25 aprile. La Resistenza: da Memoria esclusiva a Memoria condivisa. Il punto di uno storico non ideologico. Senza revisionismi ha uno sguardo per tutti

È un bene che il 25 aprile, e ciò che significa, sia uscito dal mito e dalla sua assolutizzazione ideologica e quindi divisiva. È il tempo di una nuova visione che faccia diventare questa data la base di una pacificazione degli Italiani uniti nella ricerca di valori da condividere, mettendosi alle spalle le divisioni e le discordie civili prodotte dalla guerra. Il “vento del Nord”? Sì ma ci fu anche il “vento del Sud”

Forse oggi più che mai ha un grande significato parlare della Resistenza, intesa nelle sue varie forme testimoniate e inquadrata nella Guerra di Liberazione, dato che, non solo a livello storiografico con approfondimenti di spessore scientifico ma anche giornalistico con inchieste di ampio rilievo, è uscita ormai dal mito.

Un mito ideologico e politico durato a lungo, che negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra poteva trovare giustificazione, da una parte, negli intenti politici dei governanti di esaltare agli occhi degli Alleati vincitori il contributo offerto dal movimento partigiano contro il nazifascismo in modo da presentare l’Italia un Paese che si era riscatto anche con propri meriti nella vittoria finale; e, dall’altra, nella strategia politica del Pci di legittimare la sua partecipazione nella costruzione del nuovo Stato su basi democratiche, essendo stato di fatto uno dei principali protagonisti nella lotta partigiana.

Ma il Pci non è stato il protagonista esclusivo, non solo nella lotta armata, ma anche nella testimonianza gestionale ed ermeneutica dei valori ideali e politici, diversamente da come, connivente l’organica cultura di sinistra, si è cercato di far apparire, relegando tutti gli altri, insieme all’Esercito, in una posizione marginale se non, addirittura, nemica, alla stregua di quella fascista e neo-fascista.

Nel contempo, si è celata parte della verità in riferimento alla gratuita violenza sempre ad opera di frange di comunisti sia contro gli stessi partigiani non organici al loro schieramento, sia alla spietata vendetta contro esponenti fascisti o indicati come tali anche contro esponenti della popolazione civile, comprese donne, subito dopo la fine della lotta armata; così come per omissione, per negazionismo e, successivamente, per giustificazionismo ha sotterrato la tragedia di tanti italiani istriani, martorizzati e gettati nelle foibe da parte dei comunisti jugoslavi di Tito.

Questo tentativo, che ha prodotto tanta retorica e non poca falsità storica, non ha scalfito le forze politiche, come la Dc e i cattolici in genere, il Psiup/Psi, il Pd’A, il Pli e Pri, i cui uomini avevano anche lottato e patito.

Successivamente, il mito non aveva alcun motivo di essere sbandierato, per cui la sua permanenza ha continuato a tenere diviso il popolo italiano e a ritardare la formazione dell’identità nazionale, mai sorta proprio dalla stessa Unità, se non nei momenti tragici della Grande Guerra. E questa strategia culturale era giunta ad avere contrabbandato da parte del brigatismo rosso il falso mito della «Resistenza tradita» al fine di sublimare una rivoluzione che, con i suoi simboli e i suoi gravi lutti procurati, non era altro che l’attacco alle radici stesse dello Stato democratico, voluto e costruito dai Resistenti.

Questo ha retto e ha dimostrato che proprio la Resistenza, al di là della retorica strumentale, conservava intatti i suoi valori fondanti di libertà e lo spirito unitario delle componenti politiche, tra cui lo stesso Pci, e delle fasce sociali che nel passato avevano lottato, ancor più consolidato nella lotta contro il brigatismo nero di stampo fascista.

Il mito originario, comunque, si è nel tempo molto affievolito per riemergere, in forma saccente, in questi ultimi mesi nella politica e nella “grande” stampa, mentre resiste nella deviante chiassosa e piazzaiola manifestazione di improvvisati, nella banalizzazione dei salotti buoni e in qualche stucchevole personaggio avvezzo ai dibattiti televisivi.

