Maria Callas, la Calliope moderna ha compiuto un secolo

Un mito che trascende il mondo della lirica

Esattamente un secolo fa nasceva un mito che travalica l’arte della lirica, che nonostante sia una passione per pochi, con lei ha acquisito diffusione quasi planetaria, resistendo gagliardamente all’usura del tempo: sono 47 anni che Maria Callas, Calliope dell’era moderna, non è più con noi, eppure il suo nome gode ancora di una popolarità che per trovare uguali deve rifarsi (tanto per cambiare) a quella maschile e, in particolare, a due tenori, Enrico Caruso e Luciano Pavarotti.

 

 

 

 

Popolarità che, conviene chiarire subito, come per le altre due star non corrisponde a valori assoluti; ché nella musica, e nell’opera in particolare, non possono essercene. Come si addice alla sua terra di origine, la Grecia, paese di miti se altri mai, tra le molte nebulose nella vita della cantante che fu detta “dea” e “divina” c’è anche la data della nascita. Concepita ad Atene, nacque a New York, dove i genitori, farmacisti, avevano deciso di trasferirsi. Nel certificato stilato dal medico che assisté al parto è scritto 2 dicembre, ma in seguito la madre e la sorella maggiore avrebbero indicato sia il 3 sia il 4 di quel mese. Le poche volte che accennava alla sua età pare che lei preferisse dichiarare il 4, giorno onomastico di Santa Barbara, figura particolarmente cara a Maria per la sua combattività. Prima che Callas diventasse un marchio, ossimorica ipostasi (i paroloni greci, con lei, sono quasi un must) della moderna, umana divinità, il cognome giuntole dal padre era cambiato due volte. Da Kalogheropoulou fu abbreviato in Kalos e successivamente in Callas. Tre nomi e tre date di nascita, comunque, perfettamente in linea con un soprano di cui (sbagliando forse per difetto) si diceva che fosse tre voci in una; ossia i registri che, partendo dal basso, coprono la gamma vocale femminile: contralto, mezzosoprano e soprano. Anche qui, però, si fa presto a dire soprano. Tacendo di una volta che appena ventiduenne, in un teatro minore di Salonicco, avrebbe cantato il duetto dell’Otello rossiniano, alternandosi e come Desdemona e nel ruolo eponimo del tenore, Maria Callas fu ubiquitaria per personaggi, stili musicali e caratteristiche vocali. Dotata di una estensione prodigiosa, oltre tre ottave, e di una volontà ferrea, per molte ore al giorno si dedicò allo studio del pianoforte, del solfeggio e delle tecniche di emissione. L’aiutarono l’aver vissuto sino all’adolescenza e al passaggio verso la voce adulta a Manhattan, dove aveva cominciato a prendere lezioni di canto da una oscura “signorina Sandrine”. Questa insegnante le diede una impostazione stilistica sia italiana sia francese, facendola esercitare nella tessitura sopranile e in quelle più gravi del “mezzo” e del contralto.

Aveva 14 anni quando i genitori si separarono e lei seguì la madre e la sorella nella Grecia di cui portava, indelebili, carattere e fisicità, pur non essendoci mai vissuta. Ammessa al Conservatorio di Atene, in pochi anni si diplomò brillantemente in canto, pianoforte e lingue. Lo studio nella capitale greca oltre a completarle una solida preparazione musicale le fece scoprire possibilità prima impensate di soprano coloratura. Mai però, come in molte cantanti specie agli inizi, con acuti di grande agilità ed altezza estrema ma emessi da esili supporti timbrici. Lei riusciva a salire alle altezze vertiginose senza perdere corposa sonorità nei gravi. Un fenomeno, per la quale fu coniata la categoria di soprano drammatico di agilità. Sebbene veri confronti non si possano fare, per l’assenza di documenti sonori, come lei, secondo i critici più quotati, c’erano state le due più grandi cantanti dell’800, l’italiana Giuditta Pasta e la franco- spagnola Maria Malibran.

