Gustavo Selva forse è oggi soltanto un nome per i moltissimi che non l’hanno conosciuto in vita.
È morto nel 2015, dopo una vita professionale e politica spesa al servizio dei valori occidentali, che tali restano anche quando sadici e masochisti li sprezzano.
Fu giornalista, scrittore, parlamentare nazionale e europeo. Dal 1975 al 1981 diresse il Giornale Radio 2. I suoi espliciti, quotidiani, coraggiosi editoriali contro l’Unione sovietica, il Pci e gli altri variegati agitatori ed apologeti del comunismo realizzato e rivoluzionario (“Fare come in Russia”, “La Cina è vicina”) gli meritarono dai nemici l’epiteto di “Radio belva”, del quale andò sempre fiero, ed a ragione.
Negli “anni di piombo” fu un baluardo contro la deriva antioccidentale dell’Italia. Era pericoloso esserlo, molto pericoloso. Per me, ascoltarlo al mattino, fu un’iniezione di fiducia e fermezza. Non lo dimenticai. Gliene fui sempre grato. Montanelli con il giornale stampato e Selva con il giornale parlato furono a viso aperto, non solo per me, i protagonisti della resistenza liberale alle pulsioni e azioni filocomuniste, terroristiche e no, ed all’ondata compromissoria, politica e culturale, che avvelenava la società e la democrazia in quella temperie italiana.
Ritrovai Gustavo Selva in Parlamento, a Montecitorio nel 1994. Deputato lui di Alleanza Nazionale, deputato io di Forza Italia, lo conobbi finalmente di persona. Lui presidente, io componente della Commissione affari costituzionali. Non fu tanto l’assonanza politica ad accendere la simpatia reciproca. Piuttosto la miccia ne fu il fatto che mi presentai a lui omaggiandolo con un calorosissimo “Mio Radio belva!”. Un complimento che, all’evidenza, nessuno più gli aveva rivolto da un pezzo, men che meno così sentito e in pubblico. Dalla simpatia, come succede, passammo all’apprezzamento politico.
Gustavo Selva guidò una delegazione parlamentare che, nell’ambito dell’Associazione per l’amicizia Italia-Taiwan, fu ospitata dal governo di Taipei. Ne facevo parte e visitai così l’isola che aveva dismesso il vecchio nome portoghese Formosa per l’attuale Taiwan. È noto che Pechino considera Taiwan una sua provincia, mentre Taipei non riconosce l’appartenenza alla Cina. Taiwan ha finora ottenuto pochi riconoscimenti della sua personalità internazionale, che la Cina avversa in ogni modo con la pressione della sua potenza. Tuttavia di fatto vive, sebbene minacciata pesantemente, come una nazione a sé stante, avendone tutti i caratteri. È sovrana e armata, con un sistema politico democratico e libero. Possiede un’economia di concorrenza molto sviluppata.
Nel 1994 le cose erano alquanto diverse, in ogni senso, salvo l’indomito spirito d’indipendenza che tutti i taiwanesi manifestavano anche allora in modi pudicamente espliciti, come dimostrò l’accoglienza ricevuta. Volevano che capissimo, senza dirlo in modo assertivo, quanto tenessero all’amicizia tra i nostri due popoli ed al sostegno politico e diplomatico dell’Italia, contro l’isolamento e in funzione anticinese.
I pranzi ufficiali offerti dalle massime autorità di governo furono lauti. Persino cinque ore di tavola. Vi sfoggiarono la classica cucina cinese, anche il brodo di pinne di squalo, una preziosa rarità pure per i loro governanti. Fummo alloggiati ad un imprecisato altissimo piano del celebre “Taipei 101”, il grattacielo di 508 metri che è stato a lungo il più alto del mondo. Lì una notte sperimentammo pure l’ebbrezza di una violenta scossa di terremoto. Il terrore fece precipitare alcuni di noi in istrada, con pigiama e pantofole.
Attraversando la hall, gridammo al portiere: “Terremoto! Terremoto!”. Ne ricevemmo in risposta, con un’espressione di compatimento tra il ghigno e il sorriso, tipica del cinese comune: “Ce ne sono sempre qui!”. La calma atarassica del concierge era più che giustificata. Il “Taipei 101” è costruito in modo da flettere come un bambù. In cima ha addirittura un contrappeso che smorza l’ampiezza delle oscillazioni.
La visita di certi stabilimenti, dove venivano fabbricate merci di modesto valore, fu davvero istruttiva perché dimostrava la straordinaria capacità di lavoro, ben oltre il limite accettabile per noi che, contrariamente a loro, avevamo già sperimentato un solido e diffuso benessere.
Il fatto che facessero ispezionare le fabbriche con massivo impiego di manodopera metteva in luce l’orgogliosa determinazione di sollevarsi dalla miseria, non meno di un’ingenua voglia di assomigliarci. Ho un ricordo vivido, amaro e tenero al tempo stesso, del sopralluogo ad una manifattura di oggetti da infilare a mano, forse una specie di collanine.
Centinaia di lavoratori affollavano un enorme capannone, ciascuno seduto ad una sedia dietro un tavolo di un metro per un metro, grosso modo. Erano le loro postazioni di lavoro, a cui attendevano febbrilmente, a testa china. Alle ore 12 in punto suonò forte un campanello. I lavoratori di scatto interruppero il lavoro, aprirono il cassetto del loro tavolino, ne trassero una ciotola di cibo, mangiarono voracemente, la riposero e reclinarono il capo sulle braccia poggiate sul piano del tavolo. Riposarono così il tempo rimanente alla fine della pausa, che cadde alle ore 12.30. Quei lavoratori umili, applicati a beni modesti, erano i padri dei lavoratori attuali che producono beni all’avanguardia della tecnologia mondiale.
Dovunque andavamo, l’essere riconosciuti come italiani, a prescindere dall’essere parlamentari che interessava le autorità, suscitava addirittura punte di entusiasmo nella gente comune, per strada. “Ferrari, Ferrari” gridavano talvolta al nostro indirizzo.
La “rossa” di Maranello era tutti noi.
Un episodio fu addirittura commovente. Capitò che il pulmino, che trasportava la delegazione all’aeroporto di ritorno a Roma, rimanesse in panne nel bel mezzo di una strada affollatissima e caotica, arrestandone il traffico. Automobilisti, motociclisti, ciclisti, pedoni non gradirono il blocco. Presero a rumoreggiare e inveire, ma al modo cinese, senza ostilità manifesta. L’agitazione e il disappunto non durarono granché. Il diplomatico taiwanese che ci accompagnava arringò, alla cinese pure lui, l’assembramento. Poche parole.
Gli astanti ascoltarono in silenzio, compresi della situazione. Indi, avendo appreso che eravamo italiani, proruppero nel grido inusitato: “Baggio! Baggio!”. Né Basta. Accerchiarono il pulmino e lo spinsero a forza di braccia finché non ripartì. Sorridevano e salutavano.
Taiwan, allora povera ed isolata, temeva l’invasione della Cina comunista non meno di adesso, ch’è libera e prospera, nonché inserita nell’economia globale, sebbene come un paria del diritto internazionale. Taipei diffida di Pechino fin nelle midolla.
La triste parabola di Hong Kong, “cinesizzata” di recente, costituisce un lugubre presagio per Taiwan, destinato ad avverarsi se la Cina conquistasse militarmente l’isola contro la volontà e la resistenza dei taiwanesi.
Pietro Di Muccio de Quattro – Direttore emerito del Senato. Ph. D. in Scienze politiche e istituzioni politiche