Puntuale come un treno delle ferrovie svizzere, fastidiosa come un raffreddore estivo o una zanzara ottobrina, anche quest’anno si è riproposta la polemica sull’opportunità di allestire il presepe e più in generale di evocare simboli e promuovere riti religiosi, soprattutto nelle istituzioni scolastiche, in occasione delle festività natalizie.
Ad animarla sono state inizialmente alcune sortite provocatorie, tanto simili a una sorta di reductio ad absurdum del politicamente corretto da parere ispirate dai detrattori di tale orientamento. Si spazia dal tentativo, poi rientrato, dell’Università Europea di rinominare il Natale festa d’inverno all’ingenua gaffe delle maestrine di una scuola veneta che, per paura di urtare la sensibilità degli alunni islamici, avevano pensato di sostituire Gesù con la parola Cucù nella recita natalizia. Per tacere, ma qui si entra in un altro ambito, del presepe con due Madonne e nessun Giuseppe allestito ad Avellino da don Vitaliano della Sala.
La querelle ha assunto però un significato più spiccatamente politico in seguito alla proposta di legge presentata, proprio a ridosso delle festività natalizie, dalla senatrice Lavinia Mennuni, di Fratelli d’Italia e sottoscritta da altri parlamentari del suo gruppo. Pur essendo stata correttamente riportata dall’Ansa e dall’Adn- Kronos sin dal primo “lancio” del 20 dicembre, l’iniziativa è stata presentata da larga parte della stampa come un tentativo di imporre d’autorità l’allestimento del presepe nelle scuole.
Un fatto questo che dovrebbe indurre a serene riflessioni non tanto sull’obiettività, quanto sulla scarsa capacità di distinguere i fatti dalle opinioni di molte testate, sia pure con alcune autorevoli eccezioni, come Il Messaggero, che ha correttamente titolato: “Presepe a scuola. La proposta di Fdi: Vietato impedirlo”. E infatti la proposta di legge prende di mira chi all’interno delle scuole ostracizzi “iniziative promosse da genitori, studenti o da competenti organi scolastici per proseguire attività legate alle tradizionali celebrazioni legate al Natale e alla Pasqua cristiana”.
In sostanza, la nuova norma non introdurrebbe per le scuole l’obbligo improponibile di allestire presepi od organizzare recite natalizie, ma blinderebbe le proposte in tal senso di insegnanti o genitori dagli eventuali veti posti dai dirigenti scolastici in nome della laicità dello Stato o della “inclusività” nei confronti dei fedeli di altre religioni. Non a caso il sindacato dei dirigenti scolastici ha subito assunto una posizione ostile alla proposta, per bocca di due suoi autorevoli rappresentanti, fiutando forse in essa un tentativo di limitare l’autonomia scolastica, autonomia che – spiace dirlo – si traduce spesso in un rafforzamento del potere del preside e dei suoi collaboratori – non più elettivi, dopo la riforma Berlinguer, ma di sua diretta nomina, – a spese in casi estremi della libertà d’insegnamento. Libertà che può esprimersi pure, per una maestra della scuola primaria o dell’infanzia, nella scelta di allestire un presepe od organizzare una recita.
Al di là di queste polemiche, che per certi aspetti riconducono alla sfera della “politica politicante”, il dibattito sul presepe induce a una riflessione di ben diverso spessore storico. Com’è noto, i simboli del Natale più diffusi sono il presepe stesso e l’albero. C’è chi sostiene che solo il primo sia un simbolo cristiano in senso stretto, mentre il secondo sarebbe in realtà un simbolo pagano poi cristianizzato. In realtà, per dirla con Baudelaire, l’universo è una foresta di simboli e certe allegorie, come quella dell’albero, ricorrono nel racconto biblico del giardino dell’Eden come nelle mitologie celtiche. Niente di strano nel fatto che i missionari cristiani nel mondo pagano abbiano cooptato tradizioni locali per favorire le conversioni, come fece il monaco benedettino Wynfrith, il futuro San Bonifacio, evangelizzatore della Germania nell’VIII secolo.
Un discorso diverso riguarda la contrapposizione fra l’albero di Natale, protestante, e il presepe cattolico. È indubbio che, un po’ per motivi climatici e botanici, un po’ per la persistenza nella lunga durata di tradizioni precristiane, il simbolismo dell’albero è prevalso nei paesi riformati. Non è un caso che Helmut George Koenigsberger e George Leonard Mosse, in un testo classico ma tutt’altro che datato come L’Europa del Cinquecento (Laterza), parlando del filo invisibile che divideva regioni cattoliche e protestanti accennavano alla prevalenza dell’una o dell’altra pratica devozionale nelle due diverse aree. Ma attribuire a tale prevalenza un significato teologico sarebbe azzardato; si trattò come spesso succede di una differenza di sensibilità e magari di opportunità, anche se non è da escludere che sulla assenza nel mondo protestante della grande creazione di San Francesco – santo per altro caro ai luterani per la sua estraneità ai fasti della Curia pontificia – abbia pesato anche la diffidenza per una ridondanza di immagini tipicamente cattolica. Le chiese riformate, com’è noto, sono in genere molto spoglie.
Analoghe differenze di sensibilità, del resto, pesarono anche sul terreno dell’architettura sacra, in una contrapposizione fra il gotico protestante e il barocco cattolico. Rigorosamente neogotiche, o tutt’al più neoromaniche, sono del resto le chiese evangeliche presenti nella penisola. Né era mancata, fra i più zelanti custodi dell’ortodossia cattolica, qualche riserva sull’opportunità di continuare in piena Controriforma, nel sospetto nonché “barbarico” stile gotico, la fabbrica del Duomo di Milano.
