Attacco di Hamas, gli interessi in gioco

Una approfondita analisi della situazione in Medio Oriente dal punto di vista degli intrecci economici e delle strategie geo-economiche su larga scala

Tel Aviv –

A più di quaranta giorni dal “sabato nero”, l’attacco di alcune migliaia di terroristi di Hamas contro la popolazione israeliana a ridosso della Striscia di Gaza il 7 ottobre scorso, coincide con un momento di grande fermento geopolitico in Medio Oriente. Sono in gioco enormi interessi economici, politici e rivalità tra superpotenze oltre che tra potenze regionali. È evidente che un’operazione come quella attuata da Hamas non nasce per caso, ma è il risultato di lunga preparazione. Sorge spontanea, allora, la domanda: a chi giova questo attacco e perché in questo momento? Propongo una possibile spiegazione con lo sguardo rivolto a un ampio contesto geopolitico con mutevoli interessi e giri di valzer.

Si può partire, per esempio, dal progettato corridoio economico India-Medio Oriente-Europa (IMEC, nell’acronimo inglese), per il quale nell’ultimo G20 a New Delhi è stato firmato, lo scorso 10 settembre, un memorandum di intesa dai governi di India, Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Francia, Germania, Italia e UE. Un progetto che è però visto con ostilità da almeno due importanti attori, la Turchia e l’Iran, aggirate da questo corridoio e perciò escluse dai previsti benefici economici. Anche la Cina potrebbe vedere nell’ IMEC la manifestazione di una volontà occidentale di fare concorrenza alla sua Via della Seta, altrimenti nota come Belt and Road Initiative (BRI nell’acronimo in inglese). Si tratta di un corridoio di collegamenti stradali e ferroviari tra la Cina e l’Europa la cui realizzazione esige enormi investimenti nelle necessarie infrastrutture attraverso aree dell’Asia centrale di difficile accesso e di grandi ostacoli naturali.

È il cosiddetto “corridoio di mezzo”, così denominato per distinguerlo dal “corridoio nord” che collega la Cina con l’Europa, attraverso il Kazakistan e la Russia. Previo assenso di tutti gli stati interessati, una volta completato, tra diversi anni, attraverserà il Kazakistan, il Kirghizistan, l’Uzbekistan, il Turkmenistan, il Mar Caspio, l’Azerbaijan, la Georgia e si congiungerà all’Europa tramite i porti e la rete ferroviaria turca. Ci sarebbe anche un ramo sud che dal Mar Caspio attraversa l’Iran per arrivare in Turchia. Ma è inutilizzabile, sia perché è previsto un traffico limitato, sia perché l’Iran è comunque uno stato sottoposto a sanzioni e a isolamento economico.

A sua volta, la Russia, sanzionata dopo l’attacco all’ Ucraina, ha perso una parte considerevole del traffico lungo il corridoio nord. La Cina da anni sta inoltre costruendo in Pakistan una rete di circa 3000 km. di strade e ferrovie per collegare la provincia cinese dello Xinjiang al porto pachistano di Gwadar, sulla soglia del Golfo di Oman. Il porto è stato ampliato e potenziato con capitali cinesi per potere ricevere grandi navi. Per la Cina questo corridoio, come quello che solca l’Asia centrale, soddisfa due esigenze: riduce molto considerevolmente la lunghezza delle vie di collegamento con l’Europa, evitando lo Stretto di Malacca, che in caso di eventi bellici potrebbe essere chiuso al traffico mercantile cinese. Tanto per dare un’idea della dimensione economica della posta in gioco: secondo statistiche ufficiali gli scambi commerciali tra la Cina e l’Ue sono stati nel 2022 di 847 miliardi di dollari. Non ci vorrà molto tempo prima che arrivino al trilione.

L’IMEC ha il fine dichiarato di promuovere e incentivare i collegamenti e l’integrazione economica, marittima, ferroviaria e stradale tra l’India – che con la Cina è in notoria rivalità – e l’Europa. Nel tratto marittimo collegherà i porti indiani di Mumbai e Mundra (Gujarat) con gli Emirati Arabi Uniti, da dove comincerà una linea ferroviaria che attraverserà Arabia Saudita, Giordania e Israele. Una rotta marittima congiungerà poi il porto di Haifa con quello del Pireo (del quale la Cina è il maggiore azionista) in Grecia e quindi i mercati europei, ripercorrendo l’antica via delle spezie. In questo modo si eviterebbe o si ridurrebbe di molto il traffico commerciale marittimo costretto dalla geografia a passare per la strozzatura dello stretto di Hormuz, che l’Iran ha la possibilità di bloccare con relativa facilità, e di alleviare la pressione sul già congestionato Canale di Suez. Esperti in materia affermano che parte della rete ferroviaria già esiste. Si tratta di modernizzarla e di completare i tratti mancanti. Potrebbe divenire operativa in pochi anni.

L’ IMEC è sicuramente avversato dalla Turchia che aspira a divenire la porta di ingresso dell’India in Europa. “Non ci può essere un corridoio senza la Turchia” ha dichiarato il presidente Recep Taib Erdogan, aggiungendo “Noi siamo un centro importante di produzione e di commerci e la via più conveniente tra Est e Ovest passa dalla Turchia”. Privatamente fonti turche, citate dal Financial Times, hanno detto che uno dei motivi dell’ostilità turca è che il collegamento tra Haifa e il Pireo attraverserà tratti di mare sui quali la Turchia rivendica sovranità, suscitando la collera della Grecia. Per l’India, che ha un’economia in espansione e in concorrenza con la Cina e non ha dirette vie di accesso all’Asia centrale, l’IMEC assume un’importanza strategica.

È in questo contesto che si possono spiegare sia gli accordi di Abramo nel 2020 sia il rapido avvicinamento tra Israele e Arabia Saudita, fortemente incoraggiato dagli Stati Uniti, con l’intento di arrivare alla piena normalizzazione dei rapporti. Un avvicinamento che è anche incentivato dalla comune ostilità dei due stati all’Iran. Per Riad il regime degli ayatollah è una serissima minaccia ai suoi interessi, che ha anche connotati di rivalità religiosa: l’Iran è sciita, l’Arabia Saudita è sunnita. Tra Israele e Iran è già in corso da molti anni un’intensa guerra clandestina e per interposti attori, come gli Hezbollah libanesi, longa manus degli ayatollah che, ricordiamo, negano allo stato ebraico il diritto stesso all’esistenza e non celano di volere la sua distruzione. Si può osservare, a questo proposito, che alla luce della logica non c’è nessun motivo di contenzioso tra i due stati che anzi, negli anni dello Scià Reza Pahlavi, avevano intensi, discreti e amichevoli rapporti. L’ostilità degli ayatollah ha apparentemente solo una matrice religiosa. Non diversamente dall’integralismo islamico sunnita, essi vedono nello Stato ebraico una presenza aliena e un avamposto di “corrotti” valori e costumi occidentali in terra dall’Islam.

Un accordo di pace israelo-saudita permetterà agli Stati Uniti di completare la costituzione di una rete di stati alleati ostili alle mire espansionistiche iraniane e di contenere la crescente presenza cinese nella regione. La decisione del presidente Joe Biden, subito dopo il 7 ottobre, di inviare due portaerei e di rafforzare lo spiegamento militare Usa in Medio Oriente si spiega sia con la necessità di dare un concreto segnale di sostegno all’alleato israeliano agli occhi di tutti gli attori regionali sia di impedire lo sfaldamento della rete di alleanze a guida americana nella penisola arabica e nel Mar Rosso. Si vuole così porre una barriera all’ “Asse del Male”, formata dall’Iran e dagli stati divenuti suoi vassalli (Libano, Siria, Iraq, Yemen degli Houthi).

Dalla guerra in Ucraina la Russia, isolata dalle sanzioni economiche e politiche occidentali, è stata costretta ad avvicinarsi all’Iran, dal quale riceve una parte dei micidiali droni usati nel conflitto, e ha perciò assunto una linea sempre più ostile a Israele. Inoltre, agli occhi di Mosca, un conflitto limitato in Medio Oriente ha il vantaggio di distrarre l’attenzione dell’Occidente da quello in Ucraina.

Non sarei troppo sorpreso se si scoprisse che dietro a una parte delle manifestazioni antisraeliane e filopalestinesi che stanno agitando le piazze europee e americane si celino le mani, oltre che di Teheran, anche di Mosca, maestra di disinformazione, tramite siti internet, network sociali, troll e opinion makers.

