunto il Vangelo di Giuda, un vangelo apocrifo composto nel II d.C. Il Vangelo, forse tradotto da un originale greco, riporta una conversazione privata tra Gesù e Giuda, dalla quale esce un Giuda diverso dall’infame traditore della tradizione cristiana, bensì un esecutore di un ordine preciso impartitogli da Gesù perché si compia il suo destino di salvatore. 

Le vicende del rinvenimento e delle successive peripezie vissute da questo codice sono emblematiche dei percorsi accidentati attraverso i quali talora gli antichi libri arrivano fino a noi. Esso viene trovato negli anni Settanta del secolo scorso in una grotta nei pressi di Al Minya, in Medio Egitto; il mercante di antichità che lo ha acquistato dalle mani dello scopritore, nel 1983 riesce a farlo uscire fuori dall’Egitto nascondendolo in una scatola di scarpe e a Ginevra lo offre a degli studiosi americani; essi non riescono a rendersi esatto conto del contenuto del codice, che è in pessime condizioni; in ogni caso la cifra chiesta dal mercante è enorme e l’affare non si fa. 

Qualche anno dopo il mercante a New York riapre le trattative, chiede un prezzo più basso ma gli acquirenti non se la sentono di investire su un reperto di cui il governo egiziano potrebbe richiedere la restituzione. Al mercante non resta che depositare la scatola di scarpe in una banca nei pressi di New York e, in attesa di tempi migliori, se ne torna in Egitto. 

Nel 1999 egli comunque riesce a venderne alcuni fogli alla signora Frida Nussberger-Tsachos, la figlia di un ricco mercante di arte, appassionata di antichità; l’anno dopo lei acquista la rimanente parte, a quanto pare per una cifra intorno ai 200.000 dollari. La signora acquista il codice forse perché colpita dallo stato pietoso nel quale esso versa: dopo essere stato per circa 1700 anni intatto nel deserto, i circa 20 anni trascorsi in giro per il mondo lo hanno quasi distrutto; se non si interviene sùbito i fragili fogli di papiro rischiano di volatilizzarsi. 

La signora Nussberger-Tsachos porta il codice all’Università di Yale, dove finalmente si riesce a stabilire che esso contiene, tra l’altro, l’inedito Vangelo di Giuda. Dopo ulteriori vicende il codice nel 2001 arriva alla Maecenas Foundation of Ancient Art di Basilea, che ne affida ad una équipe di esperti il restauro. Finalmente nel 2006 il codice, restaurato, e la trascrizione vengono presentati al pubblico a cura della National Geographic; oggi il codice è conservato presso il Museo Copto del Cairo.

Sul versante latino le nuove acquisizioni sono state di gran lunga inferiori, mi limito a ricordare la scoperta nel 1975 a Qasr Ibrim nella Nubia egiziana di un frammento contenente 9 versi elegiaci di Cornelio Gallo, il luogotenente di Ottaviano ad Azio, primo prefetto di Egitto, fondatore della poesia amorosa latina.

Dunque Deuel è stato buon e facile profeta nell’ipotizzare future scoperte di testi della letteratura antica: le acquisizioni non sono finite, anche se, come ha osservato H. Maehler nel 1995, è difficile che papiri letterari possano restituirci testi di una certa estensione. Ha inoltre ragione Deuel quando scrive che c’è il cercatore di nuovi testi che lavora sul campo, vale a dire che si impegna in scavi archeologici, e lo studioso che lavora nella penombra del suo studio o nella quiete di una biblioteca per carpire i segreti ad un frammento di papiro e di pergamena, ma occorre fare chiarezza sul concetto da lui usato di “archeologia dei libri”. 

Possiamo essere d’accordo, in linee generali, con Deuel quando scrive che una civiltà perduta, per quanto splendidi possano essere i monumenti messi in luce dallo scavatore, rivela i suoi più segreti contenuti solo attraverso i documenti scritti. Non è invece da condividere il concetto in base al quale il recupero di testi letterari perduti andrebbe al di là dall’ambito dell’archeologia pura. Il recupero di un testo scritto, come di un qualsiasi oggetto, non può che essere un momento di una più estesa e coordinata attività archeologica; scavare alla semplice ricerca di documenti o di oggetti comporta infatti inevitabilmente il disinteresse del contesto di cui quei documenti o quegli oggetti fanno parte integrante: questo tipo di indagine ha come risultato assolutamente negativo il perdere una serie di nozioni importanti relative al contesto e a ciò che esso contiene. 

Sotto questo aspetto i papirologi che operarono in Egitto alla ricerca archeologica di papiri tra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento hanno molto da farsi perdonare, perché se è vero che con il loro scavo desultorio e non sistematico recuperarono molti papiri, è anche vero che si disinteressarono degli edifici, degli ambienti o delle aree in cui essi si trovavano, per cui di molti papiri oggi sappiamo, nel migliore dei casi, solo il nome del villaggio o della città da cui provengono, una situazione stigmatizzata giustamente nel 1929 dal grande storico del mondo antico M.I. Rostovtzeff, che pure conosceva il valore documentario dei papiri e diresse lo scavo archeologico della città mesopotamica di Dura Europos, disapprovò quello che egli chiama “scavo di papiri”, vale a dire la ricerca archeologica attuata da papirologi in quegli anni alla ricerca prevalentemente di materiale scritto.

