E venne Piero Marrese che mangiò Mimmo Lacerenza che mangiò Angelo Chiorazzo che alla Fiera dell’Est il campo largo comprò. La telenovela dei candidati in Basilicata, dove si vota domenica prossima, ha già ottenuto tre (pessimi) risultati.
Far svanire l’euforia per la vittoria di Alessandra Todde in Sardegna, esibita invano in Abruzzo (Il Foglio irrideva con garbo: “In hoc Todde vinces”) e il refolo di vento nuovo. Mandare in solluchero i battutisti del campo avverso: da Matteo Renzi (“Nel Pd siamo passati dalle primarie al primario”, con riferimento allo stimato chirurgo oculistico Lacerenza, durato in politica meno della vita di una farfalla) ai titolisti di “Libero” (“Amaro Lucano e bollito piemontese”, visto che anche in Piemonte Pd e M5S bisticciano). Ma soprattutto, far emergere tutta la fragilità di un’alleanza che, come argomenta Massimiliano Panarari sulla “Stampa”, si declina per sottrazione: O Conte o Calenda, o Calenda o Renzi, e così via. Con il Pd nello scomodo ruolo del pilastro che tira la carretta (lo ha fatto anche con il governo Draghi, e si è visto come è finita).
Premessa: le elezioni locali non sono quelle nazionali, ogni territorio è un caso a sé i sardi sono diversi dagli abruzzesi, i signori delle tessere (quelli superstiti) stringono accordi là per là, va misurato il rapporto tra città e zone rurali, etc etc. Anche se poi gli elettori non hanno pretese particolarmente stravaganti: trasporti, sanità, rifiuti, un evento culturale ogni tanto.
Tuttavia – come i sondaggisti si sgolano a ripetere – una coalizione unita e compatta esercita il fascino della speranza di vittoria, che quando si realizza scatena a sua volta l’”effetto band-wagon”, ossia l’atavico impulso a salire sul carro dei potenziali vincitori. Come si fa, dunque, a rendere il campo largo – ribattezzato campo minato o persino camposanto – un’alleanza credibile e non un cartello elettorale? Come si costruisce un’alternativa al centrodestra che ha il coltello tra i denti ma non perde consensi?
In questi giorni non c’è commentatore o analista che non si sia dedicato al tema, e proverò a riassumere le tesi che mi sembrano più ragionevoli. Primo: “educare” gli elettorati di Pd e M5S se non all’entusiasmo almeno alla sopportazione reciproca. Ha ragione Giovanni Orsina nel ricordare come il governo giallorosso nato per reazione al Papeete di Matteo Salvini abbia costretto alla convivenza due partiti che fino a un attimo prima se le erano date di santa ragione, e che l’elaborazione della faccenda sia ancora in corso.
Questo però passa per una “distensione politica” da parte dei leader: non dico di arrivare all’elaboratissimo contratto di governo della Grosse Koalition tedesca con decine di punti programmatici sviscerati dai gruppi di lavoro, ma un nocciolo duro di posizioni “minime” comuni – su contesti internazionali, fine vita, immigrazione, come è accaduto sul salario minimo – eviterebbe il deleterio effetto tutti-contro-tutti. Esempio postumo: un superbonus al 70% anziché al 110 avrebbe rilanciato l’edilizia senza scassare i conti pubblici, stroncando molte polemiche.
Resta sullo sfondo il tema dei temi: chi comanda? E chi correrebbe un domani per Palazzo Chigi? Inutile girarci intorno: si vota il leader. Nel centrodestra vince chi ha un voto in più, ma Giuseppe Conte non sembra disposto a consentirlo a Elly Schlein. Lui si domanda se la base dura e pura coltivi l’isolamento, lei ondeggia tra generosità e subalternità, si vedrà chi logora chi. Federatori all’orizzonte non se ne vedono, ma – come nota Antonio Polito sul “Corriere” – Romano Prodi vinceva al centro. Se alle Europee ci riuscirà anche Antonio Tajani, qualche riflessione andrà fatta.
Federica Fantozzi – Giornalista