Renata Tebaldi, un secolo fa nasceva “l’angelo della lirica”

Per molti melomani il soprano più grande della storia. La rivalità con Maria Callas. Quei nove bis nell’ultimo concerto alla Scala nel ‘76.

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Cento anni esatti dalla nascita, il 1 febbraio, 18 dalla morte, il 19 dicembre 2004, e 78 anni dall’esordio, nel 1944 a Rovigo, come Elena nel Mefistofele. A qualsiasi melomane questi dati basterebbero per rispondere non a un quiz improbabile quanto obsoleto, ma a scatenare il flusso della memoria e della passione per la lirica. Parlo di Renata Tebaldi.

Un soprano e una personalità artistica che non hanno avuto uguali (vedremo il perché) sino ad ora, anche se molti l’hanno voluta contrapporre a un’altra cantante, Maria Callas, ingigantendo una rivalità che (anche di ciò proverò a chiarire il motivo) non ha mai avuto vera giustificazione. 

Renata Ersilia Clotilde era nata a Pesaro, nelle Marche, terra dei cento teatri e di grandi musicisti, Gioachino Rossini, Giovan Battista Pergolesi, Gaspare Spontini, non meno che sommi cantanti, Beniamino Gigli, Franco Corelli, Sesto Bruscantini, Anita Cerquetti, tanto per restare al Novecento.

Teobaldo Tebaldi, il padre, che vantava lontane origini nobiliari, suonava il violoncello in orchestra, ma – genetica a parte – non è a lui che si deve l’aver instradato la figlia verso la musica. Teobaldo, uomo di gradevole aspetto, estroverso e poco incline alla vita familiare, quando l’unica figlia ha appena pochi mesi decide di abbandonare il tetto coniugale. La madre, Giuseppina Barbieri, torna così a Langhirano, il suo paese natale, per avere almeno il sostegno della sua famiglia di origine. 

Ciò porterà alcuni biografi frettolosi a scrivere che Renata Tebaldi era emiliana come la mamma. A tre anni la bambina è colpita dalla poliomielite, di cui avrà ragione grazie alle assidue cure materne, prolungatesi per cinque anni, unitamente a massaggi, ginnastica e terapie termali. A Renata, di quel periodo, resterà una lievissima difficoltà nella deambulazione, che con la crescita sparirà quasi del tutto.

A contribuire alla fama della futura cantante ci saranno infatti la sua grande presenza scenica, l’altezza della figura e la perfezione dei lineamenti, ancor più illeggiadriti da grandi ed espressivi occhi azzurri.

Da subito la bambina, che per la malattia e le vicende familiari sta sviluppando un carattere incline alla malinconia e all’introspezione, mostra di avere una fine natura musicale e una vera passione per il pianoforte, che al Conservatorio di Parma studia con assiduità e profitto. 

La scoperta della voce avviene per l’intuizione di una sua insegnante di solfeggio, che l’affida ai maestri Italo Brancucci e Ettore Campogalliani; quest’ultimo noto didatta e insegnante di canto di artisti poi famosi, tra i quali nomi che hanno fatto la storia dell’opera del Novecento, come Renata Scotto, Mirella Freni, Fiorenza Cossotto, Carlo Bergonzi, Luciano Pavarotti, Ruggero Raimondi, per citare i principali. Chi però seppe perfezionare la tecnica e l’emissione della Tebaldi, ormai diciottenne, fu il grande soprano Carmen Melis, dedicatasi all’insegnamento al termine di una prestigiosa carriera, che nel Liceo Musicale Gioachino Rossini, a Pesaro, seguì Renata per un paio d’anni. 

La definitiva consacrazione della cantante avvenne nel 1946, quando dopo un’audizione in cui eseguì La mamma morta, da Andrea Chenier, Arturo Toscanini, nume indiscusso del podio, la scelse per l’inaugurazione della Scala, ricostruita dopo i terribili bombardamenti subiti dalla città di Milano.