Maria Callas non fece il passaggio graduale che, nel gergo dei cantanti, si usa paragonare a una coperta, che se la tiri in giù verso i piedi ti fa scoprire il capo. Non cominciò, come solitamente, lei che avrebbe potuto affrontarli tutti, cominciando dai ruoli di soprano lirico leggero, passando poi a lirico puro, “spinto”, drammatico, sino al wagneriano e al “falcon”, quest’ultimo dal nome di Marie-Cornélie Falcon, una soprano francese dell’800 dotata di una voce molto timbrata nei centri e nei gravi, sebbene non particolarmente estesa, rimasta come modello per chi voglia sottilizzare nelle caratteristiche sopranili. Maria (non si diventa “divina” per caso) superò e tornò a percorrere tutti gli stadi senza una regola, una progettualità. Sulle sue scelte artistiche influirono, meno che i dettami di più o meno occhiuti insegnanti, le sue vicende personali, le relazioni sociali, il “giro” dello star system. Non ebbe, però, un’esistenza spensierata, da ragazza. E neppure la consolazione di essere madre. Lei non ne parlò mai, ma da altre fonti si sa che a 37 anni ebbe da Aristotele Onassis un figlio, sopravvissuto appena poche ore dopo la nascita. Sulla sua vita si fondono aneddotica e riservatezza. Come per esempio i chili che lei, alta più di un metro e settanta e oltre il quintale di peso, in un anno di diete ferree riuscì a eliminare; si scrisse 25, 30 e persino 40 chili, ma ormai più nessuno potrebbe parlarne dando testimonianze dirette. Esistono memoriali e biografie, ma tutti privi della terzietà e del distacco necessari ad affrontare la ricostruzione di un percorso artistico e soprattutto di una vicenda umana “larger than life”.

Paradossalmente, forse, i racconti o le impressioni meno lacunose o deformate sono quelle più lontane nel tempo. Risalgono al marito Giovanni Battista Meneghini, un industriale e melomane più vecchio di lei di 32 anni, che agli inizi tanta parte ebbe nel promuovere la carriera della moglie, introducendola nel difficile mondo della lirica, dei direttori d’orchestra, dei direttori artistici, dei critici e di colleghi cantanti più anziani e affermati di lei.

 

 

 

 

Certo, non si può negare che il merito fosse soprattutto della cantante, ma è altrettanto indubbio che se non avesse avuto attorno a sé una rete protettiva in buona parte costruitale da Titta (così gli intimi lo chiamavano) la sua carriera avrebbe avuto un percorso meno sfolgorante. Dopo un corteggiamento ossessivo, che lo aveva totalmente assorbito emotivamente e professionalmente, Meneghini riuscì a convincerla a sposarlo. Il matrimonio, che sarebbe durato dodici anni, fu celebrato nel 1949 nella chiesa dei Filippini di Verona, ma col rito cattolico solo per lo sposo e con l’unica presenza della madre di lui, giacché Maria non aveva voluto abbandonare la fede ortodossa per convertirsi al cattolicesimo. La dedizione dello sposo verso la cantante era tale, che subito dopo le nozze preferì cedere l’azienda per dedicarsi completamente a Maria, come agente. Dopo le iniziali diffidenze, comprese quelle di critici importanti come Teodoro Celli, che poi divenne uno dei suoi più convinti estimatori, e Adolfo Celletti, reputato al tempo il massimo esperto di vocalità operatica che ci fosse in circolazione, le “tre Marie” seguitano a mietere successi. La Callas passa dai “pesanti” ruoli wagneriani (La Valchiria, Parsifal, Tristano e Isotta) alle leggerezze dei Puritani. Sembra che la sua laringe abbia una duttilità mai riscontrata prima in alcun artista lirico.