Due aspetti del problema, però, sono innegabili.
Il primo è che l’albero di Natale, già presente soprattutto nell’Italia settentrionale, ha incominciato ad accrescere la propria diffusione a partire dalle fasi conclusive dell’ultima guerra, quando la penisola fu percorsa dagli eserciti Alleati e tedeschi, l’un contro l’altro armati, ma accomunati dalla fede in prevalenza protestante. Per questo molti tradizionalisti sono portati a considerare la diffusione dell’albero come la conseguenza di una colonizzazione culturale wasp e yankee manifestatasi poi nel dopoguerra: una sorta di pendant religioso della Coca Cola cui fa riscontro anche la vittoria sulla Befana di Babbo Natale. Che nei confronti dell’albero “protestante” siano perdurate delle riserve anche in ambiente curiale potrebbe confermarlo il fatto che il primo abete di Natale sia stato installato in Vaticano solo nel 1982, durante il pontificato di un grande papa venuto dall’Est, e dal Nord.
L’altro volto del problema è il fatto che rispetto al presepe l’albero è privo di immediate connotazioni religiose, e di conseguenza non rischia di urtare la sensibilità di chi appartiene ad altre fedi, o non si riconosce in nessuna. È facilmente stilizzabile nei messaggi pubblicitari, evoca vacanze sugli sci, “ciaspolate”, settimane bianche, non messaggi evangelici. Può essere per questo più facilmente accettato da ebrei, atei, musulmani, anche se in realtà questi ultimi non dovrebbero adontarsi per l’esibizione del Bambinello, visto che Maometto considerava Gesù un grande profeta.
Occorre aggiungere che la realizzazione di un presepe è un gioco più gradito ai bambini dell’allestimento dell’albero, perché lascia maggior spazio alla loro fantasia e creatività, con l’aggiunta di sempre nuovi pezzi e personaggi, come in un gioco di costruzioni – e tale preferenza è stata colta anche da un gigante dell’industria dei giochi per l’infanzia come la Lego.
E qui il discorso ci riporta nel merito della proposta di legge che ha la senatrice Mennuni come prima firmataria. Qualcuno potrà avanzare il sospetto che sia stata suggerita da un desiderio di visibilità, tipico spesso di quanti fanno parte di assemblee elettive che hanno perso sempre di più effettivi poteri; ma lo stesso dubbio potrebbe essere insinuato dall’accanimento di molti esponenti politici di segno opposto nell’ergersi a difesa della laicità dello Stato anche di fronte a iniziative devozionali, come una recita natalizia o l’allestimento di un presepe.
Qualcun altro riterrà infelice la minaccia di procedimenti disciplinari a carico di chi proibisca iniziative volte a commemorare le festività natalizie; resta il fatto che altro è imporre qualcosa, altro è proibire di vietarla. E sotto questo profilo è paradossale che proprio una esponente della destra rinverdisca lo slogan “il est interdit d’interdire”, che fu uno degli slogan più popolari del maggio francese.
Ma un ben altro paradosso caratterizza ormai da svariati anni, per non dire decenni, le festività natalizie. Quanto più il significato religioso della ricorrenza si è andato sbiadendo nella coscienza della maggioranza degli italiani, per la compresenza di altre fedi ma soprattutto per la crescente secolarizzazione dei comportamenti, tanto più la sua valenza commerciale si è andata dilatando. Le luminarie natalizie compaiono sempre prima, insieme alle pellicole sfornate dall’industria del cinema in cui la locuzione “spirito natalizio” ha preso il posto dei riferimenti allo Spirito Santo nel mistero dell’Incarnazione.
E se è difficile trovare chiese aperte per la messa di mezzanotte, e quelle poche, in città come Firenze, non sarebbero nemmeno piene se non fosse per l’ondivaga presenza di turisti che approfittano dell’occasione per entrare in Duomo senza pagare il biglietto, i negozi invece restano aperti anche di domenica per tutto il mese di dicembre e a volte anche prima. Quasi a invitarci, con le loro vetrine spalancate in spregio al risparmio energetico, ad osservare il precetto laico del consumismo.
Per questo appare cavilloso scorgere nella proposta di legge di Fdi una minaccia alla laicità dello Stato; del resto anche Fausto Bertinotti, nel 2006, da presidente della Camera, non pose problemi all’allestimento della tradizionale rappresentazione della Natività, anzi dichiarò “A me piace: il presepe è un bel modo per ricordare il Natale, rispettoso per chi è credente o no ed esprime un momento che è parte della storia del nostro Paese”. Altrettanto ingenuo sarebbe però sperare che un semplice disegno di legge possa ricondurre gli italiani alla fede tradizionale, così come è stato di cattivo gusto, e non ha nemmeno portato fortuna a chi lo ha fatto in un recente passato, brandire con finalità politiche e identitarie simboli religiosi, primo fra tutti il presepe, emblema forse più di ogni altro di fraternità universale. Per questo lasciamo che il Bambinello, Giuseppe e Maria, gli Angeli, i pastori, il bue e l’asinello alberghino prima di tutto nei cuori di chi ha conservato la fede dell’infanzia, o la rimpiange, e magari la vorrebbe riscoprire. Senza pretendere di imporlo nelle scuole, ma nemmeno di dargli lo sfratto.
Enrico Nistri – Saggista