Renata cantò la preghiera del Mosè di Rossini e la parte solista del Te Deum di Giuseppe Verdi. In quell’occasione il Maestro, che non era solito indulgere in lodi che non fossero più che meritate secondo il suo severo metro di giudizio, la chiamò voce d’angelo. Un appellativo che è ancora quello con cui la definiscono legioni di adoratori nel mondo. Da quel momento la sua carriera non può dirsi che grandiosa. Passa da un teatro all’altro. 

Oltre a tutti i principali teatri italiani, è chiamata nei “templi della lirica” di tutto il mondo, come in quegli anni si usava definire i più importanti teatri d’opera: Londra, Parigi, Berlino, Barcellona, Madrid, Lisbona. E in Messico, Brasile, Argentina, Giappone. Considerata la più grande Desdemona di sempre, nel 1955, in Usa, trionfa in Otello con Mario Del Monaco al Metropolitan, dove sarà di casa per 18 anni, per complessive 270 rappresentazioni. 

Non si può tralasciare neppure l’Opera Lirica di Chicago, dove in un decennio (1955-65) si esibirà in oltre 40 recite. Il rientro alla Scala avviene nella stagione 1959-60 in Tosca, con Giuseppe Di Stefano e la direzione di Gianandrea Gavazzeni. Alla Scala, dove è tornata dopo quattro anni, riceve applausi per 40 minuti di seguito, un record assoluto. Tra le opere che interpreta spiccano i capolavori di Verdi e Puccini, anche se il suo repertorio va oltre i due maggiori operisti italiani. Circa 70 sono i Maestri che la dirigono. 

Negli Usa, e soprattutto al Metropolitan, è soprannominata “Miss tutto esaurito”, ma parlare del Met chiama in causa l’altra stella della lirica del Novecento, Maria Callas. Come per la scienza (Montagnier-Gallo), lo spettacolo (Lollobrigida-Loren), la musica (Salieri-Mozart), lo sport (Mazzola-Rivera e, nel più abusato dei paragoni, Coppi-Bartali) nel Paese dei guelfi e ghibellini non poteva non stabilirsi tra le due star un dualismo.

La rivalità ci fu in certi momenti paralleli delle loro carriere, ma fu soprattutto amplificata dai giornali e da lettori in cerca di pettegolezzi e non giunse mai non dico all’insulto, ma neppure allo sgarbo; anzi, nel settembre del 1968, dopo una strepitosa edizione al Metropolitan dell’Adriana Lecouvreur con la Tebaldi, le due artiste si rincontrarono rinsaldando un rapporto, fatto di rari incontri ma di regolari telefonate, che sarebbe durato sino alla morte della Callas, nel 1977. Evento che, come ricordò la “signora Tina”, storica amica e segretaria della Tebaldi, gettò il soprano in uno stato di profondo sconforto.

Sebbene fossero quasi agli antipodi per stile di vita e frequentazioni, le due artiste ebbero in comune una vita sfortunata dal punto di vista affettivo. La Callas, spirito tormentato e sensuale, per una serie di relazioni che i rotocalchi definivano immancabilmente “amori impossibili”, tra i quali quello col tenore siciliano Giuseppe (Pippo) Di Stefano e, il più disastroso per la labile psiche di lei, col magnate greco Aristotele Onassis; la Tebaldi, sostenuta da una fede cattolica profonda e praticata anche quando era in tournée, per un unico grande ma travagliato amore con il direttore d’orchestra Arturo Basile, che lei preferì lasciare per non essere costretta a un ménage conflittuale che avrebbe sicuramente avuto ripercussioni sulla sua carriera. 

Musicalmente, le due primedonne erano parimenti lontane. La Callas, eccellente anche come attrice, era dotata di una straordinaria estensione vocale, che specie agli inizi le permetteva di affrontare con disinvoltura ruoli da soprano-coloratura, con note altissime che parevano prodotte da un violino, fino a parti da soprano drammatico, con una zona grave da “mezzo” o addirittura da contralto.

