11 aprile 1963. Una data storica nella vita della Chiesa. Giovanni XXIII, 261° successore di Pietro, promulgava la sua ultima enciclica, Pacem in terris (PT), ispirata dal rischio corso dall’umanità per la crisi dei missili a Cuba (16-29 ottobre 1962); il Concilio Vaticano II era stato aperto appena cinque giorni prima (11 ottobre 1962). Il momento era carico di tensioni e l’umanità, divisa grosso modo in due blocchi, tra URSS e Stati Uniti, tratteneva il fiato.
Il Papa, preoccupato e memore dei tanti mali prodotti dalla II Guerra Mondiale, scriveva che c’era uno «stridente contrasto», o meglio un «disordine che regna tra gli esseri umani e tra i popoli; quasi che i loro rapporti non possono essere regolati che per mezzo della forza» (PT 3).
Sono passati sessant’anni da quel memorabile documento e, alla luce di quanto anche oggi vediamo e ascoltiamo, non sembra che quel «disordine» abbia avuto termine; anzi da decenni viene fomentato da enormi interessi economico-finanziari, da ideologie e da nazionalismi mutevoli e aggressivi. Dalla II Guerra del Golfo, poi, con gli embedded (i giornalisti che lavorano in zona di guerra al seguito degli eserciti), i conflitti hanno assunto una spettacolarità, in precedenza ristretta alle cronache dei quotidiani e ai notiziari tele-radiofonici. La spettacolarizzazione, con tutti i suoi carichi di emozioni e di crudeltà, ci ha resi terribilmente abituati a mali e sofferenze atroci.
Giovanni XXIII nella Pacem in terris, primo compendio del magistero della Chiesa sulla pace e sulle ragioni che la creano o la distruggono, tracciava una visione assai completa di quel «disordine» che genera le guerre e i conflitti. Un’enciclica, al rileggerla, che non pare abbia perso la propria validità. Anzi, già il Vaticano II, nella costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes (GS), nell’elaboratissimo capitolo V, riprendeva la materia trattando de La promozione della pace, e riaffermando l’idea che a tutti doveva stare a cuore una «vera e superiore concezione della pace» (GS 77) non tanto in termini teoretici, ma pratici, giacché la pace è riposta nelle mani dei responsabili delle nazioni e connessa ai diritti dei popoli.
Quando davanti ai nostri occhi scorrono le immagini di guerre come quelle in Siria, Ucraina, Palestina o Sudan, ci si domanda quale sia il livello di responsabilità dei governanti quando non sono in linea con la richiesta di pace dei popoli che si alza quotidianamente dalla terra; quali i rapporti tra le comunità, o di ampi settori di esse, e i pubblici poteri all’interno delle comunità nazionali e specialmente internazionali? Spesso chi rappresenta un paese decide in base alla propria linea politica e ad interessi non sempre ben evidenti, a volte addirittura presunti che hanno generato le cosiddette guerre preventive: ma ciò corrisponde realmente al bene comune dei loro e altrui popoli? Fino a che punto essi possono avere mano libera nell’agire?
Giovanni XXIII, nella III parte della sua enciclica, Rapporti fra le comunità politiche, trattava dei diritti e dei doveri nei rapporti internazionali, i quali devono essere, diceva, «regolati nella verità, nella giustizia, nella solidarietà operante, nella libertà» (PT 47). È interessante notare in proposito che il Pontefice, trattando di questi principi, li relazioni a situazioni concrete: l’eliminazione di ogni traccia di razzismo, l’affermazione dell’uguaglianza in dignità di tutte le comunità politiche e nazionali, il valore dell’assistenza, il diritto allo sviluppo e al possesso di mezzi idonei, e poi ancora il diritto alla buona reputazione e al rispetto di tutti i popoli. E, in relazione alla giustizia, aggiungeva che «i rapporti fra le comunità politiche vanno regolati secondo giustizia, il che comporta, oltre al riconoscimento dei vicendevoli diritti, l’adempimento dei rispettivi doveri» (PT 51). Già, dei doveri!
Il diritto all’esistenza non dovrebbe mai essere messo in discussione affermava il Pontefice (ad esempio, oggi, di Israele e della Palestina); esso è alla base di ogni altro diritto e si estende al riconoscimento delle minoranze verso le quali la coscienza internazionale in questi sessant’anni, è vero, ha maturato grande sensibilità, ma non sempre uguale rispetto; si pensi ai recenti casi dei Rohingya, degli Yazidi, delle popolazioni indigene dell’Amazzonia, di alcune aree dell’Africa, ecc.
Il Papa, sessanta anni fa, si appellava già con forza ad un concetto assai interessante, che nel corso di questi ultimi decenni (almeno nelle nazioni ad alto senso democratico) ha conosciuto ampio sviluppo, quello cioè della «solidarietà operante» e che, scriveva Giovanni XXIII, avviene «attraverso quelle mille forme di collaborazione economica, sociale, politica, culturale, sanitaria, sportiva», oggi aggiungeremmo anche tecnologica.
Questa solidarietà avviene non solo per l’impegno pubblico delle nazioni, ma anche di quello delle associazioni non governative, secondo il principio della sussidiarietà (PT 74) – un concetto quest’ultimo che egli fece entrare nella Chiesa – per il quale «i poteri pubblici delle singole comunità politiche [devono permettere che] i rispettivi cittadini e i corpi intermedi possano svolgere i loro compiti, adempiere i loro doveri, esercitare i loro diritti con maggiore sicurezza».
Il grido che una pace non si fonda sull’equilibrio delle forze, ma sulla giustizia, sulla saggezza e sul rispetto dei diritti, portava il Pontefice a denunciare la corsa agli armamenti a scopi bellici e alla richiesta di un controllo efficace di essi, perché la brutalità della guerra non risparmia nessuno.
Non da tutti quel messaggio di Giovanni XXIII fu positivamente accolto, ma l’idea espressa nella Pacem in terris ha percorso un lungo e non inutile cammino, penetrando come pioggia feconda nella cultura civile internazionale e rimane un richiamo per tutti gli uomini e le donne di buona volontà. La Chiesa seguì subito le orme di quel Pontefice e istituì, con Paolo VI, la Giornata Mondiale della Pace il 1° Gennaio nel 1967; le Nazioni Unite proclamarono la Giornata Internazionale della Pace nel 1981. Ma come questa pace può diventare realtà?
Fernando Card. Filoni – Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro