Quella colpevole mancanza di solidarietà dell’Occidente verso Israele. E il popolo ebraico

Da due mesi si ignora che un paese è stato attaccato, come tante altre volte in questi settantacinque anni, e le continue prese di posizioni quasi interamente filopalestinesi delle piazze d’occidente, ma soprattutto i silenzi e le mancate condanne di quelle stesse piazze sull’eccidio compiuto il 7 ottobre, fanno male non solo ad Israele e all’intero popolo ebraico che per l’ennesima volta nella sua storia si trova davanti un nemico che vuole il suo sterminio, ma anche a quei valori di cui il nostro mondo occidentale è storicamente portatore e sostenitore. E che Israele, pur con le sue mille diversità e contraddizioni, ne è l’unico rappresentante in Medio Oriente.

Tutti noi abbiamo nella nostra mente le notizie della mattina del 7 ottobre, quando i notiziari di tutto il mondo ci svegliarono comunicandoci i massacri compiuti da Hamas nei confronti di civili israeliani. Ricordiamo e leggiamo delle testimonianze dei sopravvissuti, di quegli uomini che sono stati torturati e hanno assistito impotenti agli stupri nei confronti delle loro donne.

Eppure, non trascorre un giorno senza che una buona fetta del mondo occidentale prenda posizione contro il popolo israeliano, gridando all’occupazione ed accusando lo stato ebraico di genocidio nei confronti dei palestinesi. Certo, bisogna sottolineare che anche a livello mondiale la solidarietà nei confronti di Israele è stata abbastanza limitata. Quasi quotidianamente, infatti, proprio l’ONU, il cui compito è teoricamente quello di promuovere la pace e la sicurezza internazionale, emette quasi quotidianamente risoluzioni in cui si chiede il cessate il fuoco, senza però condannare i crimini di Hamas, e ad ogni occasione pubblica il suo segretario generale, Antonìo Guterres, si “dimentica” sempre di definire genocidi i massacri compiuti dai miliziani palestinesi sabato 7 ottobre, quando questi penetrarono nei kibbutz cercando, uccidendo e rapendo uno ad uno gli ebrei israeliani che si trovavano davanti.

Quello stesso Segretario che non fa trascorrere un giorno senza rilasciare una dichiarazione in cui condanna l’occupazione israeliana (da lui più precisamente definita come “56 anni di soffocante occupazione”), senza tuttavia mai fare un minimo cenno ad alcune vicende storiche inoppugnabili, come ad esempio che all’origine del primo conflitto arabo-israeliano ci fu il rifiuto da parte degli stati arabi di una storica risoluzione proprio dell’organizzazione che rappresenta, la 182 del 1947, in cui si sanciva la spartizione del territorio della Palestina in due stati, uno ebraico e un altro arabo. Guterres, che in tutti i suoi interventi pubblici non ha mai fatto nemmeno riferimento ad un altro evento storico determinante nella storia del rapporto tra Israele e Palestina, ossia il fallimento del vertice di Camp David del duemila, in cui Arafat gettò incomprensibilmente via l’ultima occasione in cui si arrivò davvero vicini alla costituzione di un vero stato palestinese.

Invece, una delle prime dichiarazioni effettuate dal segretario dell’Onu per commentare i fatti del 7 ottobre, fu una sorta di giustificazione dell’operato di Hamas, affermando che quell’attacco non venisse dal nulla, concentrandosi unicamente sulle presunte colpe di Israele ed al contempo tacendo sia sulle responsabilità delle organizzazioni internazionali che per decenni hanno preferito nascondere la polvere sotto il tappeto sia sulla mancanza di volontà del popolo palestinese abitante a Gaza di affidarsi ad un movimento diverso da quello che prevede nel suo statuto la cancellazione dello Stato Ebraico.

Se l’Onu in questi due mesi ha reagito così, anche buona parte della popolazione del nostro pianeta dall’inizio della guerra non ha mai abbondato in solidarietà nei confronti di Israele, anzi. Senza considerare ovviamente la vicinanza, abbastanza scontata, che sin dal primo momento il popolo arabo ha manifestato nei confronti di Hamas, ciò che continua a stupire è infatti il comportamento del mondo occidentale, che sin dall’inizio del conflitto ha mostrato un’incredibile vicinanza nei confronti del popolo palestinese, con centinaia di migliaia di persone che ogni giorno solidarizzano esclusivamente nei loro confronti, abbandonando totalmente (e a volte addirittura scagliandosi contro) il popolo ebraico.

Proprio qui in Italia, un esempio lampante di quanto appena detto, sono le continue manifestazioni filopalestinesi che ogni giorno vengono organizzate nelle piazze italiane senza che mai si registri una singola parola di sostegno ad Israele. Non una sola parola di vicinanza alle donne stuprate o ai bambini rapiti è stata infatti spesa in quelle piazze spesso composte da persone e movimenti sempre attente al rispetto dei diritti umani. È questa è una responsabilità enorme, una macchia che ci porteremo sempre addosso.

