Non si è ancora spenta l’eco delle infelici dichiarazioni di Susanna Tamaro al Salone del libro di Torino. La scrittrice, fra l’altro, ha anche pubblicato un articolo sul Corriere della Sera modificando parzialmente la sua posizione e lamentando di essere stata fraintesa. Classico: sono sempre i giornalisti a non capire. È una consuetudine collaudata: si getta il sasso e si nasconde la mano. Solo che in questo caso è più complicato farlo senza lasciare i segni: vi è il video e il video è inequivocabile.
Ma veniamo alla questione da lei sollevata. A suo dire, Verga è barboso (“come si fa a farlo affezionare ai ragazzi?”) e i suoi romanzi vanno riposti in soffitta e, soprattutto, archiviati nelle scuole. Lo stesso vale per Dante, troppo difficile per i ragazzi. Al loro posto gli scrittori e i poeti di oggi. Invece dei Malavoglia, come romanzo da adottare in classe “Va’ dove ti porta il cuore”.
Quella della Tamaro è una provocazione e come tale deve essere letta.
Le provocazioni in genere sono benefiche: attraverso affermazioni paradossali pongono un problema, scuotono la pigrizia mentale, stigmatizzano il comune (non) pensare. Si ricordano ancora le provocazioni di intellettuali come Pier Paolo Pasolini o Leonardo Sciascia: l’omologazione culturale tramite la televisione, i professionisti dell’antimafia per limitarci a due esempi. Provocazioni che hanno suscitato un mare di polemiche e che col tempo si sono rivelate messaggere di profezie riscontrate dai fatti. Ma erano intellettuali di uno spessore e di un coraggio oggi inconsueti.
Altri tempi, altri uomini. Ma anche la provocazione di una scrittrice di consumo e di una intellettuale non accostabile ad altri ben più autorevoli merita considerazione: non importa chi dice qualcosa ma quel qualcosa che dice.
La provocazione della Tamaro è utile perché fa riflettere sui metodi da adottare nell’insegnamento della letteratura italiana nelle scuole.
Oggi rispetto al passato, a trenta, cinquanta anni fa, è cambiato molto. Ed è cambiato anche rispetto a pochi anni addietro perché la società – la “società liquida”, come l’ha definita, descrivendola, Zygmunt Bauman – muta velocemente. Una didattica buona nel passato pertanto si presume oggi sorpassata, da adattare all’attualità, a come i ragazzi oggi apprendono che è diverso, nell’era di internet e dei social, di come appendevano prima. Sul punto, pur rinviando agli esperti, l’impressione è che si tenda a sottovalutare i giovani e i giovanissimi dei nostri giorni (anche questo è un luogo comune: “ai miei tempi”, “come si è caduti in basso”, “al peggio non c’è fine” sono frasi trite e ritrite).
Ci sembra piuttosto che i ragazzi d’oggi abbiano sviluppato di più alcune capacità e meno altre, che se da un lato siano più intuitivi dall’altro siano meno inclini all’attenzione e che inoltre siano più catturati dall’universo visivo, da quello delle immagini che li accerchiano nei media di ogni tipo.
Probabilmente i nostri ragazzi apprendono più rapidamente ma meno analiticamente, accumulano più dati e si avvalgono di più fonti conoscitive delle quali la lettura – lettura di libri, siano essi di narrativa o saggistica – è da loro relegata in una posizione di secondo piano.
Detto ciò, per incentivarli alla lettura è corretto quanto suggerisce la Tamaro, e cioè invogliarli con pagine dilettevoli o che non presentino molte difficoltà? È un bene sostituire I Malavoglia con Va’ dove ti porta il cuore, i classici con la letteratura di consumo, Alessandro Manzoni con Alessandro Baricco, Dante con l’ultimo poeta della nuova generazione dal linguaggio da social e dai versi privi di difficoltà ermeneutiche?
La risposta è un no secco, e non è difficile spiegarne le ragioni.
Domandiamoci: a che serve la scuola? Una risposta, per quanto approssimativa, potrebbe essere la seguente: ad arricchire il bagaglio conoscitivo di chi la frequenta, ad alimentare la loro sete di sapere, a sviluppare la loro capacità di ragionare e discernere, ad affinare sensibilità e gusto estetico e a tantissime altre cose, non ultime far acquisire e potenziare la consapevolezza civica e insegnare la virtù della fatica senza la quale nulla può ottenersi.
Naturalmente da sola la scuola non può raggiungere tanti obiettivi che potranno essere ottenuti con l’aiuto di altri canali. E tuttavia non si potranno sottrarre alla scuola i compiti e le funzioni basilari che istituzionalmente assolve.
Circoscriviamo il discorso allo studio della letteratura, che non può che partire dalla scuola. Uno studio, quello della letteratura, che ha più finalità tra le quali quella, importante più di quanto comunemente si crede – elencata prima – di affinare gusto e sensibilità estetica. Ora, non potrà mai raggiungersi tale obiettivo se non si leggono i classici e non si forniscono gli strumenti necessari per leggerli bene. La scuola deve sì incentivare la lettura – ed è oggi un compito particolarmente complicato per quanto già detto – ma non può limitarsi a ciò: occorre che sappia sviluppare capacità critica e accrescere la sensibilità estetica.