Chi volesse sconvolgere le acque nella regione ha a sua disposizione un’arma di sicuro effetto: provocare una reazione armata di Israele contro i palestinesi di dimensioni tali da mobilitare le piazze arabe, ben sapendo che l’infiammabile opinione pubblica regionale è comunque già a priori in gran parte ostile allo Stato ebraico.

L’indiziato maggiore è sicuramente l’Iran. Per due motivi soprattutto. Una normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita significherebbe il riconoscimento dello stato ebraico da parte del maggiore e più influente esponente religioso del mondo musulmano sunnita. Di fatto, metterebbe la parola fine al conflitto tra Israele e buona parte del mondo arabo, anche se non necessariamente alla questione palestinese.

L’altro motivo è che la normalizzazione delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita è la condizione necessaria per la realizzazione dell’IMEC che, ricordiamo, nel tratto mediorientale dovrà terminare nel porto di Haifa. Riad ha anche un ulteriore motivo per volere un accordo con Israele. L’ambizioso progetto di costruire Neon, una città ultramoderna che sta nascendo dal nulla sulla costa saudita del Golfo di Aqaba, prevede anche un collegamento ferroviario con l’Egitto attraverso un ponte di una decina di chilometri sugli stretti di Tiran. Ma il trattato di pace tra Israele ed Egitto impone anche l’assenso di Gerusalemme perché è da questi stretti che passano i collegamenti marittimi tra il porto israeliano di Eilat e l’Asia.

Tra tutti i possibili attori, inoltre, l’Iran è quello che sostiene più attivamente Hamas, col quale condivide l’odio implacabile nei confronti di Israele, fornendo armi, assistenza tecnica per la produzione di razzi e missili e pure addestramento militare. A quanto si sa dalle fonti israeliane, unità scelte di Hamas (i commando Nubka) hanno perfezionato il loro addestramento militare in Iran e nei campi degli Hezbollah, in Libano. Secondo il quotidiano finanziario israeliano Calcalist, Hamas riceve ingenti finanziamenti dall’ Iran tramite il paravento di portafogli digitali usati per le transazioni in monete cripto, così sfuggendo ai controlli dei competenti organi internazionali. In questo modo, ma non è l’unico, Hamas, ha ricevuto dall’Iran, oltre che dal Qatar e dalle tasse imposte nella striscia di Gaza, somme stimabili in diversi miliardi di dollari nell’arco degli ultimi anni. Solo briciole di queste somme sono state spese a favore della popolazione della Striscia, tra le aree più povere al mondo.

Vista questa stretta intimità di rapporti non è credibile pensare che Iran non fosse informato di ciò che si stava cucinando nella pentola di Hamas.

In passato, la stampa israeliana, ha scritto che i programmi offensivi dell’Iran prevedono, come possibile scenario, un attacco congiunto e coordinato a Israele degli Hezbollah dal Libano, di milizie locali alleate, pure dal sud della Siria, di Hamas da Gaza, e una sollevazione dei palestinesi in Cisgiordania con l’intento di coinvolgere una parte almeno degli arabi israeliani. Tutto ciò sotto un intenso bombardamento di razzi e missili contro città, basi militari e vie di comunicazione al fine di ostacolare la mobilitazione delle forze armate, in gran parte formate da soldati della riserva.

Sembra però che Hamas abbia scelto il giorno dell’attacco senza prima avvertire Teheran e il capo degli Hezbollah, Hassan Nasrallah, nel timore di una fuga di notizie. Che questo sia il caso lo affermano notizie stampa trapelate da servizi segreti occidentali, ritenute credibili pure in Israele. Stando a queste fonti, in un recente colloquio a Teheran col capo dell’ufficio politico di Hamas, Ismail Haniyeh, la Guida Suprema dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, avrebbe rimproverato il movimento islamico palestinese di aver attaccato Israele senza prima informare il suo patrono iraniano, colto impreparato a un conflitto in un momento non di sua scelta. Khamenei avrebbe perciò avvertito Haniyeh che l’Iran avrebbe dato un ampio appoggio politico ma non sarebbe andato oltre un sostegno militare limitato per evitare un conflitto più ampio. Hamas ha smentito la notizia, l’Iran e gli Hezbollah libanesi hanno preferito tacere. Di solito ciò ha il significato di una conferma.