È doveroso, inoltre, precisare che nel nostro Paese, da questo punto di vista, non è la politica italiana ad essere responsabile, bensì la popolazione e la cd. Società civile. Il mondo politico, infatti, il suo (seppur con qualche velo di ipocrisia e qualche solita eccezione) lo ha fatto, prendendo una posizione chiara e soprattutto mandando un messaggio importante con la partecipazione alla manifestazione organizzata martedì 5 dicembre dalla comunità ebraica di Roma e dalla Comunità ebraica italiana, per dire no all’antisemitismo e al terrorismo. La società civile no. Infatti, in quella manifestazione, oltre allo scarso numero dei partecipanti, qualche migliaio non di più, due cose hanno colpito. In primis, le parole di Noemi Di Segni e di Victor Fadlum, rispettivamente presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane e della Comunità ebraica di Roma, i quali amareggiati hanno affermato che “avremmo preferito essere ospiti e non promotori”. In secondo luogo, appunto, la mancata partecipazione da parte della popolazione “civile”, che non presenziando in quella manifestazione ha dimostrato la distanza che vi è nel nostro Paese tra una buona fetta del popolo italiano e la comunità ebraica.

Ma è anche all’interno del mondo scolastico ed accademico che si è registrata un’evidente mancanza di solidarietà nei confronti del popolo israeliano aggredito, che addirittura in diverse scuole secondarie italiane è sfociata in vero e proprio antisemitismo. Ricordiamo, infatti, il commento sui social di una professoressa di Treviso in cui scriveva testuali parole “Andate all’inferno, Hitler aveva ragione su di voi ebrei”. Non si può dimenticare poi, la lettera firmata da 4000 accademici italiani, i quali in piena deriva antiebraica e mettendo sullo stesso piano l’attacco di Hamas e la risposta dell’esercito israeliano, chiedevano il boicottaggio di Israele, invitando a non collaborare con nessuna università israeliana. Certo, dopo ci fu una massiccia risposta da parte di oltre settemila docenti universitari che lanciarono un contro-appello volto a “scongiurare il rischio di un crescente antisemitismo all’interno delle nostre università”. Ma la posizione filopalestinese, antisionista e spesso antisemita, presa da una gran fetta del mondo accademico e dell’intellighenzia italiana, ha avuto sicuramente più risalto.

E va letta insieme a quella presa da molti docenti delle più importanti università statunitensi, dove vanno segnalate, tra le più clamorose, quelle rese dalla Presidente di Harward Claudine Gay, che insieme ai presidenti di University of Pennsylvania, Elizabeth Magill, e del Massachusett Institute of Technology, Sally Kornbluth, in una surreale audizione davanti alla commissione della Camera del Congresso, non condannarono in maniera chiara gli slogan antisemiti evocati durante le proteste studentesche.

Se gran parte del “popolo occidentale” ha reagito, e continua a farlo, in questa maniera è, dunque, anche per il posizionamento di questi “cattivi maestri”, che da due mesi a questa parte, nonostante l’eccidio di Hamas nei confronti della popolazione israeliana sia chiaro e non possa dare adito ad alcun dubbio, spesso hanno definito il massacro dei miliziani “una risposta militare a un regime che occupa illegalmente il territorio palestinese”, non ricordando però che quel territorio non è più sotto il controllo israeliano dal 2005, quando Ariel Sharon decise di ritirarsi da Gaza.

Certo, come in Italia, anche negli Usa vi sono state le reazioni di docenti indignati dall’atteggiamento dei loro colleghi. Spicca, in particolar modo, la risposta di oltre quattrocento professori della Columbia University, i quali hanno voluto prendere nettamente le distanze dal centinaio di colleghi che avevano sottoscritto un appello di solidarietà ad Hamas, firmando un documento in difesa della democrazia israeliana e di ferma condanna dell’attacco del 7 ottobre. Ma, bisogna constatare che le dichiarazioni di sostegno al popolo palestinese e le critiche nei confronti di Israele, a volte sfociate addirittura nell’antisemitismo, fanno più rumore e alimentano quel vagito antiebraico (e spesso antisemita) da sempre presente nel mondo occidentale.

Menzione a parte merita poi l’atteggiamento di Papa Francesco nel commentare i drammatici fatti del 7 ottobre. Il pontefice, infatti, qualche settimana fa, in occasione dell’incontro con una delegazione israeliana e una palestinese, definì il conflitto in corso a Gaza non guerra, ma terrorismo, facendo infuriare l’Assemblea dei Rabbini d’Italia, che con una nota chiese ironicamente “a cosa siano serviti decenni di dialogo ebraico-cristiano parlando di amicizia e fratellanza se poi, nella realtà, quando c’è chi prova a sterminarli, gli ebrei invece di ricevere espressioni di vicinanza e comprensione, la risposta è quella delle acrobazie diplomatiche, degli equilibrismi e della gelida equidistanza, che sicuramente è distanza ma non è equa”. Sull’ambigua posizione del Papa è stata la Segreteria di Stato Vaticana a metterci spesso una pezza in questi mesi, in modo particolare con il Cardinale Pietro Parolin, dichiarando che “la Santa Sede non ha mai sorvolato sull’attacco di Hamas”.

Eppure, è anche sull’ambiguità delle posizioni del Santo Padre, considerato non solo un leader spirituale, ma anche un capo di stato, che si fondano molte di quelle affermazioni, slogan e accuse ad Israele, che ogni domenica riempiono quelle piazze filopalestinesi. Dichiarazioni e prese di posizioni che rischiano di allontanare il Vaticano dal mondo ebraico, in un periodo storico in cui i figli di Abramo dovrebbero percepire la massima vicinanza dell’intera chiesa cattolica e di tutto il popolo occidentale.

 

Francesco SpartàFunzionario, giornalista pubblicista e Tutor Accademico presso Luiss Guido Carli

 

 

 

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