Se la scuola si limitasse a far leggere ciò che è più gradevole e semplice, si disinteresserebbe dell’educazione al senso critico ed estetico. A proposito vengono in mente le parole di Luciano De Crescenzo, un umorista “filosofo” come spesso lo sono anche inconsapevolmente i napoletani, riferite alla televisione. De Crescenzo criticava le emittenti commerciali perché assecondavano i gusti più immediati e facili degli spettatori facendogli vedere ciò che volevano vedere ma che, soprattutto se in overdose, risultava nocivo e ricordava che, se dipendesse dai bambini, loro mangerebbero solo dolci e gelati e non quegli alimenti che hanno le proteine e li fanno crescere e irrobustire.
Ecco, se ai ragazzi si fanno leggere la Tamaro e compagnia bella e non Verga, Dante e Manzoni (per limitarsi ai tre autori “maltrattati” dalla Tamaro, NdR), ci si comporta come i genitori che assecondano i capricci dei loro piccoli e poi se li ritrovano grassi e mollicci. La letteratura si studia perché i classici – e solo loro – offrono una lettura non parziale e superficiale della realtà, ma approfondita, capace di rivelare quelle mille sfumature che la scuola deve aiutare a saper cogliere.
Il punto perciò non è tanto se leggere o non leggere Verga – autore fondamentale anche per il suo ardito sperimentalismo sintattico e lessicale: ha detto bene Marcello Fois: “Senza di lui non capiremmo gli attuali dialettismi” – ma leggere o non leggere i classici – e Verga lo è di diritto -, quegli autori cioè che per la loro universalità e per il loro spessore superano le leggi del tempo e risultano sempre attuali.
Non si può non leggerli a scuola, i classici, purché si utilizzino metodologie che tengano conto dell’evoluzione della società e delle modalità di apprendimento dei ragazzi di oggi. E siccome la scuola da sola non può bastare, sarà necessario avvalersi anche di altri canali ampliando le attività extrascolastiche. I ragazzini potranno accostarsi meglio a Verga o approcciarsi alle sue pagine, ad esempio, affiancando alla lettura dei suoi brani recite teatrali che prendono spunto dai suoi romanzi.
Quanto a Manzoni – di cui quest’anno si celebra l’anniversario dei 150 anni della morte – facciamoci aiutare da Umberto Eco, che in una sua Bustina di Minerva sull’Espresso avvistava nelle dettagliate descrizioni paesaggistiche del primo capitolo dei Promessi sposi l’utilizzo delle tecniche più moderne di ripresa cinematografica. Tra letteratura e cinema – verso il quale i ragazzi sono meglio predisposti – vi sono tanti punti di contatto, la proiezione di un buon film che rivisita un’opera letteraria può essere utile per far capire come in un romanzo scorrano delle immagini, come alla base del cinema vi sia la scrittura. Né, soprattutto, possono essere trascurati il web e i social media: vi sono siti e pagine di facebook dedicati ai classici che possono stimolare l’interesse dei giovani verso di essi.
Vi sono altri due punti di cui la provocazione della Tamaro non ha tenuto conto.
Se non si leggono a scuola Verga, Dante e in genere i classici – e quella offerta dalla scuola è una prima lettura che pone le basi per un’ulteriore lettura, più matura e approfondita – si nega una fondamentale istruzione di base rivolta alla generalità dei futuri cittadini. Chi fa parte di nuclei familiari acculturati avrà il vantaggio di potere far propria, tramite canali diversi della scuola, la ricchezza che donano i classici; chi, al contrario, appartiene ad ambienti socio-culturali più modesti e non possiede che un canale, quello della scuola, per accostarsi ai classici, perde una chance e si trova in una posizione di svantaggio.
Se i programmi scolastici escludono o ridimensionano lo studio dei classici ritenuti ostici puntando sulla lettura degli autori di facile e immediata comprensione, si abbassa ulteriormente il livello qualitativo dell’istruzione in un Paese che sta pagando il prezzo di un impoverimento culturale che ha diverse cause su cui in questa sede non ci si può soffermare. Né la scuola, per quanti sforzi tenti di fare, potrà mai cancellare con soluzioni magiche e avveniristiche la fatica che lo studio comporta e anzi, come si è detto, educa a sopportarne il peso.
È bene non dimenticare che se la scuola – con le funzioni che assolve e gli oneri che le accompagnano – peggiora, peggiorano gli italiani. Il sapere non è mai fine a se stesso ma è una corazza che fortifica: aiuta a capire e ad affrontare meglio la vita, a difendersi dalle sue insidie; e quello umanistico rinvigorisce e rende più sensibili gli animi.
Antonino Cangemi – Giornalista scrittore