Tutto comincia dai libri. «Libri, ma quanti libri, Dio Santo!»

Così esclamò Mussolini davanti ai volumi della biblioteca di Anna Kuliscioff, “la signora del socialismo”, compagna di Filippo Turati. È una delle “chicche” che si gustano nel libro di Mirella Serri, Quanto bene Mussolini ha fatto alle donne, le radici del maschilismo italiano, Editore Longanesi. Un viaggio nell’esercizio del potere e una particolareggiata descrizione degli atteggiamenti che il capo del fascismo aveva verso la donna

Mussolini resta ammirato dalla grande quantità di volumi che Anna Kuliscioff esibisce negli scaffali delle sue librerie e lascia intravedere «ovunque nel suo appartamento». Lo pervade un senso di invidia e di rabbia per la delicatezza, il buongusto e la capacità di esercitare seduzione, desiderio, con cui il profilo sinuoso dei tomi impilati che si concede alla vista dei suoi occhi cupidi sa avvincerlo – a lui, giovane di origini umili, non era stato concesso di possederli, ma ne aveva letti di diversi per nutrirsi, Sesso e carattere di Otto Weininger, per esempio, la sua lettura fondamentale «per capire le donne» –, per il pregio delle loro rilegature in cuoio, per le parole che riempiono quella casa. Con le macchie d’inchiostro, come sul panno azzurro che riveste la tavola. Allo stesso modo, quel senso di suggestione e livore provocato dai libri riempiva il silenzio, prima che il resto delle parole che ancora la storia aveva da scrivere si librasse in un dialogo, in quella casa di Milano, tra il futuro dux e la «Signora del socialismo», com’è stata per la storia, la «dottora dei poveri», com’era stimata per il suo tempo, una «apparizione di luce», come la sentiva il suo «lingera» (birbone), il «Filippin», per lei «padre, madre, fratello, florido marito».

 

Anna Kuliscioff

 

I libri Mussolini li aveva ambiti, bramati, cercando di guadagnarseli assieme ai giornali. Delle parole egli aveva già intuito la potenza. Ora ne respirava l’odore della carta, del cuoio, della sacralità e della ferocia, nel «tempio del socialismo italiano», il salotto Kuliscioff-Turati.

 

Mussolini

 

È questo il punto di partenza in media res che Mirella Serri individua per il suo ultimo libro Mussolini ha fatto tanto per le donne! Le radici fasciste del maschilismo italiano, edito da Longanesi nel settembre del 2022.

 

 

Un saggio denso di situazioni, contesti, suggestioni, personaggi, che consente a Serri di scrivere da abile cronista, riportando con lucidità e perizia le vicende dell’Italia di quegli anni, ma pure di sfruttare con coscienza una vocazione da scrittrice di romanzi, che sa curare descrizioni e dettagli per raccontare piacevolmente storie e si impegna a raccontarne tante, diverse, particolari, dallo spessore più o meno rilevante e restituendo a tutte la giusta dignità, per raccontare una Storia più grande.

Un obiettivo sfidante che viene colto dall’autrice e portato a termine con successo, lasciando che il lettore apprezzi un appagante senso di sazietà quando termina la lettura del suo libro e sperimenti insieme, giunto all’ultima pagina, un appetito rinnovato, che lo invogli a leggere nuovi saggi, nuove storie, per continuare a indagare su un passato impegnativo, e al contempo a reinventarsi nello sguardo, per rivolgersi al presente con occhi più aperti, curiosi, capaci, consapevoli.

Un’altra sfida da cogliere, un altro proposito alto che Serri, questa volta, affida al suo pubblico, portavoce della stessa responsabilità di cui è la Storia a investirci.

L’idea principale che sostanzia e sottintende tutto il saggio si ha modo di leggerla già nella sua introduzione: Mussolini ha capeggiato una doppia marcia, quella per la presa del potere (e l’annientamento della democrazia) e quella contro le donne. Il maschilismo parte da lì e la scrittrice si propone di descriverlo e analizzarlo partendo dalla sua genesi, quando «gli stereotipi di genere divengono patrimonio comune del Ventennio fascista», quindi restano costume italiano e si radicano a partire dall’operato dei padri costituenti.

L’inferiorità appartiene alle donne e non per una cultura distorta, ma per la loro stessa natura muliebre. È il pensiero, inizialmente mal celato e poi sfacciatamente ostentato, di Benito Amilcare Andrea Mussolini. Nomen omen, il suo è quello del «Marat del Socialismo» e sa di rivoluzione: Benito come Juàrez, indio messicano che aveva condotto la lotta del suo Paese contro l’invasore francese; Amilcare come Cipriani, il grande leader della Comune di Parigi; Andrea come Costa, il primo socialista ad approdare nel Parlamento italiano, già compagno di Anna Kuliscioff prima di Turati.