Sorprende ancor più che in tanta trasversalità e poliedricità di repertorio nulla o quasi avesse sottratto alla maniera “canonica” del canto e dell’emissione “all’italiana”. Del resto i suoi direttori erano maestri consacrati, che si chiamavano Victor De Sabata, Tullio Serafin, Vittorio Gui, Carlo Maria Giulini; o stranieri che dalla scuola italiana avevano saputo cogliere il meglio: Herbert von Karajan, Leonard Bernstein, Thomas Schippers, Georges Prêtre… I suoi compagni di canto formano il Gotha dell’arte lirica, in una stagione che probabilmente non si ripeterà più: Jussi Björling, per me il più grande tenore lirico di sempre, i bassi Cesare Siepi e Nicola Rossi-Lemeni, i baritoni Tito Gobbi e Gino Bechi, i tenori Mario Del Monaco (forse il più grande fra tutti i “drammatici”) e Giuseppe Di Stefano, tanto per citare alla rinfusa tra decine di artisti oggi considerati inarrivabili. Delle donne non sono molte quelle che possono sfidare la valenza artistica della “Divina”. Perché, come ho detto, non c’è un altro soprano “uno e trino” come lei.

 

 

 

 

Singolarmente, però, per ognuna delle “Marie” c’è chi ha uno stile di canto più puro, una emissione senza pecche, una intonazione che sfida il diapason. Parlo di Elisabeth Schwarzkopf, della “regina della coloratura” Mady Mespléne e, naturalmente, della grandissima Renata Tebaldi. Con lei nacque una rivalità rimasta leggendaria, che nessuna delle due avrebbe davvero voluto ma che, oltre al carattere notoriamente difficile della “greca”, come qualcuno anche la chiamava, fu soprattutto alimentata dai fan delle due artiste e dalla stampa di quegli anni.

 

 

 

Con la Tebaldi vale la pena ricordare un episodio che dimostra come tra queste somme artiste ci fosse stata anche una sorta di nemesi. In breve: dopo che Maria, a causa di una indisposizione vocale di Renata, fu chiamata a sostituirla alla Scala, il “tempio” milanese smise di scritturare la Tebaldi, che pure ne era stata la indiscussa primadonna. Lei, piuttosto che piatire un ritorno che avrebbe reputato umiliante, restò lontana da Milano per diversi anni, seguitando a mietere successi strepitosi nei teatri di mezzo mondo. Fino a che il 2 gennaio del 1958 qualcosa di simile successe a Roma, alla prima di Gala con la Callas nel ruolo di Norma, alla presenza del capo dello Stato Giovanni Gronchi.

 

 

 

 

Finito il primo atto, dopo un’attesa protrattasi per quasi un’ora, un altoparlante annuncia che, a causa di un calo di voce, la protagonista non avrebbe proseguito l’esibizione e che l’opera era sospesa. Nessuno, peraltro, aveva pensato a tenere pronto un’artista sostituta, come si fa normalmente, dato il carattere eccezionale della serata. Risultato: Gronchi e signora, palesemente irritati, lasciano il teatro; il giorno dopo tutta la stampa mette sulla graticola la cantante colpevole dell’affronto, per il quale si fanno persino indignate interrogazioni parlamentari. Giorni dopo, alla Scala, il nome Callas restò per una unica, irrimandabile, recita in cartellone e poi la soprano fu addirittura invitata a lasciare il teatro per salutare i fan, con il chiaro invito a non tornare più. Lei si dispiacque, ma poi superò l’onta immergendosi nel suo consolatorio bel mondo.