Queste le parole di Rostovtzeff, che costituiscono un monito ancόra attuale: “‘Scavo di papiri’ è una parola ed una cosa che mi erano e che mi sono sempre state antipatiche. Scavare alla ricerca di papiri è come scavare alla ricerca di un tesoro. Sembra come se i papiri siano estratti da luoghi che non hanno nessun interesse archeologico e storico. E invece per la gran parte sono ritrovati nelle rovine di antiche città e di villaggi e nelle necropoli, in parte anche nei cumuli immondizia che non costituiscono più rovina alcuna. Tutti questi posti sono di grande interesse storico e archeologico […] 

Ma si potrebbe riflettere su come queste rovine, nelle quali sono ritrovati i papiri, siano importanti per la spiegazione dei papiri stessi, quanto queste rovine e gli oggetti antichi della vita di tutti i giorni, che in esse sono ritrovati in grande quantità, potrebbero contribuire alla comprensione di molti documenti; così sorge un sentimento di tristezza profonda circa la sorte di queste rovine, in tutti coloro che hanno a cuore il prosperare delle Scienze Storiche. Quante informazioni preziose abbiamo sacrificato per riportare alla luce tanti papiri nel modo più veloce possibile e anche a buon prezzo!”.

È chiaro che, come dice Deuel, un antico libro può essere trovato nella biblioteca di un villaggio sperduto o in un museo nazionale, ma se si parla di archeologia di libri, è bene che essa non sia mai avulsa da quella che lo stesso Deuel chiama archeologia pura.

La scoperta di libri e documenti antichi può essere un prezioso, inatteso dono della sorte per chi non li cerca e non pensa di potersi imbattersi in essi. È questo il caso della biblioteca di rotoli greci e latini della così detta Villa Ercolanese dei Papiri o anche Villa dei Pisoni. 

Nel 1750, dodici anni dopo l’inizio dello scavo dell’antica Ercolano, scavo promosso dall’illuminato re Carlo di Borbone, gli scavatori, per lo più ergastolani che operavano sotto la guida di ingegneri alla debole luce di torce praticando pozzi e cunicoli, si imbatterono in un vasto e ricco edificio, dal quale vennero fuori nel 1752 e 1754 diverse centinaia di rotoli greci e un centinaio di latini, carbonizzati dal calore dei materiali dell’eruzione del 79 d.C.

In quell’epoca non si conosceva cosa fosse un papiro, per cui quegli scavatori e chi li dirigeva trovandosi di fronte a quei rotoli divenuti carboni li considerarono pezzi di legno o reti da pesca carbonizzati, perciò li eliminarono come materiali inutili; poi qualcuno si accorse che all’interno erano delle lettere e solo allora fu chiaro che si era davanti alla scoperta di una ricca biblioteca antica, possiamo dire l’unica biblioteca organica privata giuntaci dal mondo antico. 

Il contenuto dei primi papiri che si riuscì in qualche modo a srotolare deluse molto il mondo degli eruditi che speravano che la biblioteca contenesse grandi opere perdute della letteratura antica: fu chiaro invece che i papiri contenevano testi di filosofia epicurea, gran parte dei quali composti da un pressoché sconosciuto intellettuale e poeta, Filodemo di Gadara. 

Qualcuno ricordò in proposito la favola di Fedro (V 6) dei due calvi che a un trivio trovano un pettine: dopo un primo momento si accorgono dell’inutilità dell’oggetto: pensavano di avere trovato un tesoro, in realtà è solo carbone. 

La delusione che scaturisce dal contenuto di un documento antico non è rara. Anche il contenuto della celebre Charta Borgiana, il primo papiro greco proveniente dall’Egitto, la cui pubblicazione a Roma nel 1788 da parte del paleografo danese Niels Iversen Schow segna convenzionalmente la nascita della Papirologia, deluse i dotti del tempo, dal momento che in esso era un mero elenco di operai impegnati nel 193 d.C. nei lavori di pulizia dei canali e delle dighe presso alcuni villaggi della regione del Fayyum.

E, in fondo, delusione è il sentimento che provo anch’io quando, tutto speranzoso, srotolo o apro un frammento di papiro arrotolato o accartocciato, finendo con l’imbattermi in un poco intrigante elenco di persone, un conto, la ricevuta di una tassa. 

A volte succede il contrario, nel senso che una delusione si trasforma in euforia. È quello che successe a B.P. Grenfell e A.S. Hunt, i due celebri Dioscuri della Papirologia, tra i fondatori della nostra disciplina, i quali tra gli ultimi anni del Ottocento e i primi decenni del Novecento, attraverso quelli che Rostovtzeff chiama “scavi di papiri” condotti nel Fayyum e nella città di Ossirinco in Medio Egitto, recuperarono 500.000 pezzi di papiro.

