Conflitto israelo-palestinese: quella pietra tombale sulla pace assassinata

Gaza, una prigione a cielo aperto governata da Hamas, che ne ha preso il controllo dopo che Israele nel 2005 si è ritirato dall’interno del territorio, è sempre più un cumulo di macerie sotto il fuoco israeliano. La tregua per lo scambio di prigionieri (i civili israeliani rapiti a seguito dell’attacco del 7 ottobre 2023 e i palestinesi trattenuti nelle carceri dello Stato ebraico) è durata poco.

Un sanguinoso attentato a Gerusalemme, rivendicato da Hamas, vi ha posto fine. Il “problema palestinese” che giaceva sopito da troppo tempo è tornato alla ribalta. Israele non era ancora nato che già la sua esistenza era in pericolo. Come un figlio non voluto che deve essere abortito ad ogni costo, gli arabi di Palestina hanno fatto di tutto per espellerlo dall’alveo dei loro Padri prima ancora che il progetto sionista potesse concretizzarsi e diventasse, al di là del sionismo, la realtà di un popolo che ritrova un lembo di terra dopo duemila anni di esilio.

Nel 1896 il trentaseienne Theodor Herzl, ebreo austro-ungarico, nato a Budapest, scrive il suo “Der Judenstaat”. É una ricerca approfondita che, sulla base di una revisione storica di quanto occorso dopo la diaspora del 70 d.C., conclude che non ci sarà mai pace nel mondo per gli ebrei, sottoposti a vessazioni umiliazioni emarginazioni assassinii e massacri ovunque si siano stabiliti, fino a quando non si costituiranno come un vero popolo su un pezzo di terra riconosciuto come loro Stato.

Nasce, non senza fortissime obiezioni da parte sia degli ebrei laici che degli ortodossi (che vedono solo nell’atteso Messia la realizzazione di un ritorno), il progetto sionista che individua nella Palestina il luogo di elezione. Appoggiandosi alla comunità ebraica (100.000 ebrei residenti) che non ha mai lasciato quella terra e che sotto i musulmani ha dovuto per secoli versare il dhimmi (tassa imposta ai non musulmani) per avere il permesso di risiedervi, iniziano le migrazioni e, tramite il costituitosi “Fondo permanente ebraico”, gli acquisti delle terre sia da piccoli proprietari che dai grandi proprietari terrieri ottomani che volentieri vendono, dopo la caduta dell’Impero.

I giovani sionisti costituitisi soprattutto nell’Europa dell’Est non sono contadini: lo diventano, li attende una terra arida da coltivare. Non sono combattenti: imparano a combattere, addestrati da veterani. Non parlano ebraico: lo studiano nella nuova moderna forma che permetterà l’unificazione di tutti gli ebrei attraverso una lingua comune. I kibbutz sono organizzati secondo un rigoroso sistema socialista di condivisione e portati avanti tramite le migliori tecnologie dell’epoca.

Gli ebrei trasferitisi in Palestina fanno autentici miracoli di bonifica delle paludi e d’irrigazione. Nel 1909, nasce tra le dune di Jaffa, la prima Tel Aviv che tra il 1921 e 1936 diventa una città indipendente e aperta, abitata da ebrei e arabi che ne costituiscono la maggioranza. La vita potrebbe scorrere semplice se gli interessi in alto loco non la complicassero. Tra le due guerre mondiali, l’Impero britannico è l’interlocutore degli arabi che rivendicano in Palestina quella nazione a suo tempo promessa loro e lo accusano di facilitare l’immigrazione ebraica a loro discapito.

Governati da clan di potenti Famiglie anche in contrasto tra loro (tra cui spiccano i Nashabishi e gli Husseini), gli arabi, tuttavia, non si accordano, mentre i giovani, impazienti e critici si radicalizzano. Il 15 aprile 1936 due ebrei vengono uccisi per mano araba. Subito dopo due arabi vengono uccisi per mano ebraica. Segue il trucidamento di nove ebrei per mano araba in Jaffa. Il coprifuoco britannico vede il ventiseienne Gran Mufti di Gerusalemme Amin Al-Husseini (insediatosi con il decisivo sostegno britannico) proclamare uno sciopero generale volto a danneggiare l’economia del Regno Unito.