Tornando al rapporto con la Tebaldi, quelli erano anni in cui specie i rotocalchi svolgevano il ruolo oggi diventato, in modo molto più invadente e provocatorio, pane quotidiano delle televisioni. Ma erano comparazioni che non reggevano. Pur avendo fatto entrambe una sfolgorante carriera internazionale, Renata si muoveva in àmbiti artistici e personali più ristretti, soprattutto Verdi e Puccini (quest’ultimo non particolarmente gradito alla Callas) e, soprattutto, non amava il glamour; viveva nella discrezione, facendosi accompagnare nelle tournée, sino a che è vissuta, dalla onnipresente mamma e da una sarta divenuta sua amica. La Tebaldi era la cantante preferita da Arturo Toscanini, che l’aveva chiamata “voce d’angelo”, ma era l’antidiva per definizione. Renata era anche generosa nei suoi sentimenti; nel 1968, dopo una recita di una Callas ormai in forte declino, al Metropolitan nell’Adriana Lecouvreur, andò dietro le quinte a congratularsi con la collega, e fu la riconciliazione. Le due grandi, malgrado le diversità, avevano due cose in comune: ancora bambinette, entrambe erano passate indenni attraverso due esperienze potenzialmente mortali, la poliomielite che aveva colpito la Tebaldi e l’investimento di una automobile che a New York lasciò Maria in stato di coma per tre settimane. Nessuna delle due, poi, era riuscita a farsi una famiglia o ad avere un rapporto affettivo stabile e duraturo, a parte quello della Callas con lo sfortunato marito.

L’uomo che Maria avrebbe invece voluto e per il quale lasciò Meneghini fu l’armatore Aristotele Onassis. Col favore della comune origine ellenica, i due si conobbero a una cena del jet set, presente il disarmato marito di lei, parlando solo tra di loro e in greco per tutta la sera. Si rividero quasi due anni dopo sul panfilo dell’armatore, dove la Callas era stata invitata col marito e una serie di altri ospiti che comprendevano teste coronate e i più grandi finanzieri del tempo.

 

 

 

 