Il filo rosso (o…nero?) che conferisce unità all’opera è un disprezzo tutto sommato educato che viene meritatamente rivolto al “duce”: Serri non lo consegna al lettore come una condanna senza possibilità d’appello che la verità storica pure riconosce e attesta. La scrittrice accompagna per mano il lettore come in una galleria d’arte, le cui opere ritraggono i profili di donne forti, talvolta integre e imprescindibili, talvolta contraddittorie e spietate e restituiscono l’immagine di uomini altrettanto di valore o terribili. L’arte, per mutuare un’espressione presente nel libro, grazia chi ha «fame di cose belle». La storia, poi, si preoccupa di sfamare con la verità. È per questo che nell’itinerario proposto dall’autrice il lettore si guadagna le sue interpretazioni da sé, comprende, rielabora e a consentirglielo è una verità trasferita con maestria.

Il saggio coniuga critica storiografica e didattica, senza disattendere, come si è detto, velleità narrative e, valicando i generi letterari, realizza un contributo pregevole, perfettamente puntato sull’obiettivo centrale: il racconto di una storia autentica e verace, limpida e prorompente.

Questo patto di franchezza come fedele promessa espressiva permette di ospitare tra le pagine tante figure femminili diverse e di farle coesistere nella stessa trama, alcune protagoniste, altre comparse. Anche quando sono distanti tra loro, con Serri riescono tutte a trovare un dialogo, sia per l’attenzione che l’autrice riserva ai momenti di confronto che i fatti storici testimoniano, sia perché anche lì dove non vi sono mai stati incontri, Serri sa evocare ugualmente un colloquio, anche se solo indiretto: viene stimolato un confronto tra biografie raccontate con cura o solo accennate, ma tutte intense e tutte degne di restare nelle memorie, tutte eloquenti e funzionali per comprendere cosa il “duce” ha fatto più che per le donne, in termini di conquiste politiche, alle donne, in termini di vessazioni, ma soprattutto valide per se stesse. L’abilità di Mirella Serri è di capovolgere i termini del binomio: non le donne in funzione di Mussolini, ma Mussolini in funzione delle donne.

 

Filippo Turati

 

Compaiono i nomi di Anna Kuliscioff, già presentata con epiteti emblematici che condensano adeguatamente il suo impegno “rosso” e femminista, e di Ernesta Bittanti, scrittrice e giornalista pioniera di battaglie importanti per le quali, dapprima insegnante, viene radiata da tutte le scuole del regno come «sovversiva» – che fossero compagne di Filippo Turati e Cesare Battisti è tutto sommato cosa secondaria –; di Argentina Altobelli, sindacalista caparbia turbata dall’eccidio di Roccagorga e dagli altri morti e dalle altre morte, che pure il rivoluzionario Andrea Costa, per lei fonte di ispirazione, esorta la fanciulla «a fare all’amore e non occuparsi di politica», giacché la causa comune era cosa pericolosa (ancor più per una donna); di Giuseppina Tuissi, la compagna Gianna in armi presente e partecipe all’arresto del “duce”.

 

Angelica Balabanoff

 

Compaiono, ancora, le vite di Rachele Guidi, Claretta Petacci, Angelica Balabanoff (che si configura, tra le altre in questo novero, come la donna di Mussolini più sospettosa nei suoi riguardi e sensibile alla questione femminile), Margherita Sarfatti (Grassini da nubile), avida e scaltra, volgare, disperatissima, Ida Irene Dalser. E ancora una sfilza di altri nomi: le amanti di Mussolini sembrano enumerabili.

 

Margherita Sarfatti

 

Sono storie, queste, in cui trovano espressione tutto il maschilismo del “duce” e tutte le idee di un femminismo storpiato e sottomesso che le stesse donne maturano per conto loro (per Margherita, per esempio “maternalista”): storie di donne sedotte, sfruttate, frustrate, costrette, ossessionate e umiliate da Mussolini, mai propriamente e pienamente amate. L’amore, anche quando viene ricambiato dal “duce” (con la minuscola, come talvolta tiene a precisare Serri), cambia sempre di segno. Per loro, lo scrive Margherita Grassini Sarfatti, Mussolini è un ossimoro tormentoso e svilente che le consuma, «amante inquieto e terribile, delicato e squisito, adorato e malvagio, iniquo e dolcissimo».