Essi, dopo di avere scavato tra il 1895 e il 1896 nei villaggi di Karanis e Bakchias sul margine settentrionale del Fayyum, si spostarono tra il 1896 e il 1897 ad Ossirinco. Si accorsero ben presto che lì le tombe del cimitero di epoca greca e romana erano state saccheggiate da moltissimo tempo mentre le poche intatte trovandosi in terreno umido sicuramente avevano distrutto i papiri eventualmente conservati nei cartonnage delle mummie; decisero allora di perlustrare le abitazioni, ma lo stato di profondo degrado in cui esse versavano, dovuto al fatto che per un millennio i locali le avevano saccheggiate per ricavarvi materiali da costruzione, li indussero a rinunciare.

Restavano allora solo i cumuli di immondizia che, prodotti da rifiuti accumulatisi per migliaia di anni, tagliavano la città. Non era un lavoro facile quello dei due studiosi. Grenfell ricorda in proposito che erano costretti a “stare in piedi tutto il giorno, mezzo soffocati e accecati dalla polvere pungente dei mucchi di antichi rifiuti, il più delle volte mescolata alla sabbia non meno irritante del deserto» e a «bere acqua che i servizi idraulici dell’Est End londinese non oserebbero  fornire ai loro consumatori, e a tenere incessantemente d’occhio uomini che – inutile lusingarsi del contrario – certamente ruberebbero se ne avessero l’occasione, e lo farebbero convinti di far bene”.

Ma ecco che già il primo cumulo perlustrato comincia a dare numerosi frammenti. Alcuni giorni dopo Hunt dà inizio ad una cernita e la sua attenzione fu attratta da un frammento venuto fuori il secondo giorno di scavo; largo una quindicina di centimetri e alto una decina, sembra contenere un testo documentario, di cui rimangono una ventina di righe di greco; ma ecco che l’occhio di Hunt cade su una parola contenuta nel testo; la parola è karphos, che in greco significa “pagliuzza”; essa richiama alla mente di Hunt il celebre passo della parabola del “non giudicare” riportata nei Vangeli di Matteo  (7, 3-5) e di Luca (6, 41), in cui Gesù esorta a togliere prima la trave nel proprio occhio e poi la pagliuzza nell’occhio del proprio fratello.

Lo studioso capisce che ha davanti un testo evangelico e dopo una lettura più accurata si rende conto che il frammento contiene otto massime, ciascuna delle quali è preceduta dalla frase “Dice Gesù”. I due studiosi avevano trovato un papiro contenente otto Detti di Gesù, di cui tre sono riportati del Nuovo Testamento, tre del tutto sconosciuti e due illeggibili per il cattivo stato del frammento. 

Fu quella una scoperta sensazionale, su cui si sviluppò un intenso dibattito tra gli studiosi, dal momento che il papiro, in realtà un foglio facente parte di un codice perduto, presentava diversi problemi, tra cui la datazione, l’origine di quei detti e il rapporto con i Vangeli sinottici. 

Le cose si chiarirono alquanto solo alcuni decenni dopo, grazie ad una nuova scoperta, sulle cui circostanze non si dispone di molti particolari. Nel 1945 alcuni indigeni, trovarono per caso nei pressi di Nag Hammadi (l’antica Chenoboskion), cittadina del Medio Egitto, a quanto pare all’interno di una giara, una biblioteca di 13 codici di papiro con copertine di cuoio, contenenti testi gnostici in lingua copta, gran parte dei quali tradotti dal greco. 

I codici furono delineati nel IV sec. e sotterrati tra il IV e il V secolo, forse perché, in un momento in cui lo gnosticismo aveva cominciato ad essere considerato un’eresia, non venissero distrutti da qualche autorità ecclesiastica. Uno dei testi più importanti era il Vangelo di Tommaso, che viene fatto risalire tra il 120 e il 140 circa e conteneva una serie di Detti extracanonici di Gesù, compresi quelli del papiro di Ossirinco (POxy I 1) trovato da Grenfell e Hunt; dunque il Vangelo di Tommaso era stato tra le fonti del testo del papiro. 

La connessione non impediva ad alcuni studiosi di continuare a ritenere che alcuni detti di Gesù, non riportati nel Nuovo Testamento, erano stati conservati ed erano circolati in altri scritti. In qualche misura la più o meno contemporanea scoperta dei celebri rotoli del Mar Morto fece passare sotto silenzio il rinvenimento pur importante di quei 13 codici, oggi conservati al Museo Copto del Cairo. Ma quella dei rotoli del Mar Morto è un’altra storia.

 

Mario Capasso –Professore emerito Università del Salento, Fondatore e primo Direttore del Centro di Studi Papirologici e del Museo Papirologico, Socio Ordinario dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti, Presidente dell’Associazione Italiana di Cultura Classica

 

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