Gli inglesi sono costretti a mandare rinforzi e a iniziare una repressione sanguinosa (1936-38) che costa la vita a 5000 arabi. Nel 1937 un accordo è proposto da Lord Peel con il progetto di una grande Nazione Araba che lasci uno spazio ridotto (la Galilea e una parte del litorale) agli Ebrei.

 

 

Il piano Peel di spartizione, 1937

 

 

Mentre questi ultimi accettano, se pur tra controversie, gli arabi rifiutano. La commissione Woodhead studierà ben quattro piani di suddivisione che riducono anche drasticamente il territorio ebraico. Sono sempre rifiutati. I britannici, che non vogliono altre rivolte, per compiacere gli arabi bloccano l’immigrazione ebraica proprio quando il nazismo infuria in Europa. Amin Al-Husseini, esiliato, è ricevuto da Hitler con cui tratta l’eliminazione degli ebrei di Palestina non appena le truppe tedesche avranno vinto la guerra in Medio Oriente.

Con la fine della seconda guerra mondiale l’immigrazione dei sopravvissuti dai campi di sterminio è massiccia e i confinamenti a Cipro, in campi di concentramento, da parte degli inglesi non riescono ad arginarla. I britannici subiscono attacchi sanguinosissimi da parte di ebrei disposti a tutto. Il caso Exodus e le ingenti perdite di soldati inglesi vittime di attentati terroristici convincono l’Inghilterra a chiudere il proprio mandato e a lasciare alle Nazioni Unite di decidere della sorte dell’area.

Il 29 novembre del 1947 le Nazioni Unite approvano la divisione della Palestina in due Stati con un piano più favorevole agli ebrei di quanto non fosse il Peel. Sabato 5 aprile 1948 il kibbutz di Mishmar Haemek è attaccato a colpi di cannone. Scoppia la prima, unica vera guerra israelo-palestinese scatenata dagli arabi di Palestina e che non va confusa con le guerre arabo-israeliane che seguono la costituzione dello Stato di Israele del 14 maggio del 1948. Questa guerra, persa dai palestinesi, è vissuta dagli ebrei come una lotta per la sopravvivenza. Uno su quattro di loro è un sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti; ognuno conta o genitori o figli o parenti assassinati. Il territorio del nemico è invaso.

Il 9 aprile avviene l’eccidio di Der Yassin per mano di due gruppi di ebrei estremisti, gli Irgoun e Stern. Duecento civili arabi sono massacrati. Inizia il dramma del popolo arabo di Palestina. Sotto la furia ebraica che sembra scatenata, i civili fuggono dalle loro case per cercare rifugio altrove, in attesa di ritornare quando la tempesta sarà passata. Non potranno mai farvi ritorno.

Le guerre arabo-israeliane che seguono la costituzione dello Stato di Israele (1948, 1967, 1973), sempre volute da alleanze di Paesi arabi al fine di togliere dalla carta geografica la neonata Nazione, saranno catastrofiche per gli arabi di Palestina che vedranno le proprie vite e quelle dei propri figli scorrere da profughi in Terre non loro. Israele al suo nascere non vuole cacciare gli arabi dal proprio territorio. Offre a tutti quelli che lo desiderano la possibilità di restare. Una parte, infatti, rimane e costituisce oggi il 20% della popolazione israeliana.

Documenti storici d’archivio permettono di considerare che non vi fu mai il progetto di impossessarsi per sempre di terre svuotate dai palestinesi che vi abitavano. L’idea era di “territori in cambio di pace”, ma gli attacchi ripetuti che Israele subisce fiaccano sempre di più questo proposito permettendo ai “falchi” di prevalere, né esiste la possibilità di patteggiare con interlocutori disposti a farlo. La Guerra dei Sei Giorni (1967) porta cambiamenti radicali. Non solo gli israeliani annientano gli attaccanti, ma conquistano Gerusalemme Est e arrivano al Muro del Pianto. L’immagine di Yitzhak Rabin e di Moshe Dayan, davanti al Muro scuote tutti gli ebrei del mondo.