La decisione di attaccare è evidentemente nata dalla convinzione dei capi di Hamas che le profonde divisioni emerse in seno alla società israeliana negli scorsi undici mesi, in seguito alla controversa riforma della giustizia in programma del governo Netanyahu, l’abbiano indebolita a tal punto da minarne la coesione e la volontà di combattere.

È in questa chiave, perciò, che si spiega il fatto che gli Hezbollah, al solo fine di ridurre la pressione militare israeliana su Hamas, si siano limitati a un discontinuo, seppure giornaliero, fuoco di razzi e sparatorie in Alta Galilea entro una fascia lungo il confine, evitando però di colpire il cuore del territorio israeliano. Una tattica che ha comunque costretto Israele a spostare parte delle sue forze armate lungo la frontiera col Libano e a evacuare gli abitanti nelle aree più a rischio.

Ma non è una situazione che possa durare ancora a lungo.

Se non si troverà una soluzione politica che allontani la minaccia degli Hezbollah al di là del fiume Litani, in sud Libano, in modo da permettere il ritorno della popolazione sfollata, una vasta operazione militare diverrebbe inevitabile. Per il momento le forze armate israeliane continuano a dare priorità alla neutralizzazione di Hamas a Gaza.

In perfetta coerenza con la sua politica di non rischiare mai in prima persona, preferendo combattere piuttosto fino all’ultimo soldato arabo, l’Iran ha anche permesso a milizie locali l’impiego di alcuni droni militari dalla Siria, che hanno causato danni materiali trascurabili a una scuola di Eilat, e agli Houthi nello Yemen di lanciare droni armati e un paio di missili balistici. Questi ultimi sono stati intercettati nello spazio e distrutti prima di raggiungere gli obiettivi. È stato il primo riuscito uso operativo del sistema antimissile Arrow. Gli Houthi hanno annunciato che nel mirino ci saranno ora pure le navi israeliane nello stretto di Bab El Mandeb, tra il Mar Rosso e il Golfo di Aden. Una minaccia che hanno concretizzato già la scorsa domenica impadronendosi di una nave di proprietà di una società britannica – della quale è contitolare un uomo d’affari israeliano – che era stata noleggiata da una compagnia giapponese per il trasporto di automezzi. La nave è la Galaxi Leader, battente bandiera delle Bahamas, con un equipaggio di diverse nazionalità ma nessun israeliano. L’azione degli Houthi contiene un’implicita minaccia a tutto il traffico mercantile marittimo tra l’Asia e l’Europa. Israele afferma che dietro gli Houthi si celano mani iraniane.

L’attacco di Hamas ha imposto una battuta di arresto al processo di avvicinamento tra Israele e Arabia Saudita, come sperava l’Iran, e ha costretto anche quegli stati arabi che già avevano normalizzato le relazioni con Gerusalemme, ad abbassarne temporaneamente il profilo. Ma è una battuta d’arresto provvisoria, a giudicare dall’esito del recente vertice arabo-musulmano a Riad. Si è concluso con le prevedibili altisonanti condanne di Israele, nello stile tipico della retorica mediorientale, ma non ha adottato nessuna sanzione concreta, per l’opposizione di Arabia Saudita, Egitto, Giordania, Bahrein, Marocco, Mauritania. Tutti stati che sono nemici giurati del movimento islamico e hanno relazioni diplomatiche con Israele.

Non si rischia di sbagliare, perciò, se si afferma che, nel segreto delle cancellerie e nell’intimità dei loro palazzi, molti leader arabi stiano tifando per Israele nella speranza che riesca a completare la distruzione di Hamas. Obiettivo, questo, che Stati Uniti e molti governi europei condividono pienamente, anche se non tutti sono disposti a dirlo apertamente.

A ostilità concluse e dopo un decente intervallo, il dialogo Riad-Gerusalemme, con ogni probabilità, potrà riprendere perché lo impongono i rispettivi interessi superiori. Non vedo nemmeno uno stato arabo disposto a sacrificare i suoi interessi in nome della causa palestinese. Diceva De Gaulle: “non ci sono legami di amicizia tra stati ma di interessi”. Nel caso dei rapporti israelo-arabi sembra ancora più vero.

 

Giorgio Raccah – Giornalista, studioso di geopolitica, già corrispondente dell’ANSA dal Medio Oriente

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