Di certo si tradisce, si inquina e si banalizza l’autentico, sofferto e articolato valore dell’antifascismo e della Resistenza, pagato anche a prezzo di tortura, di prigione, d’esilio e di morte in un regime dove anche la più semplice opinione discorde era vietata.

Persistendo nel far apparire la Resistenza come lotta di sinistra e di parte, così come si cerca di far apparire in certi organismi, si dà linfa vitale alla morte della patria, ancor più alimentata, allorché questi stessi organismi sostengono ancora oggi, dopo decenni di sperimentata vita democratica, che la destra di origine di cultura neo-fascista, pur ormai diventata a pieno titolo forza conservatrice nazionale, deve essere lasciata fuori dalla storia nazionale.

E questo per i nostalgici può essere un alibi per non ritrovarsi in questa strategia di convergenza e di condivisione di alcuni fenomeni storici e di alcune conquiste, come la libertà attraverso la Resistenza. Ovviamente al di fuori rimarranno quelle esigue, al limite insignificanti, frange estreme ancora nostalgiche del regime fascista invasate da un’utopica reincarnazione.

Soprattutto per queste situazioni l’Italia, a differenza di altri Paesi, non sa ritrovare l’unità nemmeno dinanzi ad una data, il 25 aprile, simbolo per eccellenza di liberazione dalla dominazione straniera nazista e dalla dittatura fascista, quest’ultima nella sua fase più negativa di rappresentare l’Italia con una sua propria patria, sbriciolando l’identità nazionale, cioè quella patria che a stento dal Risorgimento in poi si era cercato di comporre.

Un Paese, però, che per tutta la Penisola e in ogni ceto si è posto contro il nazifascismo e ha saputo ritrovarsi unito, a stragrande maggioranza, nella Costituzione del 1948.

Infatti la Costituzione, nata nell’area culturale e politica democratica e non dittatoriale, non poteva procedere ad excludendum delle parti, ma si impegnava sulla strada ad includendum di tutte le parti su valori universali ed inconfutabili nella loro essenza.

Se, poi, i valori di libertà e di democrazia, di partecipazione popolare e di rispetto della dignità di ogni persona non sono stati patrimonio del regime fascista, anzi ampiamente lesi, non vuol dire che la Costituzione abbia avuto un’origine negativa, cioè contro il fascismo. Essa è sorta in funzione positiva: democrazia, libertà, partecipazione e rispetto della dignità personale e associativa.

Nello stesso modo inconfutabile rimane il fatto che a lottare per affermare questi valori sono stati gli antifascisti, i militari e i combattenti civili, come partigiani o come patrioti, i nonviolenti e i senz’armi della Liberazione nazionale che, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si schierarono contro i tedeschi e i fascisti della Repubblica Sociale Italiana (Rsi), impropriamente nota anche come Repubblica di Salò, rimanendo nelle file del proprio esercito o passando in raggruppamenti partigiani nazionali o slavi o tra gli Alleati.

 

La Repubblica di Salò

 

E così gli internati nei lager che si rifiutarono di aderire alla Rsi; i tanti civili, comprese non poche donne, ed esponenti delle forze dell’ordine, che supportarono la lotta armata e collaborarono in diversi modi, altrettanto rischiosi, con i combattenti.

Questa convergenza, che trovava adesione nei tanti ribelli per amore della libertà ed era diffusa in tutto il paese, dopo il processi di ridimensionamento delle ampie zone grigie del paese del ventennio fascista, evidenzia i valori unificanti della lotta intrapresa su vari fronti per una patria libera dall’oppressione straniera e dalla dittatura fascista.

Infatti, accanto al Nord con il suo «vento», le cui popolazioni più a lungo e, pertanto, più numerosamente, furono chiamate a testimoniare la nuova propria appartenenza, anche il Sud, altrettanto con il suo «vento», contribuì all’isolamento del riproposto regime fascista.

Tale convergenza perseguita non da indirizzi precostituiti e programmati, ma sorta spontaneamente, non è, tuttavia, il risultato di uniformità, bensì di policentrici atteggiamenti, che, da una lettura più serena e scevra di finalità politiche, non può che dare adito ad una responsabile revisione storica, che, si precisa, non è revisionismo, così come minoritarie nostalgiche frange di area marxista bollano qualsiasi verifica storica e storiografica, mentre effettivamente le stesse non disdegnano di applicarlo alla triste pagina delle foibe.