Anche i più radicali, da sempre contro il sionismo, ora incominciano a credere che forse il Messia è nella conquista di questo Muro sacro che ritorna al popolo di Israele. Mentre Israele vive uno dei momenti più “mistici” del suo esistere, i palestinesi amaramente realizzano di essere soli al mondo e che nessuno potrà mai combattere in loro vece.

Quello che manca loro è un capo. É il 1968 e il leader atteso arriva: è Yasser Arafat. Nato al Cairo da genitori palestinesi entrambi della potente famiglia Husseini, ingegnere, ha 39 anni. Fonda Fatah, organizzazione clandestina e diventa capo dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Crea campi di addestramento in Giordania. Concretamente considera che non è possibile fare la guerra ad Israele: ha uomini motivati, ma non l’apparato militare necessario. Un mezzo tuttavia c’è per portare all’attenzione del mondo la causa palestinese e infierire colpi mortali a Israele: la guerriglia.

La fa partire da Karameh un campo profughi giordano di confine. E tutto cambia. Il 18 marzo 1968 uno scuola bus israeliano con trenta bambini delle elementari che transita per la solita via nel deserto del Negev, salta per aria. É una strage di innocenti. La rappresaglia su Karameh è terribile, ma, per la prima volta dalla Guerra dei Sei Giorni, i combattenti palestinesi resistono e vi sono morti e feriti tra gli israeliani.

Da quel momento per ogni israeliano, comune cittadino o diplomatico, in Patria o fuori non vi sarà più pace. La cronologia degli attentati, che fa migliaia di vittime è talmente fitta che va studiata a parte. Tra i più noti vale ricordare la strage di Monaco del settembre 1972 in cui, in sede di giochi olimpici, sono sequestrati e barbaramente assassinati gli undici giovani olimpionici israeliani, il dirottamento aereo su Roma (dicembre 1973) del volo 110 della Pan Am con 33 morti e 22 feriti, l’esplosione in volo sul mare greco del volo dirottato 841 della TWA  (settembre 1974, 88 morti), il volo 139 dell’Air France dirottato a Entebbe (4 luglio 1976, con 4 morti e 11 feriti e l’azione coordinata di intelligence volta alla liberazione degli ostaggi), il sequestro dell’Achille Lauro del 1985 che sfociò nella crisi di Sigonella.

Intanto Arafat è uscito dall’ombra e illustra il suo progetto di una Palestina libera e sovrana in cui tutti possano vivere in pace, anche se ciò è incompatibile con l’esistenza di Israele. La morte oramai regna ovunque. Il re Hussein di Giordania, subisce, da parte dei palestinesi sempre più infiltrati dai Fratelli Musulmani, attentati volti a rovesciarlo. In risposta, fa strage nei campi profughi palestinesi e costringe Arafat a cercare rifugio in Libano.

Il Libano, la Svizzera del Medio Oriente, in conseguenza di ciò, pagherà un prezzo altissimo che lo vedrà invaso da Siria e Israele e subirà l’esplodere di una sanguinosissima guerra civile a tutt’oggi non sopita. Arafat, braccato anche in Libano, con un piccolo gruppo dei suoi trova rifugio in Tunisia da dove continua la sua guerriglia. Dopo venticinque anni di atrocità nel 1993 nasce la speranza. Rabin e Arafat firmano l’accordo di Oslo.

 

 

Stipula degli accordi di  Oslo, Washington D.C., 1993

 

 

Il piano prevede l’istituzione dell’Autorità Nazionale Palestinese e un periodo di transizione con Gaza e Cisgiordania divise in tre zone. La A sotto pieno controllo palestinese; la B sotto il controllo palestinese e israeliano; la C sotto pieno controllo israeliano. Il tutto sarebbe confluito poi in uno Stato Palestinese sovrano. Fu firmato il mutuo riconoscimento del diritto delle due Parti a esistere.

Rabin, l’eroe della guerra dei sei giorni, colui che portò Israele al Muro del Pianto, pagò con la vita, nel 1995, dopo Oslo II,  la sua volontà di pace, ucciso alle spalle da un dissidente israeliano. Con lui finisce l’Israele del principio, del sogno e dell’innocenza. Triste sorte ebbe anche Arafat che, nel dopo Rabin, vide le sue speranze umiliate, i suoi stessi compagni sempre più emarginarlo, fu costretto ad assistere al crescente potere di Hamas e non riuscì mai più a riprendere con il governo israeliano i contatti, al fine di tradurre in pratica l’accordo firmato. Stanco e malato morì nel 2004 in Francia. Con lui finisce per i palestinesi la purezza degli ideali per cui combattere.

