Un inusitato fervore sembra infiammare alcuni protagonisti del “centro” (inteso come spazio politico, s’intende, e non come riferimento topografico) in queste giornate di gelo targato 2025. In verità si tratterebbe di evergreen del centro incistato nel PD o ad esso adiacente, con il repertorio classico di padri nobili come Prodi e Castagnetti, e figli in attività di servizio, come Del Rio e Guerini, piuttosto che di re-union generaliste, più larghe e ambiziose che non sono nelle intenzioni.
Nella prima fila viene sospinto verso qualche lucore mediatico anche l’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate, l’ottimo dott. Ruffini, che verrebbe proposto come federatore nell’ipotesi di ampliamento dell’area, pronto a rappresentare il primo caso al mondo di uomo delle tasse capace di raccogliere, in ragione –fino ad oggi– soltanto della sua professione, un vasto consenso popolare, probabilmente in forza del noto e incontenibile desiderio degli italiani di empatizzare con funzionari apicali delle Tasse. Al fervore “cattocomunista”, come si diceva un tempo, risponde nelle stesse ore quello tajaneo da Caltagirone che, in un teatro affollato da combattenti e reduci di una democristianità d’antan, ricorda Don Luigi Sturzo ammonendo che se si parla di centro questo è uno solo: quello di Forza Italia. Ma no? Tacciono per un giorno Renzi e Calenda, Lupi e Rotondi e gli sparsi centrini che incastonano qua e là un lungo tessuto, interminabile come certi abiti sontuosi delle donne nell’ultimo film di Ozpetek . Sorge spontanea la domanda: ma davvero c’è qualcosa che si muove nella mitica “terra di mezzo” della politica italiana, al punto da lasciare immaginare l’avvento di un nuovo soggetto politico centrista?
Un centro moderatore
Che ci sia bisogno di centro moderatore, in una scena politica che sembra allestita dalla sceneggiatura di qualche film americano sul Viet Nam, dove il conflitto tra destra e sinistra è brutale e senza quartiere, poggiato non sulla dialettica necessaria e salutare tra maggioranza e opposizione, ma sul desiderio di detronizzazione dell’avversario raccontato da linguaggi guerreschi, sembra più che evidente. Che però questa evidenza, che emerge persino dai sondaggi più avvertiti, non trovi il chi e il come, appare altrettanto chiaro. Un mese fa Mannheimer raccontava su Italia Oggi l’ennesima esegesi demoscopica sulle preferenze elettorali.
Scriveva il collaudato sondaggista che, pur essendo oggi prevalente la quota di elettori che si definisce di centro-destra (34,7%) quelli che si considerano di destra tout court sono solo il 13,6% mentre il 21,1% di quest’area si riconosce meglio nella definizione di centro-destra. Così è pure dall’altra parte della politica: se gli elettori che si percepiscono di sinistra/sinistra sono il 12,1%, quelli che si collocano nel segmento del centro/sinistra sono il 20,1%: totale 32,2, ma solo perché c’è quell’essenziale completamento centrista. Per esaurire il quadro ci sarebbe un 21,3% che non si sente né di destra né di sinistra e un 9,1% che dichiara esplicitamente di sentirsi parte di un centro.
Altri numeri
A voler giocare coi numeri avremmo una prevalenza assoluta di centristi, parrebbe al 50,3% e un ulteriore possibile bacino di attingimento (quel 21,3% che sicuramente non si sente né di destra e né di sinistra): mica male per un partito che non c’è… È vero: mai come in questo passaggio storico gli elettori sembrano manifestare un bisogno di politica non urlata, ancorata a progetti e a competenze, una politica che superi l’orizzonte gracile della campagna elettorale e si faccia “cura del bene pubblico”. Il problema, però, non è quello della mancanza delle formazioni politiche ispirate ai valori del Centro, ma che ce ne sono anche troppe. Ma si tratta di micro-formazioni che vivono riscaldate dal fuoco del leader, seguendone gli umori i destini e il pericolo di prendere fuoco con lui.
Insomma: il Centro non può vivere con micro-Cesari in una costellazione allo stato gassoso. Poi c’è un altro enorme problema: lo sguardo costantemente rivolto alla Balena Bianca in cui per 45 anni si è identificata la maggioranza degli italiani porta ad uno strabismo che nuoce a chi osserva e umilia la memoria del più grande partito democratico che l’Italia abbia avuto nel ‘900. È materia di studio, di pensieri riconoscenti per chi l’ha potuta votare e che non è oggi certamente un giovane elettore ma una persona che ha come minimo superato le cinquanta primavere.
Parlare di centro oggi significa guardare alle culture liberali, laiche, socialdemocratiche, provenienti dalla tradizione cristiano-sociale,concepire un’idea condivisa di europeismo e molto ancora, soprattutto nella sfera dei nuovi diritti (l’ambiente, le nuove generazioni, la privacy, le tecnologie digitali, eccetera), ma è anche l’adesione ad un metodo di azione politica, che rifugge la violenza delle parole e persegue la civiltà nei rapporti nella dialettica tra diversi.
Come ricorda Paolo Pombeni in un suo recente saggio pubblicato dal Mulino sull’eterno ritorno del dibattito sul centro, e come ci ricorda anche la comparazione con gli altri sistemi politici in Europa, il “Centro” può esprimersi in due modi: o con un unico soggetto, secondo l’inarrivabile modello della DC italiana o dei centristi tedeschi e, con risultati decisamente meno scintillanti, delle formazioni macroniane in Francia, oppure, nei paesi dove prevale la logica maggioritaria, con la presenza di due soggetti, uno a destra e l’altro a sinistra, chiamati a stemperare il conflitto e a consentire un confronto civile nell’alternanza democratica. Non è detto, poi, che i due centri non riescano a sperimentare una via di ricongiunzione in corso d’opera.
La condizione fondamentale, in entrambi i casi, è uscire dal pulviscolo stellare di troppe autoreferenze con dietro popolo scarso o soltanto virtuale, e incontrare gli altri pezzi. Ci saranno meteoriti, materiali consumati che galleggiano nell’atmosfera, detriti, ma anche cose buone, sane che possono essere utili a riannodare il filo di un discorso. Sul versante destro sembrerebbe che Forza Italia in qualche modo ci stia provando. Dall’altra parte sembrerebbe ancora un rimestio tattico alla ricerca di posizionamento. Il che non gioverebbe neppure alla contendibilità dell’area di centro-sinistra, e dunque alla dialettica democratica complessiva.
Pino Pisicchio – Professore di Diritto Pubblico comparato. Deputato in varie legislature, già presidente di Commissioni parlamentari, Sottosegretario. Saggista