 

Foibe

 

Non ci si può esimere, infatti, dal considerare che si erano costituiti tre filoni nell’unica guerra: quello patriottico, essenzialmente antitedesco e legato alla monarchia quale rappresentante legittimo della patria, diffuso tra le forze militari; quello civile principalmente antifascista, come i partigiani e i patrioti di tutte le formazioni, nonché come i collaboratori: uomini e donne delle città e della campagna, nonché esponenti delle forze dell’ordine e di esponenti del clero; e, infine, quello classista fautore della rivoluzione sociale sul modello leninista-sovietico, in esclusività di frange comuniste, in contrasto con lo stesso intero apparato partigiano comunista, che, tra l’altro, a capo di alcune proprie brigate della formazione «Garibaldi» aveva cattolici dichiarati.

Esclusi coloro che si misero a servizio del nazismo, costituendo un corpo speciale nelle SS naziste (circa 20 mila unità), e quelli che si prestarono prima e dopo l’8 settembre nella persecuzione di fasce di popolazione, come gli ebrei, previste nelle leggi razziali del 1938, che non si misero, pertanto, a servizio di una patria, bensì di un’ideologia efferata, si possono ignorare le motivazioni degli altri che scelsero la Rsi?

 

Leggi razziali 1938

 

In quel momento non pochi giovani, ritenendo di dare dignità alla patria, servendo la causa di Mussolini e affidandosi al leale rispetto di alleanza con i tedeschi, che si riteneva essere stata tradita dall’armistizio dell’8 settembre 1943, aderirono al nuovo Stato in contrapposizione al vecchio, che, sempre monarchico, svolgeva la sua attività nelle regioni liberate del Sud.

Allora si può dire che sia stata guerra civile?

In un primo momento fu cavallo di battaglia della destra nostalgica per riaffermare la validità istituzionale della Repubblica Sociale Italiana. Successivamente fu adottata dalla sinistra per rimarcare la diversità dei due fronti e per persistere, per lungo arco di anni, nell’additare l’avversario -il repubblichino- come servile al totalitarismo nazifascista e indegno della partecipazione alla vita politica del paese, nonostante subito dopo la fine della guerra, accortamente pur anche strumentalmente, il leader del Pci, Palmiro Togliatti, da ministro della Giustizia, avesse propugnato e attuato l’amnistia.

Al di là di qualsiasi definizione, su cui sembra ancora aperto il dibattito, non si può non annotare che, senza la presenza degli Alleati, la variegata espressione resistenziale, da una parte, avrebbe comportato ben più gravi sacrifici e morti; e, dall’altra, non avrebbe da sola potuto vincere; così come, sull’altro fronte, il nuovo stato mussoliniano non si sarebbe potuto nemmeno costituire e, quindi, non avrebbe potuto operare con i suoi quasi inesistenti spazi gestionali e operativi senza il protettorato nazista.

In uno scacchiere mondiale, così ampio a livello di contendenti, e in uno scontro di civiltà, totalitarismo e democrazia, il confronto locale si amplia e la lotta resistenziale rientra a pieno titolo come Guerra di Liberazione da un esercito oppressore (il tedesco), come lotta di resistenza contro un regime dittatoriale (il fascismo) e come ribellione a favore della libertà e della dignità di ogni persona.

 

Fosse Ardeatine

 

Né le intenzioni recondite e distorte di sparuta nomenclatura politica e culturale, né la inusitata violenza di frange partigiane, ingiustificabili anche solo come risposta alle tante efferate fasciste, né la politicizzazione successiva possono inquinare o ridimensionare la validità e la nobiltà della Resistenza e, al pari, la dignità morale e culturale di una data, il 25 aprile.

Con il dissentire ancora sulla validità della Resistenza, il negare percorsi tortuosi di vicende inconfutabili nei due campi in contesa, il demonizzare, pur da non condividersi, idealità altrui significa eludere la verità dei fatti e continuare a ritardare la pacificazione nazionale, elemento pregiudiziale per costruire e rinsaldare questa identità nazionale, che da qualche mese a questa parte è ancor più opacizzata.