Questo però a costo di una emissione talvolta difettosa, di qualche pecca di intonazione e, negli ultimi anni di attività, di un vibrato che tendeva a slabbrarsi. La sua voce, dal caratteristico timbro “metallico” che o piaceva sino a suscitare l’idolatria o irritava i puristi, le permise di costituirsi un repertorio sconfinato per un solo tipo di soprano. 

La Tebaldi, invece, possedeva mezzi vocali meno estremi, ma certamente prossimi alla perfezione. Per i milioni di fan, Renata “era” la perfezione. La voce, normalmente estesa e di grande spessore per il soprano lirico che era, poi venato da timbri più scuri da “spinto”, non la portava a prediligere le parti di coloratura; che da giovane pure affrontava con successo, essenzialmente grazie alla tecnica impeccabile.

Renata Tebaldi, come testimoniano le numerose registrazioni dal vivo e in studio che circolano e si pubblicano in tutto il mondo, ancora oggi è il soprano dalla vocalità che sembra vellutata, inarrivabile per la purezza dell’emissione, dai filati “trasparenti” come trine e celestiali; con un vibrato stretto e mai stimbrato, dall’intonazione assoluta, dall’omogeneità nei passaggi, dal registro grave, al centrale (quello da cui gli esperti di solito valutano la bellezza e l’integrità di una voce) a quello acuto. A differenza della Callas non amava gli attacchi violenti e addirittura “satanici”; prediligeva la dolcezza e, quando il ruolo lo richiedeva, la pateticità.

Lei, consapevole della delicatezza del suo strumento, non ha mai fatto passi falsi né sforzi di ruoli che non sentiva consentanei alla propria vocalità. Wagner e Gounod li ha cantati in italiano, diceva, per non rendere gutturale l’emissione e, nel caso del francese, per non rovinare con le nasalizzazioni la leggendaria bellezza delle sue vocali. 

Quando a metà degli anni ’70, dopo una lieve indisposizione alla laringe, ebbe la percezione che potesse cominciare il suo declino, la decisione di lasciare le scene fu immediata quanto serena. Forse ricordava i 40 minuti di applausi continuati, che le furono tributati nel 1959 dopo una Tosca che aveva segnato il suo ritorno alla Scala dopo quattro anni, nei quali aveva lasciato alla Callas il teatro milanese per trasferirsi, quasi fissa, al Metropolitan.

L’ultimo concerto, sempre nel teatro milanese, fu nel 1976 a favore dei terremotati del Friuli.

Concesse nove bis, l’ultimo dei quali fu la canzone “Non ti scordar di me”. Oltre alla importante documentazione sonora, con registrazioni dal vivo e in studio, edite in maggioranza dalla Decca, oggi la sua memoria è tenuta viva da un museo a Busseto, con annessa una fondazione, con sede nella cittadina verdiana. Un’altra fondazione intitolata alla Tebaldi è a San Marino, dove negli ultimi anni trascorreva larga parte del suo tempo. Nell’ospedale della Repubblica del Titano il soprano si spense, prossima a compiere 83 anni, in seguito a una neoplasia che l’aveva colpita alla milza.

Molta la beneficenza da lei fatta, di cui dopo la morte diede notizia la Signora Tina. E un grande gesto di bontà: dopo che a New York morì per un ictus sua madre, che assieme a Tina l’accompagnava sempre nelle sue tournée, venne a sapere che il padre non era morto come le era stato detto, ma era in Italia, malato. Trovò il modo di rintracciarlo e di assisterlo fino all’ultimo. Dopo, senza pubblicità, fece avere un cospicuo aiuto anche alla donna che gli era stata compagna dopo l’abbandono della famiglia. Non solo una voce, dunque, ma anche un animo ai quali non si attaglia che un aggettivo: sublime.

 

Carlo Giacobbe – Giornalista, melomane, scrittore

 

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