Non solo nei kibbutz e a Gaza, i bambini sono le prime vittime

Il racconto - testimonianza di un giornalista che ha lavorato e vissuto in quei luoghi martoriati dalla guerra e dominati dall’incertezza continua.

Sembrano pochi giorni, ma sono già passati quasi due mesi dagli eccidi e dai rapimenti, che i terroristi palestinesi venuti da Gaza avevano pianificato da molto tempo, quasi certamente avvalendosi di aiuti esterni. Era il 7 ottobre, che nel calendario delle ricorrenze mobili ebraiche quest’anno faceva come da raccordo tra la fine del Succot, la festa delle capanne, e Simchat Torah, la “gioia della Torah”, che anche con canti e danze solennizza il completamento annuale delle letture sacre.

Ma quei morti del primo giorno di sangue ben poco avevano che vedere con i culti e le complesse ritualità ebraiche. Molti facevano parte di migliaia di persone, soprattutto giovani, arrivate da ogni parte di Israele e dall’estero per partecipare a un grande rave party. Altri erano abitanti dei kibbutz e delle cittadine vicino alla Striscia, genitori, bambini e nonni, sorpresi nel relax tipico dello shabbat, il fine settimana che si dedica alla famiglia. L’attacco, condotto con ruspe per abbattere recinzioni e reticolati, insieme a veicoli di ogni genere, compresi moto da trial e, dal cielo, parapendii, è stato preceduto da un diluvio di migliaia di razzi, quasi tutti intercettati dalla “cupola di ferro” israeliana.

Quegli ordigni servivano però a stornare l’attenzione dei civili e dei pochi militari presenti dalla penetrazione dei commando di miliziani di Hamas, del Jihad islamico e di altre organizzazioni marginali, oltre ad alcuni “cani sciolti” unitisi all’ultimo momento. Preferisco non ripetere nei dettagli gli episodi di efferatezza, anche contro bambini piccoli e anziani, di attivisti che in troppi hanno chiamato e seguitano a definire “guerriglieri” e con i quali c’è stato anche chi ha solidarizzato, ma che si sono dimostrati all’altezza dei peggiori macellai consegnatici dalla storia, nazisti in primis.

Come si sa, “sangue chiama sangue”, e la risposta di Israele, resa ancora più rabbiosa dalla frustrazione per non aver saputo prevedere o almeno fronteggiare in tempo reale il pogrom, è stata pari alla sua intempestività. Quello scatolone sabbioso di 365 km quadrati, dove da quasi 20 anni vivono ammassati più di due milioni di palestinesi, che non hanno potuto, saputo, voluto liberarsi dall’irreggimentazione imposta loro dal regime islamico, si è trasformato in un gigantesco poligono, al quale hanno preso parte con decine di migliaia di uomini tutte le armi combattenti di Tsahal, la potente macchina militare israeliana, ma soprattutto forza aerea e truppe corazzate.

A parte una tregua di qualche giorno, negoziata con la mediazione degli Usa, dell’Egitto e del Qatar per liberare alcune decine degli oltre 220 ostaggi israeliani ed evacuare feriti e popolazione civile di Gaza, centinaia di migliaia gli sfollati rimasti senza le loro case polverizzate dai bombardamenti, i miliziani continuano a rispondere con masochistica determinazione al tappeto di fuoco che li investe. Da lontano, senza sorprese, li incoraggia stolidamente l’Iran. Pur di nuocere alla “entità sionista”, il “piccolo Satana” tanto in odio agli ayatollah sciiti, Teheran da decenni finge di avere a cuore la sorte dei palestinesi, di superare le differenze (insormontabili) con i sunniti e di nascondere il complesso di superiorità che gli indoeuropei hanno verso gli arabi.

È evidente che l’attacco è stato pianificato anche pensando che dopo molti mesi di continue manifestazioni israeliane contro il premier Benjamin (Bibi) Netanyahu e il suo esecutivo – che oltre agli interessi personali di Bibi riflette quelli di una estrema destra sovranista ebraica ormai lontana dall’elettorato e concentrata sull’espansione degli insediamenti in Cisgiordania – si potesse colpire se non il cuore almeno i punti nevralgici dello Stato ebraico. Ma così non è stato.

