Un tema nuovo di zecca: rifondare i partiti. Si attui l’articolo 49 della Costituzione

Politica

Dopo la settimana quirinalizia, lanciata dai media come una specie di lungo contenitore tipo “aspettando Sanremo”, su una cosa pare che tutti gli osservatori si siano trovati convergenti: la politica ha consumato la sua frutta ed anche il suo dessert. E poi se n’è andata. Dove, non si sa, ma certamente non dove doveva andare. 

Lasciamo stare senza commento il peana che si è ascoltato sulla “vittoria del Parlamento” che ha interpretato il “furor di popolo” che invocava il bis di Mattarella, quando apparirebbe più onesto riconoscere che quel furore sia stato un po’ figlio dell’appello alla paura e al “quieta non movere” per non trovarsi a fare una campagna elettorale anzitempo. Ma, anche sotto quel velo pietoso della nobiltà del gesto, urla un’assenza lancinante: i partiti. Ma, avendoli evocati, domandiamoci di cosa parliamo quando diciamo “partito”, oltre il participio passato del verbo partire, s’intende.

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Domanda facile, allora: che cos’è un partito politico? 

Facciamo i furbi e ripetiamo il dettato della Costituzione deducendo dall’art.49: è un’associazione di cittadini che ha come scopo quello di concorrere a determinare la politica nazionale. Dunque tra le molte forme associative è l’unica a cui la nostra Costituzione concede un riconoscimento specifico, attribuendone anche un ruolo politico di livello nazionale.

Come dovrà, poi, organizzarsi questa particolarissima associazione non è detto in modo esplicito, ma è desumibile dai principi generali del nostro ordinamento che fa riferimento dappertutto al metodo democratico. In verità ci provarono in sede di Costituente a metterlo per iscritto, tanto per essere più sicuri, ma non funzionò: ai partiti dell’epoca non piacque l’idea che qualche giudice potesse ficcare il naso negli interna corporis della politica. Fin qui la Costituzione. 

La prassi ci ha consegnato l’esperienza della seconda metà del Novecento che ha visto l’affermarsi di una forma-partito impastata di elementi organizzativi ed elementi ideologici, successivamente implosi con la fine del comunismo. Comunque, nell’età d’oro della politica (cioè dall’avvento della Costituzione fino alla fine degli anni ‘80 del Novecento, quando gli iscritti ai partiti in Italia erano milioni), il partito politico ha fissato in qualche modo i suoi connotati di associazione con fini politici generali, assumendo alcune caratteristiche essenziali. 

La prima è stata quella della contendibilità dei vertici attraverso le procedure congressuali. La seconda una certa stabilità del marchio e nome del partito, per consentire fidelizzazione e militanza senza doversi smarrire appena distratti per un momento. La terza la presenza nelle aule parlamentari del simbolo per almeno tre o quattro legislature. Infine la struttura non cesaristica ma collegiale della dirigenza, sul modello primus inter pares. 

Se sottoponessimo a questa griglia di criteri l’analisi di quel che in Italia oggi viene chiamato con generoso eufemismo partito politico, ci troveremmo in vistose difficoltà. Pensiamoci un po’: al posto della comunità degli associati che si riuniscono in un congresso democratico per scegliere la linea politica e la dirigenza, oggi abbiamo un pubblico di elettori svogliati e fluttuanti chiamati ad acclamare un leader maximo investito dai media o da se stesso nel ruolo di conducator.

Quanto alla contendibilità, mi pare evidente che non esiste, essendo caduti in desuetudine anche i congressi. I nomi e i simboli cambiano con ogni cambio di stagione: se il corpo elettorale è solo il pubblico dei “consumatori”, bisognerà allettarli sempre con nuovi brand perché il vecchio prodotto dopo un po’ stufa. E così mentre in America o nel Regno Unito puoi trovare partiti secolari a contendersi il favore degli elettori, in Italia scoprimmo che il più antico era rimasto la Lega.

Prima che Salvini lo modificasse in chiave di autocelebrazione (e di autotutela per evitare qualche impiccio amministrativo della vecchia gestione). Quanto alla presenza stabile in Parlamento, ovviamente segue lo stesso destino del balletto delle sigle. Quello che resta costante in questa stagione è il partito “cesarista”, il partito “dall’alto”, con un capo assoluto e una dirigenza non eletta ma da lui nominata.

Né l’illusione della democrazia diretta attraverso la Rete migliora la situazione: è solo un allucinogeno che spruzza un po’ di nebbiolina attorno alla verità: uno solo al comando. Il resto lo fanno le leggi elettorali che mettono nelle mani del capo la scelta dei fedelissimi da mandare in Parlamento con le liste bloccate. Fine delle trasmissioni.

Vogliamo riparlare di partiti? Bene: facciamo una cosa seria e discutiamo di leggi che ne fissino i requisiti di democraticità collegati alle importanti funzioni di rappresentanza che le leggi mettono nelle loro mani, a cominciare dalla competizione elettorale per eleggere i rappresentanti del popolo.

Anzi, visto che ci siamo, mettiamoci insieme anche una riforma elettorale che cancelli una volta per sempre le liste bloccate. E, se la vogliamo dir tutta, riapriamo il capitolo del finanziamento, perché solo un’indulgenza pilatesca al Barabba del populismo, ha potuto accettare che strumenti della democrazia venissero anche “ontologicamente” messi nelle mani di finanziatori privati. 

Vogliamo salvare la faccia sul punto?

Lo Stato finanzi per legge la formazione dei politici, per consentire anche l’attuazione dell’art. 54 della Costituzione, dove si parla di “disciplina e onore” e dove disciplina sta per “competenza”. Non so se mi spiego.

Pino Pisicchio – Professore di Diritto comparato, parlamentare in numerose legislature

 

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