Quel fatale 17 febbraio: Lama cacciato dall’Università. Una pagina premonitrice dei tanti guai successivi

Il 17 febbraio 1977 è un punto di non ritorno sia per quelli che portarono a casa i sampietrini come souvenir, sia per quelli che speravano che non bruciassero troppe auto, sia per quelli che avevano scelto la clandestinità con la P38.

17 febbraio 1977 non è una data qualsiasi.

È il giorno della cacciata di Luciano Lama, leader sindacale della CGIL, dall’Universitá di Roma “La Sapienza”, teatro di violenti scontri tra forze dell’ordine e il movimento degli studenti. Diviene il momento più alto della resa dei conti a sinistra tra il PCI e l’Autonomia.

Luciano Lama commenterà così: “Non pensavo ad una sfida, ma all’incontro con studenti che si stanno mettendo in un vicolo cieco”. Uno scontro che a distanza di quasi mezzo secolo assume un significato ancora più forte alla luce degli elementi acquisiti dalle Commissioni di Inchiesta sulle stragi e sull’assassinio di Aldo Moro, dalle indagini giudiziarie e da una vasta storiografia di molti protagonisti e degli inquirenti. Non fu solo uno scontro tra chi deteneva la guida della Sinistra e chi tentava di ottenerla e piegarla con ogni mezzo.

Fu una giornata di prova della Insurrezione da parte delle BR e dalle tante sigle mimetizzate che servivano alla copertura degli stessi obiettivi. La mobilitazione degli studenti e le manifestazioni con i cortei soprattutto di sabato per creare il maggiore disordine venivano utilizzate e strumentalizzate per affermare la leadership terroristica e rivoluzionaria che faceva proseliti. Il comizio di Lama fu l’occasione per la sinistra estraparlamentare di sfidare il PCI e tutte le componenti politiche che sostenevano il riformismo berlingueriano realizzato attraverso il compromesso storico.

Le minacce venivano rappresentate dalla raffigurazione delle pistole P38 Smith Wesson o Walter simbolo della memoria e della lotta partigiana verso gli occupanti nazisti. La scelta di chiamare Luciano Lama a tenere il comizio dentro l’università sul mitico automezzo Dodge rosso del Pci, in risposta alle persistenti occupazioni delle facoltà, assumeva il significato di impedire una saldatura tra operaismo sessantottino e la vasta mobilitazione di protesta degli studenti sui diritti.

La linea del riformismo istituzionale del PCI andava necessariamente difesa rispetto alle spinte contestatrici, soprattutto dopo i successi elettorali del 1975 -1976. Ma nel PCI c’era ancora chi si muoveva nell’ambiguità delle parole parlando di attacco squadrista. ! Naturalmente l’occasione degli scontri e delle occupazioni universitarie alimentando un clima di tensione quotidiana venivano utilizzate per cortei che muovevano da piazza Esedra a piazza Navona dichiarati “pacifici e di massa” ma che così non erano!

Erano sabati di guerriglia urbana. Seguivano infatti violenze, espropri proletari, devastazioni di negozi, guerriglia urbana bene organizzata con rifornimenti di tutto il necessario come mazze, tubi di ferro, chiavi inglesi, bottiglie molotov. Poi non mancavano tragici scontri con i giovani della destra come a Piazza Risorgimento. L’armamentario veniva occultato nei bagagliai delle auto parcheggiate nei punti strategici del percorso. Le armi erano ormai dentro i cortei. I brigatisti erano presenti all’Università e nei cortei osservavano e mettevano in atto le azioni di guerriglia con la forza delle armi.

Non a caso Cossiga disse ” non permetteremo che le università diventino covi”. Come ministro dell’Interno organizzò le squadre antiguerriglia ed emanò direttive contro le manifestazioni. Lo slogan del giorno era “poliziotto fai fagotto arriva la P38”.

Il 17 febbraio non fu però un episodio isolato. Il 18 febbraio i giornali non uscirono per lo sciopero dei poligrafici. Il dibattito parlamentare sulle interrogazioni per i fatti dell’università si svolse a Montecitorio il 22 febbraio. Il ministro Cossiga rispose in Aula distinguendo il suo intervento tra il rapporto degli Uffici e la nota politica, circoscrivendo l’intervento alla occupazione e sgombero della città universitaria, separando la protesta giusta sui diritti e sui bisogni da quella violenta, quindi dalla massa al nucleo dei violenti, facendo riferimento esplicito ai collettivi autonomi e a movimenti della “sinistra rivoluzionaria di classe” , a ” frange estreme di contestazione al sistema e di ideologizzazione a volte confusa e verbalmente collegata a temi rivoluzionari, pseudo rivoluzionari di semplice contestazione nominalistica spesso ingenua e fantasiosa nella simbologia grafica e linguistica.

 

 

 

“I giovani – aggiunse Cossiga – non costituiscono una base di manovra; rappresentano la voce di un bisogno che la difficile situazione economica e il conseguente spettro della disoccupazione rendono oggi effettivo e che credo sia dovere di tutte le forze politiche tenere non contaminato da infiltrazioni di carattere eversivo. Di qui da questo inquinamento le devastazioni, la violenza, il vandalismo”.