L’aver effettivamente accusato il colpo, forse il più grave dalla fondazione di Israele 75 anni fa, non ha fatto che rimandare il “redde rationem” del premier e rendere nel contempo più implacabile la punizione israeliana. Il paradosso, peraltro, è che al principio Netanyahu aveva detto di voler annientare una volta per tutte Hamas e gli altri gruppi islamici, in continua alternanza tra i guerriglieri e i tagliagole. Di fronte alla determinazione del premier il popolo israeliano, anche il più severo e a giusto titolo critico del suo operato, non avrebbe potuto che approvare. Anche un Rabin, un Barak, un Olmert, messi con le spalle al muro da un atto come quello del 7 ottobre, avrebbero quasi di sicuro optato per il massimo uso della forza.

È notorio che, a parte i comandi ospitati da paesi fiancheggiatori come Iran, Libano, Algeria, Yemen e chissà chi altri ancora, molti capi e relative basi operative dei miliziani sono nascoste di proposito sotto scuole, ospedali, persino centri delle Nazioni unite e varie Onlus. Ed è altrettanto palmare (a parte la violazione dei codici militari che vietano simili mascheramenti, che a loro volta si traducono in ricatti cui il nemico non può soggiacere) che Israele non possa non dico fermare, ma neanche attenuare la propria offensiva. Ovviamente, come purtroppo mostrano tutti i giorni le televisioni di tutto il mondo, chi paga il prezzo più atroce è la popolazione civile. Alcune settimane fa, del resto, in molti avranno visto una intervista graziosamente concessa dal capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, a una emittente russa, in cui spiegava che mentre all’occidente interessa soprattutto minimizzare le perdite di vite umane, la priorità dei palestinesi è recuperare tutta la “loro” terra, indipendentemente da quale sia il costo per la propria gente. Ciò, se si legge lo statuto che Hamas è tornato a far circolare nei giorni scorsi, potrà avvenire soltanto quando Israele sarà stato ricacciato nel mare.

Allora qual è il paradosso cui accennavo sopra? Che se la morte di molte migliaia di civili e la distruzione di gran parte dei centri abitati della Striscia dovevano essere la conseguenza inevitabile del cinico e vano autolesionismo del regime islamico e della inesorabile inflessibilità di Israele, appare un tragico controsenso che mentre sono in corso le immani distruzioni per “sradicare una volta per tutte”, come aveva detto Netanyahu, i movimenti islamici ci siano in corso trattative volte a liberare (al consueto tasso di usura a favore dei palestinesi) almeno una parte degli ostaggi catturati il 7 ottobre in cambio della liberazione di detenuti arabi in Israele.

Appare grottesco immaginare che, dopo aver negoziato col nemico, indirettamente o no non importa, i capi di Hamas e del Jihad si consegnino a Israele o comunque gli lascino la possibilità di annientarli. Alla fine, dunque, tanti macelli e distruzioni (a cominciare dal pogrom di ottobre) non avranno prodotto che un’altra marea di profughi, altro odio che si aggiunge all’odio e che sedimenterà per altri decenni. A pensarci bene, a parte i piccoli tornaconti personali con cui forse si illude Bibi, è proprio questo che vogliono i movimenti islamici e i coloni, per i quali Gaza è solo uno strumento per consolidare ed espandere la loro presenza in Giudea e Samaria, oltre naturalmente che a Gerusalemme est, ormai quasi del tutto “espugnata”.

Confesso che la pena che provo di fronte ai civili nel loro complesso, che stretti fra la morsa dei capipopolo islamisti e il nemico israeliano non sanno più dove scappare e dove seppellire i morti, è attenuata quando penso che se in tutti questi anni avessero voluto avrebbero potuto prendere il loro destino nelle mani e dar corso a negoziati seri con le leadership israeliane davvero interessate alla pace, senza farsi guidare dai soliti burattinai che nascondono la parola “dio”, che così spesso (a differenza degli ebrei) amano pronunciare, dentro un’altra che sinistramente le somiglia, “odio”.

Ma il dolore vero, che prende alla gola e pesa sul cuore anche di un estraneo che ne abbia uno in petto, lo si prova per i bambini, migliaia di piccoli esseri incolpevoli, in balia di fatti troppo più grandi di loro e di adulti troppo imbelli o troppo feroci per essere degni dei loro figli. Adulti che per loro hanno deciso che mezzo metro quadrato di sabbia conta più che la vita di un figlio. Golda Meir, la grande premier di un Israele sempre in guerra, eppure forse oggi da rimpiangere, diceva che ai palestinesi poteva perdonare di aver ucciso i suoi figli, ma non di avere obbligato lei a uccidere i loro.

Una cosa è indubbia, che si creda o no nella sincerità di quella frase, in questi giorni evocata più volte, è certo che se Tsahal potesse compiere la sua opera di distruzione salvando miracolosamente i bambini lo farebbe. Ciò anche se al posto del cuore avesse un ingranaggio o un meccanismo di sparo. Perché quelle morti, anche a volerle considerare solo di riflesso, sono un vulnus per lo Stato ebraico. Un vulnus politico, tanto grave quanto però inevitabile.

