Mattarella 2, la quadratura del cerchio. Ma per i partiti è Waterloo

Atlante di una crisi di sistema. Centrodestra diviso e confuso, centrosinistra passivo. Draghi come nella giara di Pirandello. Un pensiero di Croce per Giorgia Meloni

“Siete sull’orlo dell’abisso, ma con me farete un passo avanti”, disse un generale che non conosceva il potere devastante delle parole. Senza girarci troppo intorno, la verità va detta: gli italiani ringrazino il presidente Mattarella che ha evitato, a differenza di quel generale, il passo avanti su un abisso istituzionale e politico in cui il Paese rischiava di precipitare.

Mattarella che resta al Quirinale e Draghi a Palazzo Chigi è la quadratura del cerchio: il governo continua a lavorare, le Camere si sono salvate dal pericolo di scioglimento anticipato, i parlamentari preoccupati di perdere la pensione (molti già preparavano il modulo per il reddito di cittadinanza) hanno altri 15 mesi di stipendio e di lavoro.

A livello internazionale, il Paese dà un messaggio di stabilità e di continuità. E pazienza se alcuni giornali inglesi, che volevano Draghi al Colle, resteranno delusi. Di passaggio, osserviamo: ma come mai questi britannici, che peraltro non stanno più nell’Unione Europea, si impicciano così tanto delle cose italiane? Allora è un vizio! Fin dai tempi in cui l’Economist titolò UNFIT ,  riferito a Berlusconi  presidente del Consiglio giudicandolo  “non adatto” a governare. Non dovrebbero essere gli italiani a stabilirle in libere e democratiche elezioni se un politico sia o no unfit?

Ma c’è una domanda del solito cittadino di buon senso: ma se la conferma dell’accoppiata Draghi-Mattarella aveva effetti così benefici, perché non pensarci prima? Perché dare uno spettacolo di indecisione, manovre, intrighi, fiera delle vanità, leader che giocano a fare gli statisti, mediocri attori di avanspettacolo politico, scene di cannibalismo politico, o sparizioni alla Agatha Chiristie dei “dieci piccoli indiani”, ops candidati?

Le risposte potrebbero essere tante ed esulano dallo scopo di questo articolo. Ma una intanto la si potrebbe dare: Perché per questa classe politica che ha dato prove fallimentari di capacità di mediazione, di trattative, di stile istituzionale,  si può applicare il detto di Ovidio: “Video bona, proboque, deteriora sequor” (vedo il bene, lo approvo ma poi faccio le cose sbagliate; è una traduzione alla buona, non si scandalizzino i latinisti).

Intendiamoci: lo “scandalo” non è stato il numero delle sedute per eleggere il Presidente. Per Saragat ce ne vollero 21, per eleggere Leone 23, fino alla vigilia di Natale!

Il problema  non è nel numero delle votazioni. Ma, come spesso nella vita e come ci ha insegnato Cartesio, il problema è nel manico, cioè nel metodo.  I comportamenti dei segretari di partito, chi più chi meno, sono stati contraddistinti da furbizie, gelosie tra alleati, tatticismi, colpi bassi. Quello che soprattutto è mancato è uno stile di trattativa, una capacità di trattare. Questa classe politica ha mostrato il suo nanismo politico proprio nella ignoranza dell’arte del negoziato, da condurre  a viso aperto, con chiarezza, mettendo sul tavolo nomi da una parte e nomi dall’altra e trovare una sintesi. E con un senso di responsabilità nazionale.

Ed è qui che casca l’asino. Incapacità di trovare una sintesi. Si è notata l’assenza di un federatore, di una guida carismatica. Il centrodestra, con Berlusconi assente, lontano e malandato, che tuttavia ha lucidamente suggerito un paio di mosse facendo politica, è diventato un agglomerato politico con capi e capetti che hanno come mira principale quella di sgambettarsi e di guadagnarsi la primazia all’interno dell’alleanza.

Questi comportamenti dissociati si sono palesati nella tattica e nella scelta dei candidati creati la mattina e buttati nella fornace dopo poche ore. E stupisce francamente che ad avallare questo gioco rivelatosi suicida abbia acconsentito la senatrice Casellati che è pur sempre la seconda carica dello Stato. Avrebbe dovuto chiedere garanzie, se non di essere eletta, di essere appoggiata da tutto il centrodestra. In caso contrario avrebbe dovuto seguire la linea che Pierferdinando Casini ha scelto, per la verità quando ha visto che tutte le porte si erano ormai chiuse, quando ha chiesto ufficialmente che il suo nome fosse sfilato dalla lista dei papabili.

C’è stata una corsa a fare i kingmaker, a intestarsi la scelta dei candidati, puntandoli su un tavolo da poker elettorale, e in certi casi bluffando. Una corsa un po’ comica se non fosse stato in ballo l’elezione della suprema carica dello Stato, invece sembrava che dovessero scegliere l’amministratore di un ente comunale, non il presidente della Repubblica.

Il centrodestra non era unito prima, lo è ancor meno adesso: ha problemi di rapporti interni, di guida condivisa e concordata. La elezione del presidente della Repubblica ha mostrato che il più lucido e coerente della congrega paradossalmente resta Berlusconi: lo ha dimostrato prima con la decisione, sia pure obtorto collo ma comunque realistica, di rinunciare a candidarsi;  e poi con lo stop alla candidatura di Elisabetta Belloni, gran commis d’Etat, con questa motivazione politica, ancora più politica di quella di Renzi, che aveva detto: il capo delle spie non può essere presidente della Repubblica, opinione condivisibile ma pur sempre una opinione. 

L’obiezione di Berlusconi invece, espressa dalla sua fida Licia Ronzulli, non era un’opinione ma un dato di fatto: non si possono mettere due tecnici al Quirinale (Belloni) e a Palazzo Chigi (Draghi). Pensiero sotteso: così la politica viene commissariata.

Oddio, si potrebbe obiettare, se la politica italiana si comporta come le mosche in bottiglia (copyright del professor Paolo Armaroli) dove era lo scandalo?

Se poi guardiamo all’altro versante politico, il centrosinistra, potremmo ripetere il noto detto “se Atene piange Sparta non ride”. Con onestà intellettuale che gli fa onore, ed è l’unico segretario di partito che a caldo, dopo che si era capito l’approdo a Mattarella bis, lo ha messo in chiaro, è stato Enrico Letta: contenti e grati al Presidente che resta, ma la politica abbia la consapevolezza che ha fallito.

Letta ha fatto come il generale Kutuzov, ma davanti non aveva nessun Napoleone

Letta e anche Conte possono intestarsi  un risultato: quello di essere riusciti a stoppare un candidato del centrodestra. Ma siamo alla vittoria di Pirro: il centrosinistra non ha mai proposto un candidato, ha lasciato il campo a Salvini Berlusconi e Meloni, dando l’impressione che a sinistra non ci fossero persone degne e autorevoli. E sì che ce n’erano: tra i tanti, Violante, Amato, che nelle stesse ore del Mattarella bis veniva eletto presidente della Corte Costituzionale, un fuoriclasse delle istituzioni, che Berlusconi peraltro aveva proposto nelle ultime elezioni presidenziali.

Anche Letta ha esagerato in tatticismo, ha fatto il Kutuzov della situazione, con la differenza che non aveva davanti nessun Napoleone ma solo dilettanti allo sbaraglio. Letta ha lasciato che le truppe parlamentari del centrodestra uscissero allo scoperto nelle votazioni con annessi franchi tiratori, e ha tenuto, insieme ai 5 stelle, le truppe accasermate, non facendole partecipare al voto, per evitare franchi tiratori, come è spesso avvenuto nelle elezioni presidenziali precedenti.

A giudicare dai risultati, questa tattica da pars destruens, ha funzionato. Ma Letta ha impedito il gioco degli altri, non ne ha fatto uno proprio, in positivo.  E anche lui così viene oggettivamente trascinato nella valanga del fallimento di questa classe politica incapace di dare soluzioni in delicati passaggi istituzionali.

Conte e il De bello pentastellato

Quanto a Conte, che credeva di combattere una specie di De bello pentastellato, senza essere Giulio Cesare (con Cesare ha in comune solo le iniziali del nome e cognome) non si è mai visto tanto dilettantismo e tanta mancanza di carisma. Ha però alcune attenuanti: da una parte c’è Di Maio che lo logora ai fianchi, con il suo aplomb da ministro degli Esteri, il suo ascendente su ampi settori dei parlamentari del Movimento 5 stelle; dall’altra c’è  la divinità grillina che ogni tanto squarcia le nubi e si appalesa, come ha fatto con quel caloroso saluto a Elisabetta Belloni: “Benvenuta  Signora Italia”, che non si sa quanto abbia giovato alla candidata .Qualcuno ha parlato di “bacio della morte” o,  per chi ama i riferimenti letterari, di “timeo Danaos et dona ferentes”.

Ma ciò che ha lasciato di stucco è la superficialità con cui dirigenti scafati, o sedicenti tali, come un Salvini e un capo, sulla carta, del più numeroso gruppo parlamentare, e due volte presidente del Consiglio abbiano fatto a gara a indicare una donna per la presidenza della Repubblica, per intestarsela, e svelando perfino il nome (dei tre che ne componevano una rosa) senza consultare le altre forze politiche.

Con parole che farebbero ridere se non ci fossero state persone degnissime in ballo e la massima carica dello Stato: lasciatemi andare, diceva Salvini ai giornalisti, lasciatemi lavorare, sto lavorando per dare al Paese un presidente della Repubblica donna. Ma non perché è donna. Una presidente donna in gamba (con tanti saluti alla Casellati NdR) gli faceva eco Conte. Questo giochino si è poi sgonfiato come un palloncino nel giro di qualche ora, lasciando irresponsabilmente sul campo vittime incolpevoli.

Se le donne italiane, in ipotesi, avessero per un attimo e per magia una sola voce, dovrebbero rispondere con un sonoro pernacchio, alla maniera di Eduardo, dalle Alpi al Lilibeo.

Molte sarebbero le figure o le figurazioni per rappresentare questa vicenda delle elezioni presidenziali.

La giara di Draghi

Draghi, chiamato da Mattarella a salvare questo Paese dal disastro, ha fatto il suo lavoro per quasi un anno. Un po’ perché qualcuno gliel’aveva fatto balenare come evento naturale, un po’ perché credeva di meritarselo, il presidente del Consiglio aveva fatto più di un pensierino al Colle. Ma già era partito il tam tam di coloro che volevano inchiodarlo a Palazzo Chigi (chi in buona ma anche in cattiva fede): deve finire il suo lavoro, egli è prezioso alla guida del governo, sennò rischiamo di perdere i benefici e i soldi del Pnrr. Draghi deve essersi reso conto che gli stavano preparando una trappola sia pure dorata, e rischiava di rivivere il destino di un personaggio di una novella di Pirandello: la giara. Notate la stupefacente somiglianza tra le due vicende. Un tecnico bravo viene chiamato da un possidente perché metta a posto una  grande giara, che era rotta in più parti. Il tecnico entra nella giara, con un mastice prodigioso la mette a posto, tutti a gridargli bravo, bravissimo. Ma appena cerca di uscire si accorge che della giara che ha sistemato è diventato prigioniero. 

Dobbiamo aggiungere altre parole per illustrare la similitudine?

Appena Draghi si accorse che dopo aver sistemato la giara-Italia stava per diventare prigioniero della gabbia dorata di Palazzo Chigi, disse nella conferenza stampa di fine d’anno, che egli il suo lavoro l’aveva finito, e che lo potevano tranquillamente continuare altri. E si dichiarava disponibile ad altre responsabilità (Quirinale). Questa mossa è stata da molti criticata e presa a pretesto per scatenare contro Draghi una campagna ostile.

E qualcuno ha ingenerosamente dato di  questa mossa draghiana la colpa a Antonio Funiciello, suo capo di Gabinetto, del tutto incolpevole in questa vicenda. D’Altra parte molti rimproveravano Draghi per il suo silenzio sulle sue intenzioni riguardo al Colle, perciò il presidente del Consiglio ritenne di palesare la sua disponibilità.

Ma il risultato fu che nei giorni delle elezioni presidenziali il nome di Draghi veniva evocato ma per escluderlo dalla corsa.  È stupefacente come in questo Paese cambino i sentimenti  e i giudizi verso le persone: Da taumaturgo a potenziale pericolo per la democrazia (il solito esagerato D’Alema).

Tuttavia il nome di Draghi veniva portato avanti, sia pur sottotraccia, dal Pd, ma osteggiato da Conte (che non gli perdona di averne preso il posto: questo per dire della statura di colui che un sito satirico chiama scherzosamente Peppiniello Appulo). 

Draghi, da macigno ad artefice della soluzione presidenziale

Draghi stava di fatto diventando un elemento che comunque complicava la partita del Quirinale: 

Ipotesi  A: con Draghi al Colle, si apriva e si complicava l’altra partita: e chi al governo? Un altro tecnico? Magari un uomo di sua fiducia come Daniele Franco? Ohibò, due tecnici nelle massime postazioni dello Stato, non se ne parla. Si sarebbe creato un semipresidenzialismo di fatto, senza aver cambiato la Costituzione. Un esponente politico? E chi? Se di destra, non lo avrebbe accettato la sinistra; se di sinistra si sarebbe opposto il centrodestra. Ma che scherziamo, con le elezioni politiche vicine, gli diamo un vantaggio di immagine all’avversario?

Ipotesi B: Draghi restava a Palazzo Chigi. E chi al Colle? Se si eleggeva una figura di basso profilo, come avrebbe reagito Draghi? Non c’era il rischio che il premier, deluso, se ne sarebbe andato alla prima occasione?

Se si eleggeva una persona di rilievo, che sarebbe durato sette anni, come l’avrebbe presa Draghi? Deluso, si sarebbe demotivato.

Secondo questo schema, che ha del vero ma anche del cervellotico, Draghi sarebbe stato “meno deluso” se al Colle fosse andato un uomo molto in là con gli anni. Discorsi di infimo livello. Oppure sperava vivamente che fosse confermato Mattarella, con il retropensiero o la retrosperanza che, come Napolitano, dopo due anni avrebbe lasciato il Quirinale. Ipotesi peraltro del tutto immaginaria, costituzionalmente anomala e peraltro offensiva verso lo stesso presidente Mattarella e lo stesso Draghi. 

Nella crisi generale, la stampa non si deve sentire esente da colpe

Ma così va il mondo, non ci si meravigli se tra poco sui giornali comincerà il chiacchiericcio su “quanto tempo Mattarella deciderà di restare al Quirinale”. Sia detto di passaggio, nella responsabilità e nel fallimento della classe politica, l’informazione e i giornalisti non si possono chiamare fuori; in qualche modo essi fanno parte di questa crisi. Ma questo è un discorso da approfondire in altra occasione.

Alla fine si deve dare atto a Draghi di una importante verità: se lui, al di là delle sue stesse intenzioni, è stato  per alcuni giorni un oggettivo macigno sulla strada della soluzione della crisi istituzionale, alla fine è stato lui stesso a fare la mossa risolutiva: chiedendo a Mattarella di superare il suo diniego della riconferma e di sacrificarsi per far uscire il Paese da una crisi che minacciava di diventare insolubile, e precipitare in una crisi di sistema. Questa mossa di Draghi ha scongelato i no di altre forze politiche, e alla fine anche Salvini si è adeguato, Conte con meno difficoltà perché così Draghi non sarebbe andato al Colle.