 

Ida Irene Dalser

 

Mussolini violenta e usa sempre e solo violenza contro le donne, pure con le “sue”, pure nell’amore e nel sesso, dacché perde la verginità con una meretrice avanti negli anni in un bordello di Forlì, un «sacrificio», disprezzandola. Anche nell’aridità di percezioni veramente sentimentali del Mussolini mitomane e «troppo sessuato», la sua tensione continua a ricercare la donna ne comprova la dipendenza malata: egli definiva la sua attrazione carnale spasmodica come «Bestia». Come scrive nei versi dedicati a una di quelle amanti sventurate: «Bimba non mi guardare / forse tu m’ami d’un affetto serio / ma questo cor che tu sognando brami / è pieno di veleno». E, ancora, in una lettera più strutturata a Margherita, in una rara dichiarazione di “amore”: «Ti amo con tenerezza violenta […] Dammi un po’ di sangue dalle tue labbra».

 

Rachele Guidi

 

La cifra del rapporto di Mussolini con le donne è sempre la crudeltà.

 

Claretta Petacci

 

L’unica modalità possibile per instaurare un rapporto con l’altro sesso deve per Mussolini necessariamente passare dal sangue, nel privato e al governo. Ancor più quando le donne lo amano e si mostrano più docili. E ad amarlo non sono soltanto quelle donne sedotte e possedute, ma anche quelle che vestono con orgoglio i panni di angelo del focolare, che sono mogli devote di uomini che ne emulano la virilità gradassa, che barattano con il suo disprezzo mascherato da presunta benevolenza persino i figli, rimettendoli alle fie dei suoi eserciti. Significativa l’immagine in copertina.

Sono tanti i peccati originali delle donne, per lui «orinatoi» del sesso forte: colpevole la loro sensualità, che svuota le energie maschili; la loro sessualità, che è secondo le norme che codificano la doppia morale profondamente dissimile da quella dell’uomo e valida solo quando consente alle donne di essere «macchine da riproduzione» (incriminati al tempo anche i rapporti delle femmine con le macchine da cucire nelle fabbriche, i cui movimenti ondulatori causavano nelle cucitrici una sempre colpevole eccitazione genitale); il loro cervello, stimato dagli uomini come «di paglia»; la loro natura incapace di somigliare all’uomo nella forza e nella genialità: è indiscusso che «non esiste né potrà mai esistere un genio femminile», leggiamo.

È per questo che le donne non meritano di essere tutelate nel lavoro e rispettate nella famiglia.

È per questo che le donne non meritano di votare, tanto che il voto viene concesso a uomini analfabeti, sì, ma non a donne letterate. Kuliscioff inorridisce.

Questo libro, si può dire, è anche la parabola della vicenda del voto alle donne, «una storia infinita», «una beffa senza fine». Serri dall’inizio alla conclusione del libro riesce a mostrare l’evoluzione di pensiero che si registra nel “duce” rispetto al suffragio universale, chiarendone tutti gli snodi. Se prima di addentrarsi nel vivo della sua esperienza politica egli era certo che il diritto di voto alle donne non lo avrebbe concesso mai, all’indomani della marcia su Roma reputa, invece, il dibattito superfluo: le donne, come una propaggine del loro uomo, seguiranno le sue decisioni nel voto: non cambieranno nulla, non saranno mai né determinate né determinanti.

È l’inutilità della donna l’angheria definitiva con cui Mussolini ferisce e deturpa l’immagine femminile del suo tempo e la contamina anche nel nostro, la più brutale.

Al di là della storia dei singoli (e delle singole), infatti, Mirella Serri prosegue ininterrotta la narrazione della storia di tutti e di tutte, la loro, la nostra. L’evoluzione di Mussolini, la sua influenza crescente e decisiva sulle vicende dell’Italia, la marcia su Roma, il delitto Matteotti, la divaricazione tra le donne fasciste, cui dare in dote il prototipo ideale di angelo del focolare, e quelle antifasciste, «megere, prostitute, alcoliste», da bruciare come streghe d’altri tempi: la cronaca della storia d’Italia non si smarrisce mai, si arricchisce di cronache più piccole quando subentrano un aneddoto o un profilo di donna da raccontare, pause narrative sempre ben integrate e coese, spesso anche quelle lasciate in sospeso e poi recuperate di capitolo in capitolo, a piccole dosi. Nulla si disunisce mai, tutto viene dispensato al lettore con discrezione ma efficacemente.

Serri riesce con la sua scrittura ad aggiungere alla storia quello che normalmente manca ai manuali: l’attenzione alle persone, quelle che hanno stature più minute, quelle che appaiono più elevate.