Con l’imposizione di una memoria esclusiva, tra l’altro, come si è detto, demonizzante e centralizzata in un sol gruppo politico o area politica e culturale, è mancata, soprattutto a livello storiografico, la fase della memoria condivisa, che presupponeva un approfondito esame rigoroso delle fasi e delle scelte senza alcun pregiudizio o nascondimento, soprattutto da parte del vincitore, che, da sempre, ne impone le linee e le forme della storia ufficiale.

E ancora una volta ritorna il Sud. Infatti non sono mancati tentativi di accreditare la testimonianza della Resistenza esclusivamente alle popolazioni del Nord, quale espressione del mondo operaio, in contrapposizione alla ritenuta insignificante presenza delle popolazioni del Sud, quale espressione del mondo contadino, presentato come refrattario e indifferente al vento di libertà.

Anche questa ingiustificata differenziazione tra Nord e Sud non poco ha contribuito a tenere diviso il Paese o, se si vuole, la nazione e ancor più la patria.

Anche il «vento del Sud», direttamente e indirettamente, è soffiato nella lotta per la libertà.

Riportare nelle accertate dimensioni i contributi per la liberazione anche geografica, nonché conoscere e contestualizzare i comportamenti dei contendenti dei due fronti di lotta non significano né revisionismo né negazionismo né giustificazionismo, ma svolgono la funzione di individuarne i percorsi e le motivazioni, affinché, nel confronto, si rispettino le posizioni e, nella conclusione dell’evento storico, scaturiscano non solo la maturata e convinta memoria condivisa e, quindi, collettiva, ma anche la necessità della convergenza su date e fatti accomunanti per la salvaguardia di valori universali.

Questi valori si concretizzano nella democrazia.

E allora penso che sia tempo, ormai, di rivedere e ripensare, convergere su punti basilari della nostra storia e dialogare su punti di ricostruzione del nostro presente.

La consapevolezza critica del proprio passato rende liberi di fronte al presente e al futuro; la comprensione del passato è una condizione essenziale per orientarsi nel presente anche rispetto al futuro: nella nostra storia repubblicana, allora, come punto saldo e imprescindibile per tutti diventa il 25 aprile.

Questa data è alla base della nostra Costituzione, valida ed intoccabile nei suoi principi fondamentali: essa ha garantito ogni espressione, anche degli avversari «nostalgici», in epoche di intenso confronto, e che continua ad assicurare alle presenti generazioni la bellezza e la grandezza della libertà.

Il riconoscimento condiviso del 25 aprile, su cui tanto insisteva il mio maestro Pietro Scoppola a distanza di oltre tre quarti di secolo, può dare anche inizio al processo di resurrezione della Patria, rendendo nobile la nostra epoca contemporanea.

Pertanto quanti hanno una libera coscienza storica e una responsabile dimensione democratica non inquinino la Resistenza con strumentalizzazioni politico-culturali, ma la riscattino, riesaminando le fasi storiche e, quindi, operando nel presente affinché tutti si riconoscano nella Costituzione e nel 25 aprile.

Ed inoltre, si ritiene che questo processo possa contribuire a spezzare anche in ampie e alte sfere l’indifferenza sia alle date, addirittura perché non conosciute, sia ai valori fondanti la stessa repubblica democratica, ritenuti ormai superati da populismi e da democrazie dirette.

Può, altresì, essere un nobile mezzo perché il nostro presente sfugga alla morte della Patria e salvaguardi la sua identità, già inquinata da trasformismi reiterati o da retorici antifascismi o da vaghi isolati fantasmi di fascismi o da improvvisazioni arroganti. E soprattutto sfugga da ignoranza e da strumentalizzazione.

La patria, proprio nella doverosa e necessitata aggregazione supernazionale, ha bisogno di avere un punto di riferimento convergente e condiviso per salvaguardare la sua identità, per preservare la memoria e per consolidare la libera democrazia.

 

Mario MennonnaDocente, Storico

 

 

 

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