Ebbe allora inizio una relazione tanto clandestina da essere nota a tutta la galassia, meno – secondo tradizione – a Meneghini, che comunque fu presto informato dalla moglie della decisione di separarsi. “Ari” e Maria formano così una delle coppie più seguite dai paparazzi internazionali, anche se poi il tempo che possono trascorrere insieme è limitato a ciò che le loro vite, così movimentate e distanti, consentono. Però per i primi anni è un continuo ritrovarsi e riaccendersi di passione, in un contesto fatto di voli privati, panfili, serate di gala, fortune vinte e perse al casinò e altri eventi mondani nei quali non manca mai la giornalista americana e “pettegola” del jet-set Elsa Maxwell, bisessuale, che per anni avrebbe tentato di sedurre la Callas senza però riuscirvi. Nel 1960, quando comincia il declino artistico di Maria, l’evento che potrebbe far splendere la luce sulla sua vita si trasforma in tragedia, con la nascita di Omero, il bambino che vivrà solo pochi minuti per una crisi respiratoria neonatale. Il rapporto della “divina” con il miliardario, che tra l’altro non fa mistero di detestare o quasi la lirica, si sfilaccia sempre di più. La coppia è scoppiata da tempo, anche se la Callas spera sempre che possa riaccendersi l’amore, quando nel 1968 Onassis, a sorpresa, fa sapere al mondo intero del matrimonio avvenuto nella privata isola di Skorpios con Jackie, vedova del presidente John Kennedy. La cantante, distrutta nello spirito e in grave crisi per una forma di afonia che non le permette di cantare, trova consolazione con il poeta e regista Pier Paolo Pasolini, accettando di interpretare per lui Medea. Ma è un sollievo di appena pochi mesi. Dopo che Maria, finita l’esperienza sul set, si ritira a Parigi, pare che Ari vada segretamente a trovarla. Lei forse spera di nuovo che possano tornare insieme, quando la morte del figlio di Onassis, di 24 anni, fa precipitare l’armatore in uno stato di prostrazione e di isolamento dal mondo, aggravato da una malattia neuromuscolare di cui soffre da tempo e dalla quale non si risolleverà più. Nel 1973 la Callas, che nel frattempo ha approfondito l’amicizia col tenore Pippo Di Stefano, con cui in passato ha avuto numerosi trascorsi professionali, anche spinta dall’amico trova la forza di fare con lui un lungo tour di commiato, che si chiuderà l’anno dopo in Giappone. Dell’ultima tournée della Callas io ho un ricordo personale. A parte l’essere cresciuto in una casa di melomani, devo la passione per l’opera anche al fatto che nel 1974, precisamente il 21 febbraio, assistetti alla Massey Hall di Toronto al concerto di gala che Maria e Pippo avevano dato nella tappa canadese del tour. Mi aveva accreditato il giornale nel quale, ventenne, facevo i primi passi; la recensione di quel recital sarebbe stato il secondo articolo “vero” (e… remunerato!) della mia vita. A me quella serata, ricordo ancora, era parsa memorabile, ma oggi do per scontata una tara dovuta alla verde età e al fatto che mi sentissi “in compagnia” di due mostri sacri come la Callas e Di Stefano. Che insieme a me in quella sala ci fossero altre tremila persone o quasi lo giudicai, naturalmente, del tutto marginale. Comunque, per non rischiare di dare giudizi troppo entusiastici o ingenui, dopo una ricognizione nella zona riservata alla stampa chiesi a un vecchietto sui 50 anni, dall’aria distinta e competente, che cosa gli fosse sembrato. Lui, che in effetti era il critico dell’autorevole Toronto Star, ricordando che 16 anni prima la Callas l’aveva sentita al Maple Leaf Gardens, una struttura sportiva adibita anche come sala concerti, disse che Maria non era più la stessa, che aveva un vibrato troppo ampio specialmente nelle zone gravi, che gli acuti erano corti e i “passaggi” (di registro) faticosi. Insomma, soggette ad anni di tour de force e messe a dura prova da una vita sregolata le “voci” di Maria si erano usurate. Il critico disse anche che gli era sembrato assai poco saggio per un’artista del suo calibro tornare sul palco e rischiare di sembrare la caricatura di sé stessa. Gli occhi, in compenso, gli brillarono quando aggiunse che magnetismo e presenza scenica erano rimasti quelli della “Divina” e ciò le avrebbe fatto perdonare qualsiasi pecca. Quella sera di 50 anni fa, a parte alcuni duetti con Pippo, lei cantò solo tre arie, concludendo con “Suicidio”, dalla Gioconda di Ponchielli. L’anno seguente, col tour terminò anche l’amicizia con Pippo, guastata dalla reazione della moglie Maria Girolami, da cui poco dopo Di Stefano divorziò, che successivamente nel libro “Callas, nemica mia”, accusò il soprano di aver contribuito a mandare all’aria la sua unione con il tenore siciliano. Quegli anni furono i peggiori per la Callas, ormai quasi segregatasi nella sua casa parigina. Nel 1974 morirono suo padre e il maestro Tullio Serafin, che tanta parte aveva avuto nella costruzione della sua carriera.

 

 

 

 

Nel 1975 vennero a mancare Onassis e Pasolini. L’anno seguente anche un altro grande sodale, il regista Luchino Visconti. Gli rimaneva forse solo un amico, Franco Zeffirelli, suo coetaneo, che però non poteva strapparla alla sua solitudine. Il 16 settembre del 1976, a 53 anni, Maria, ormai divenuta solo il ricordo della cantante che era stata, morì nella sua grande e triste casa. Si disse per arresto cardiaco e il suo corpo fu subito cremato. Il marito, tanto più vecchio ma unico superstite e, sembra, suo erede, in un libro di memorie sostenne che fosse stata uccisa. Nessuno ha mai confermato tale congettura. A me è sempre rimasta l’impressione che la romanza da lei cantata a Toronto fosse una prova generale del suo spirito ormai stanco di penare.

 

Carlo GiacobbeGiornalista

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