L’aspetto più interessante che l’autrice valorizza con la sua opera è lo scandaglio interiore. Nella persistenza di un’ostinazione, nella gelosia, nella ricerca di giustizia, nelle contraddizioni: sono tutte straordinarie nell’umanità con cui vengono raccontate, come un ricordo vivissimo e presente, che merita di essere riportato alla memoria perché ha valore.

Le donne di cui si parla non sono mai ripartite tra “buone” e “cattive” e nel momento in cui il lettore, ancor più se poco avvezzo ai rudimenti sulla storia del Ventennio, ne inizia a fare la conoscenza, difficilmente riesce a prevedere se entreranno in contrasto con il “duce” o ne saranno confidenti, concubine, o ancora vittime. Le donne che Serri seleziona per la sua antologia sono tutte estremamente reali e vengono seguite con precisione nella loro evoluzione, sono vive: nella galleria d’arte in cui la scrittrice passeggia per mano con il lettore non si incontrano quadri, ma busti e statue, ci si può girare attorno, vederli per intero. La promessa di verità viene così sempre mantenuta.

Mirella Serri opera al contrario rispetto a Mussolini: restituisce quella dignità che il fascismo alle donne ha brutalmente sottratto. Lo fa con una parola che non si ferma alla superficie, non si limita a descrivere, vuole conoscere, non riempie le lacune di una storia spesso semplicistica o, peggio, distorta, ma continua a scavarne le viscere e così perviene alle ragioni più intime delle cose.

Mirella Serri opera al contrario anche rispetto a Margherita Grassini Sarfatti, che componendo la biografia del Dux lo divinizza e suggerisce un’erotica del «padre-marito-amante-padrone», ne officia il culto scolpendolo nell’immaginario collettivo come «uomo di tutte le italiane», oltre che di tutti gli italiani: una carica virile cui le donne devono ambire a essere sottomesse, prepotente, impressionante e maledetta com’è, temibile non solo nella propaganda, ma molto più pericolosamente concreta e drammatica nelle leggi.

Descrivendo la creazione del culto di quel superuomo, si arriva all’istituzione del suo maschilismo come religione di Stato. L’autrice parla di quella genesi, ma pure di questa apocalisse, in cui anche nell’oggi la persecuzione delle donne stenta a estinguersi. E al di qua del maschilismo, ieri e oggi e sempre, una sconsiderata paura per quello che le donne possono fare, pervenendo anche con strumenti meno affilati dove l’uomo non sa imporsi con la furia. Mussolini ci era già arrivato, questo testo aiuta a ribadirlo.

Il saggio di Mirella Serri, così come questa recensione, comincia dai libri, dalle parole.

Ed è con una parola precisa, molto potente, interpretandola come monito assoluto del saggio, che questo pezzo vuole concludersi: antifascismo.

Per le donne che si guadagnano il potere e si dicono con fierezza madri, italiane, cristiane e si propongono di interpretare così il loro ruolo nella storia e nel mondo, e pure per quelle che hanno voce più flebile, che non sanno risolversi con la maternità, con la fede, ma ciascuna a suo modo e spesso noncuranti dei ruoli prescritti e di altri ordini banali, e pure per gli uomini, per tutti: si dicano prima e più del resto «antifascisti».

Questa parola, sulla loro e sulla nostra bocca, non vale come uno statuto politico d’appartenenza, vale come la riprova che la storia e il sangue hanno avuto un senso, possono essere efficaci, sentirsi riusciti. Come è da sempre per la parola femminista, che già a Mussolini provocava l’orticaria, «un fastidio quasi fisico» e anche oggi assieme a quella antifascismo, sa indispettire, irritare: queste parole sanno essere forti, risuonare molto più del resto, che è spesso divagazione per ottundere radici marce, le radici fasciste del maschilismo italiano.

Essere fascista, oggi più che mai, oltre che essere anacronistico, sgarbato e di cattivo gusto, è diventare come l’intransigente gerarca fascista Forges Davanzati descritto da Gramsci: un superuomo? Forse, ma «il “superuomo” rappresentato da un drammaturgo o un romanziere minchione […] la vita come opera d’arte, ma opera d’arte d’un minchione».

 

Gramsci

 

Se un grido di antifascismo si leverà con coraggio nelle piazze come nei palazzi del potere e sarà sentito forte anche dentro, Mussolini avrà fatto davvero qualcosa per le donne, avrà permesso con la scelleratezza di far maturare una coscienza. Quel giorno, a segnare le pagine dei libri sulle scrivanie degli uomini e delle donne, quelli piccoli e quelle più grandi, allora, spunterà un fiore. Come una Margherita, ma libero e gentile.

 

Mariachiara Longo

 

 

Mariachiara Longo Laureanda in Lettere- stagista

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