Mattarella chiama la classe politica e il Parlamento alla responsabilità

Non erano pochi coloro che si aspettavano, dopo il bis di Mattarella, anche il bis di un discorso al Parlamento duro e ruvido come quello che fece Napolitano nel suo discorso dopo essere stato rieletto nel 2013. Un discorso che rimarrà negli annali parlamentari per la sua singolarità: più il presidente Napolitano fustigava i parlamentari e più questi applaudivano. Un atto di irripetibile, sgangherato masochismo parlamentare.

Nulla di tutto questo con il discorso del Mattarella Secondo. È stato allora un discorso tenero, indulgente? Nient’affatto. Per la semplice e principale ragione che ognuno ha il suo stile, e, pare quasi ovvio sottolinearlo, Mattarella non è Napolitano.
Mattarella, che qualche giornale ha definito l’ultimo grande democristiano, in certi suoi passaggi del discorso, sia come approccio sia come modalità di affrontare i problemi di lunga gittata, ricorda lo stile di Moro: concetti profondi, di sistema, ma esposti con tono deciso ma mite, con profonda convinzione ma cortese, con passione e determinazione: questa è, ed è sempre stata, la cifra espressiva ma anche lo stile politico e umano di Sergio Mattarella.

 

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La sua allocuzione per certi versi, nella sua articolazione e nella ampiezza dei temi richiamati, ha ricordato i discorsi di fine d’anno, invece si rivolgeva a un Parlamento che un po’ ingloriosamente si avvia alla fine della legislatura. E pur nella consapevolezza che a questo Parlamento – sempre che non succedano cose per cui debba essere sciolto anzitempo, specialmente se i leader della maggioranza dovessero rendere impervia la strada e il lavoro di Draghi – resta appena un mese di lavoro, Mattarella ha richiamato tutti al senso della responsabilità, all’attaccamento a questo Paese per farlo crescere e prosperare.

L’idea sottintesa, che Mattarella non esprimerebbe mai in modo così esplicito, sembrava: io vi sto dando l’esempio, rispondendo alla “chiamata inattesa”, alla responsabilità, alla quale non posso e non ho inteso sottrarmi. Ciascuno faccia la propria parte, ciascuno nel suo ambito dia il suo contributo con il medesimo senso di responsabilità.
Per buona parte il discorso del Presidente è stato una rassegna dei problemi di questo Paese. C’è un riconoscimento e un ringraziamento a Draghi per il lavoro svolto ma anche una esortazione, un pressante appello, a evitare divisioni, perdita di tempo nella fase in cui invece bisogna decidere. Un sottile monito dal quale, forse arbitrariamente, potremmo dedurre un avvertimento a non complicare la navigazione del governo in questo scorcio di legislatura.

Si aspettava di vedere come il Presidente avrebbe trattato una delle piaghe che affliggono questo Paese: il malfunzionamento della giustizia e il clima avvelenato che si è creato da mesi nel mondo della magistratura, dilaniata da lotte intestine che hanno investito lo stesso Consiglio superiore della Magistratura. Su questo terreno nei mesi scorsi non sono mancate critiche allo stesso presidente della Repubblica, che si voleva più deciso, più dirompente. Ma anche qui, ciascuno ha il suo stile, e Mattarella non è Cossiga che si spinse a minacciare nel 1985 l’intervento dei Carabinieri se il Csm avesse messo all’ordine del giorno per discuterle le dichiarazioni dell’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi sulla magistratura.

Mattarella ha ricordato con qualche puntualizzazione di essere intervenuto in sede di Csm per sottolineare che indipendenza e autonomia sono principi preziosi e basilari della Costituzione ma che il loro presidio risiede nella coscienza dei cittadini. “Questo sentimento – ha detto – è fortemente indebolito e va ritrovato con urgenza. E con urgenza vanno fatte le riforme necessari per il funzionamento della giustizia”.

Uno dei passaggi più importanti e di stringente attualità, specialmente per la proiezione futura che potrebbe avere, è un chiaro monito ai partiti, chiamati a una necessaria rigenerazione.
“I partiti – ha detto testualmente il Presidente – sono chiamati a rispondere alle domande di apertura che provengono dai cittadini e dalle forze sociali. Senza partiti coinvolgenti (ergo: ora non lo sono, NdR), così come senza corpi sociali intermedi, il cittadino si scopre solo e più indifeso. Deve poter fare affidamento sulla politica come modalità civile per esprimere le proprie idee e, insieme, la propria appartenenza alla repubblica”.

Per i giovani il presidente ha avuto parole di esortazione: “Occorre che tutti, i giovani in primo luogo, sentano su di loro la responsabilità di prendere il futuro sulle loro spalle, portando nella politica e nelle istituzioni novità ed entusiasmo”.

Il Paese della bellezza.

Conforta che il presidente della Repubblica ricordi agli Italiani, spesso immemori e inconsapevoli, che la bellezza è uno dei valori del Dna di questo Paese. Anche se le brutture umane, sociali, ambientali spesso scoraggiano e danno dell’Italia una immagine diversa.
Ma l’Italia ha un Presidente che ci crede, e infatti dice: “L’Italia è per antonomasia il Paese della bellezza, delle arti, della cultura. Così ci vedono nel mondo. La cultura non è il superfluo, è un elemento costitutivo dell’identità italiana”.

Ad ascoltare il discorso di Mattarella si è avuta la rassicurante sensazione che il presidente abbia fatto una specie di radiografia dello stato del Paese e della società italiana avendo in mente la Costituzione, per segnalare quel che è stato attuato ma soprattutto e ciò che ancora non è stato realizzato, o per segnalare come l’esistente spesso confligga con lo spirito e perfino con la lettera della Costituzione, che – ha ricordato – continueranno a essere il punto di riferimento della sua azione.

Diseguaglianze, lavoro che manca o è precario, morti sul lavoro, squilibri sociali, dignità sociale che non è sempre pari come la Costituzione avverte che debba essere.
E poi naturalmente non poteva mancare la sfida della lotta alla pandemia, da cui il Paese cerca di uscire. Interessante il passaggio del discorso sulla necessità di decidere ma sempre nel rispetto delle regole democratiche. “I regimi autoritari o autocratici rischiano ingannevolmente di apparire, a occhi superficiali, più efficienti di quelli democratici, le cui decisioni, basate sul libero consenso e sul coinvolgimento sociale, sono invece ben più solide ed efficaci”.

Poi un appello ripetuto, indicando una serie di casi con una formula retorica iterativa (o anaforica) che richiamano la necessità di salvaguardare o ripristinare la dignità: il diritto allo studio, l’abbandono scolastico; il rispetto per gli anziani; contrasto alla povertà; la precarietà disperata; il sovraffollamento delle carceri. “Dignità è un Paese libero dalle mafie, dal ricatto della criminalità, dalla complicità di chi fa finta di non vedere; dignità è diritto a una informazione libera e indipendente. La dignità è una pietra angolare del nostro impegno della nostra passione civile”.

In conclusione, un discorso di alta sensibilità democratica, di amore per la Costituzione, di intensa passione civile. Un discorso per questo Parlamento e per quello prossimo venturo, sperando che quando sarà eletto il prossimo anno abbia voglia di andare a leggerlo ma soprattutto a farlo proprio.

Mario Nanni – Direttore editoriale

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