Sono notti che torno col pensiero in quei posti dove ho vissuto e lavorato, avendo sperato anche io, tante volte, che un certo piccolo segnale potesse farsi chiaro e forte e marcare finalmente l’avvio della pace; c’è stato però sempre qualcosa, anzi qualcuno, che l’ha spento. Ora sono vecchio, lontano dal Medio Oriente, e non mi illudo di poter vivere così a lungo da vederlo pacificato.

L’immagine di quei piccoli morti mi insegue; certe notti mi toglie il sonno, mi impedisce di abbandonare la scrivania sino a giorno fatto. Allora mi metto le cuffie, per non disturbare nessuno; grazie alla musica, come una spirituale cura omeopatica, riesco a ritrovarmi sentendo i Kindertotenlieder, i Canti per i bambini morti, di Gustav Mahler, che musicò i versi composti dal poeta romantico Friedrich Rückert. È una composizione famosissima, di cui esistono molte versioni, sia per baritono sia per l’analogo registro femminile, mezzosoprano o contralto. Io fra tutte trovo sublime l’interpretazione di Christa Ludwig, diretta da Herbert von Karajan alla guida dei Berliner Philharmoniker. Note dolenti, a tratti struggenti, mai patetiche. Come spesso avviene con la grande musica hanno un potere evocativo e straniante insieme. Mi viene da pensare, da sperare, che i bambini siano passati dal sonno o dal gioco direttamente alla morte, senza dolore.

Penso anche allo Yad Vashem, il mausoleo di Gerusalemme dedicato alla Shoah e mi sembra di vedere il sacrario dei bambini. Un milione e mezzo quelli assassinati dalla furia bestiale. Il sacrario è una grande volta ipogea immersa nel buio, vi si scende tenendosi a un corrimano, quasi immersi in una miriade di minuscole luci, puntini luminosi che non rischiarano. Ogni puntolino rappresenta un piccolo ebreo ucciso. Che peso avrà avuto il figlio di un “untermensch”, un “subumano”? Oggi con la parità di genere si dovrebbe dire anche “unterfrau”, “una sottodonna” e “unterkinder” i bambini. Però, potenza della memoria ebraica, i loro nomi ci sono e vengono pronunciati uno dietro l’altro, un loop senza fine che non so quanti mesi impieghi per scorrere tutto e poi ricominciare, senza fermarsi mai. Dopo tutto, Yad Vashem vuol dire proprio questo, “un monumento, un nome”.

Per brevi istanti la musica cessa di coinvolgermi. Da Gerusalemme la mente vaga verso altri piccoli morti, che non hanno né avranno mai un sacrario. I bambini morti a Gaza, certo, ma non solo. Come in un terribile girotondo vedo altri piccoli uomini appena sfiorati dalla vita. E già, “in puero homo”. Vedo milioni di bambini, vittime delle carestie, della mortalità infantile nelle aree di mondi che per pudore noi ricchi chiamiamo con i numeri ordinali. Arrivano sino al quarto, ma è sicuro che potrebbero proseguire. Poi bambini uccisi da orchi che non stanno solo nelle fiabe e che noi chiamiamo pedofili, una colta parola greca che suona quasi come un complimento. Bambini vittime di naufragi, che talvolta annegano in un metro d’acqua, a pochi passi dalla salvezza. Bambini ammazzati da chi li usa per vendette trasversali, fa poca differenza se di mafia o di amori che in realtà sono mostruose forme di possesso.

Tutti mi balzano davanti agli occhi, come se avessi avuto la disgrazia di vederli. Ma è la mia immaginazione. Intanto le note di Mahler si susseguono e quella orribile astrazione dalla musica finisce. Torna, consolatorio, l’ascolto del quinto Lied. Comincia come gli altri in minore, ma non è disteso; manda corruschi lampi di tempesta e l’ostinato grave degli archi, violoncelli e contrabbassi, che a un tratto esplodono in un fortissimo. Poi però tutto si acqueta, la tempesta è finita e non può più incutere paura. Anche la voce si tace e il brano finisce con una umbratile cadenza in maggiore, quasi una ninnananna. Finalmente i bambini morti, pacificati, dormono e io, con loro, prendo sonno.

 

Carlo Giacobbe – Giornalista, già corrispondente dal Medio Oriente, ha scritto a l’altro “Il sionista gentile”, con corredo di canzoni per bambini

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