 

 

Accordi di Oslo (1993 e 1995), da Le monde Diplomatique

 

 

Rabin e Arafat non ebbero eredi.

Sulla pace assassinata fu posta una pietra tombale. Gli accordi di Oslo non furono onorati da nessuna delle due Parti. Israele diede via libera ai coloni di risiedere nei territori palestinesi di Cisgiordania che avrebbe dovuto proteggere; permise il taglieggiamento dell’acqua necessaria alle coltivazioni arabe; non intervenne mai per porre un freno all’arroganza di quegli israeliani che, ignoranti della Storia, a tutt’oggi credono di avere diritti derivati loro dai tempi dei Patriarchi; foraggiò economicamente Hamas per la guerra fratricida contro Fatah; innalzò muri della vergogna; coprì e copre d’impunità criminali armati che danno fuoco a povere case e scuole e assassinano innocenti col solo scopo di cacciarli dalle loro terre.

Ora nuovamente si parla di uno Stato palestinese, ma quello che era possibile alla fine degli anni Novanta è, adesso, complesso. I palestinesi nel mondo sono 14 milioni, di cui 7 milioni vivono tra Giordania, Siria, Libano, Paesi del Golfo, Arabia Saudita e Kuwait (una minima parte è in Cile, Stati Uniti ed Europa dell’Est). Gli altri 7 milioni sono suddivisi tra Cisgiordania, Gaza (2 milioni su 400 Km di territorio) e Gerusalemme Est.

Un palestinese su tre vive in campi profughi. In Gaza, oltre a Hamas (sostenuto da Iran e Kuwait) c’è l’organizzazione del Jihad Islamico, sovvenzionata dall’Iran. In Cisgiordania si sono installati 480.000 coloni ebrei, sostenuti nei loro soprusi dalle milizie israeliane, mentre una rete di strade si è addentrata nel territorio palestinese frammentandolo e impedendo la libera circolazione dei legittimi abitanti tramite posti di blocco.

Tutto questo ha portato l’economia allo sfascio e creato nuovi combattenti che sfidano sia Israele sia Fatah, accusata di corruzione. La valle del Giordano è stata interamente militarizzata dagli israeliani, fatta eccezione per la città di Gerico. Gli accordi di Oslo prevedevano, per lo stretto periodo transitorio, che il 24 per cento dell’acqua dell’area fosse erogata ai palestinesi di Cisgiordania. Ciò è ancora in vigore, trent’anni dopo, con la variante che Israele la eroga a sua convenienza, impedisce la costruzione di pozzi, distrugge le cisterne per l’acqua piovana e, tramite la società Mekorot obbliga le famiglie palestinesi ad acquistare l’acqua potabile che proviene dal loro stesso sottosuolo. In Gerusalemme Est vivono 220.000 coloni israeliani e 360.000 palestinesi che hanno uno statuto di residenza provvisorio, revocabile in ogni momento.

La politica di estrema destra di “giudaizzazione” dei territori occupati mira all’espulsione dei palestinesi le cui abitazioni sono espropriate e demolite e contro i cui decreti si può fare solo inutile opposizione. Di contro, sempre più, anche in Cisgiordania, è cresciuta l’adesione a Hamas. É il quadro di un circolo vizioso disperante. Persa fiducia negli Stati Uniti e nell’Occidente, Abu Mazen si è rivolto ultimamente (ottobre 2022), in piena guerra d’Ucraina, alla Russia come all’unico mediatore credibile. Gli interessi di chi comanda raramente coincidono con quelli dei popoli. E il Medio Oriente è un crogiuolo di troppi interessi. Fotografie di archivio e filmati amatoriali ci mostrano arabi ed ebrei insieme: fumano accovacciati davanti alle abitazioni e scherzano alle porte di un kibbutz.  Così poteva essere, prima che l’insensatezza incominciasse, prima di ogni cosa.

Bibliografia:

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Maurizia LeonciniFreelance Journalist

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