Per la Dc intervenne Paolo Cabras. Sottolineò come “quando si comincia ad incitare all’odio, contro le istituzioni democratiche e le forze politiche e sindacali, il confine tra estremismo presunto rivoluzionario e l’incompatibilità reazionaria verso le regole del gioco diventa tanto labile fino a scomparire. C’è nel paese alimentato da compiacenza da piccoli giochi, di gruppi politici, di gruppi di pressione non sempre estremisti una pericolosa tendenza alla irrazionalità, alla contestazione che non tiene conto della storia e del quadro complessivo ma che affida all’azione, al gesto simbolico, alla rottura violenta un messaggio di violenza individualista che nella società di massa è imitato per suggestione conformistica sostituendosi alla riflessione e al dibattito la legge brutale dello scontro”.

Tutto il febbraio del ‘77 fu caratterizzato da scontri e violenze non solo a Roma ma in tutta Italia che proseguirono nel marzo e poi in una escalation per tutto l’anno! V’era una ambigua tolleranza nella sinistra rispetto a una situazione ormai sfuggita di mano. Chi aveva la maggiore capacità di capire e interpretare quanto stava avvenendo nelle università erano proprio gli intellettuali di sinistra, i docenti che toccavano con mano giorno per giorno il nuovo clima sociale.

Essi avevano condiviso e guidato il Sessantotto, prima uscendo e poi rientrando nel PCI. Il “coacervo insolito” indicato da Alberto Asor Rosa fatto di ribellione verso la istituzione universitaria coniugata con le lotte sociali degli emarginati, dei giovani precari, della massa di studenti senza prospettiva.

Si aprì una divaricazione tra chi voleva incanalare e riassorbire la protesta degli studenti e chi invece ormai vedeva le “due società.” Si stava affermando un incontrollabile anticomunismo di sinistra che nascondeva obiettivi non dichiarati. Non c’era più la saldatura tra operai e studenti. Si combatteva la austerità berlingueriana, i sacrifici imposti dal governo Andreotti, la non sfiducia del PCI all’Esecutivo; v’era rifiuto del compromesso storico e del dialogo. La rivolta sociale non trovava un alveo e finì per far esplodere il mondo della cultura di sinistra diviso sulle strade da perseguire per assorbire i fermenti giovanili.

 

 

 

Il 15 gennaio Berlinguer al Teatro Eliseo aveva tentato di mobilitare gli intellettuali di sinistra per parlare di questione morale; era un modo per coprire, bilanciare, giustificare la austerità imposta dalla situazione economica rispetto all’accordo di programma. Ma per Rossana Rossanda, del Manifesto,  “separata da una strategia di potere l’Austerità è solo una stretta di cinghia per i più poveri” .

 

 

 

Il 17 febbraio è un punto di non ritorno sia per quelli che portarono a casa i sampietrini come souvenir, sia per quelli che speravano che non bruciassero troppe auto, sia per quelli che avevano scelto la clandestinità con la P38.

La frattura politica divenne insanabile. La Autonomia con i suoi doppi livelli aveva imposto la sua linea. Solo alla fine del 1977 dopo ulteriori catene di violenze e di uccisioni, in molti ambienti della sinistra matureranno i sentimenti dell’impotenza e del pentimento. Paolo Bufalini affermerà “Sono anni che si civetta con l’estremismo”. Giorgio Amendola dirà: “il vero problema non sia tanto di varare nuove leggi repressive quanto piuttosto quello di togliere “ai guerriglieri” le coperture politiche e culturali di cui hanno goduto parte di certi settori della sinistra, parlamentare ed extraparlamentare.

Del resto Antonio Negri già nel 1975-76 come leader di Potere Operaio, aveva teorizzato e avversato, prima ancora che prendesse corpo, “il compromesso storico come forma politica del superamento capitalistico della crisi ” e “lo Stato contemporaneo non conosce lotta di classe operaia che non sia lotta contro lo Stato”. “Il grande riformismo comunista non regge al più semplice confronto con la realtà della ristrutturazione.” E ancora ” la necessità di una forza di avanguardia, militante, capace di approfondire in maniera violenta e continua la crisi e di rintuzzare in misura eguale, la violenza dei padroni.”

Del resto prevedeva come compito immediato ” l’organizzazione cioè la capacità di opporre all’organizzazione capitalistica del potere l’articolazione operaia della sovversione. Dentro questo processo l’insurrezione è all’ordine del giorno. Diciamo appunto Insurrezione e non rivoluzione. ” Queste erano le teorie degli anni Settanta.

Il 17 febbraio 1977, con l’agguato al comizio di Luciano Lama è il giorno di un episodio rilevante della frattura a Sinistra; è l’anno di quel clima di violenze, di lotte, di lutti, di tragedie, di sangue, di giovani illusi dalle teorie di cattivi maestri. La strada per battere il terrorismo sarà ancora lunga. Ci saranno altre tragedie come quella del 16 marzo 1978 con la strage di via Fani e con l’uccisione di Aldo Moro, il simbolo del dialogo e dell’avversato compromesso storico.

 

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