La più lunga campagna elettorale della storia

È quella che di fatto è cominciata e durerà fino alla primavera del 2023. Per il governo Draghi sarà un anno molto difficile, perché dovrà governare le spinte e le controspinte dei partiti della sua maggioranza, ansiosi di chiedere, di far passare provvedimenti per intestarseli di fronte alla opinione pubblica.

Ma Draghi per converso potrà avvalersi dello scudo del presidente Mattarella che, non essendo più nel semestre bianco, ma agli inizi del suo nuovo mandato,  se i partiti facessero i capricci, potrebbe mandare il Parlamento a casa, e non importa se è lo stesso Parlamento che lo ha votato.

Sarà un anno di cui i partiti potrebbero approfittare – come proponeva Enrico Letta – per farsi un autotest di consapevolezza, maturità e capacità politica. Soprattutto, aggiungiamo, di dignità, di responsabilità e di attaccamento alle istituzioni e al Paese.

Quel senso dello Stato e delle Istituzioni che ancora una volta con il suo gesto Mattarella ha dimostrato e ha mostrato alle forze politiche. Nella speranza che apprendano qualcosa. 

Parigi val bene una messa ma… Un pensiero di Croce dedicato a Giorgia Meloni

Alla rielezione di Mattarella la forza politica che si è opposta è stata Fratelli d’Italia, un partito che peraltro non fa parte della maggioranza di governo, che è lo schieramento che ha votato per il secondo mandato a Mattarella. Un gesto coerente, e come tale Giorgia Meloni l’ha valorizzato con pieno diritto e anche con legittimo orgoglio politico.

Ma nel momento in cui un presidente della Repubblica accetta, con il suo assenso alla riconferma, di dare il suo contributo andando oltre le sue stesse esigenze personali, forse la segretaria di Fratelli d’Italia – non fosse altro che per il nome stesso del suo partito – avrebbe potuto fare un gesto: quello di andare oltre le sue pur legittime esigenze di differenziarsi, per coerenza, rispetto ad alleati e avversari “incoerenti”. Invece ha preferito coltivare e innaffiare il suo orticello elettorale. 

Meloni pensa di fare il pieno alle prossime elezioni, ma quanti voti pensa di guadagnare da questo specifico gesto che va in controtedenza con la stragrande maggioranza degli italiani e dello stesso Parlamento, che alla fine si è affidato di nuovo a Mattarella?

Meloni ha scelto Parigi (eventuale e ipotetico vantaggio elettorale) invece di contribuire a questo momento di concordia nazionale. Non lo ha fatto. Un gesto poco patriottico da parte di chi fa continue litanie sul patriottismo. A Meloni proponiamo di tenere a mente questa frase di Croce:  “Se Parigi val bene una messa, ci sono cose che valgono infinitamente più di Parigi”.

 

Mario Nanni – Direttore editoriale

 

Stellantis, Foti: il governo si sta impegnando al massimo per tutelare gli stabilimenti

Cosa è cambiato in FCA dai tempi di Marchionne? Nell'era Marchionne era l'Italia il cuore pulsante del progetto industriale dell'azienda Read more

Lo strano caso di papa Francesco e della premier Giorgia

L’annuncio su X della presidente Meloni ha fatto scalpore, ma non poi tanto: “Sono onorata di annunciare la partecipazione di Read more

Benvenuto: Berlinguer, i comunisti, i rapporti con il sindacato

Giorgio Benvenuto è stato uno dei protagonisti del mondo sindacale italiano durante gli anni della cosiddetta Prima Repubblica. Nella veste Read more

La strana maggioranza di centrodestra

Giulio Andreotti, riferendosi ad una sua criticata presidenza del Consiglio, sbottò: “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia.” L’andazzo Read more

Articolo successivo
Renata Tebaldi, un secolo fa nasceva “l’angelo della lirica”
Articolo precedente
Benedetto XVI, una testimonianza del Cardinale Filoni

Menu