La percezione del tempo tra guerre, papi, politici e calciatori

Vari giri sulla giostra del tempo attraverso avvenimenti più o meno recenti degli ultimi anni

Ah, la percezione del tempo. C’è molta confusione nella mia testa e ci sono momenti in cui mi pare di non raccapezzarmi più. Pensavo che ormai fossimo entrati a pieno titolo nel 2023, provando, confesso, un intimo compiacimento. Per me, e credo per molti altri, il ’22 è stato un annus horribilis e pur essendo io agnostico ma non per questo poco superstizioso, dentro di me l’avevo battezzato un “bisesto ad honorem”.

Invece, con l’inconsapevole complicità di Vladimir Putin, ho scoperto che il vecchio e incallito ’22 è ancora vivo e purtroppo lotta insieme a loro (“loro” chi? Ah, saperlo!) Nei giorni scorsi molti cremlinologi/criminologi, tanto esperti quanto lo sono certi autonominatisi virologi o allenatori di calcio, discettavano che lo spiritualissimo Putin aveva sorpreso il suo popolo e gli osservatori astenendosi dal celebrare il Natale. Ciò era stato letto come un presagio nefasto per le sorti della guerra. Il poveretto, invece, si era attenuto semplicemente ai fatti; e per chi come gran parte degli ortodossi invece del calendario gregoriano si basa tutt’ora su quello stabilito molti secoli prima da Giulio Cesare, il Natale è arrivato il 7 gennaio; tanto è vero che in Russia e in varie nazioni cristiane orientali il Capodanno si è festeggiato la notte tra il 13 e il 14 gennaio.

In tutto questo, sono sempre più perplesso. In che secolo siamo e, se è per questo, in che millennio? Parecchio tempo fa qualcuno aveva spiegato che visto che il tempo è comprimibile eravamo già da parecchio dentro il XXI secolo e, quindi, anche nel terzo millennio. Tanto è vero che tra i secoli il Novecento, come Pipino, era stato definito “breve”. Le cose però seguitano a non quadrarmi. Se il XX era stato un secolo così breve, come si spiega che ci siamo ancora dentro? Io sarò pure affetto da un accesso di senilità, ma stavolta, scusate tanto, non credo di sbagliarmi. Avevamo inventato le Nazioni Unite, staccato la spina non a un povero malato ma a una nefanda malattia, la “guerra fredda”; istituito linee telefoniche dedicate, attraverso cui dei bravi interpreti potevano far comunicare tra loro gli occupanti (più o meno abusivi, ma queste sono sottigliezze) di Cremlino e Casa Bianca; avevamo dato vita a una serie di programmi per la riduzione degli arsenali atomici; impedito il dilagare di conflitti tra consanguinei come le Coree e i Vietnam o mezzi parenti come India e Pakistan… Insomma, pacificato il pianeta.

 

Oddio, proprio pacificato no, visto che nel “totosangue” mondiale non si è mai scesi sotto a una trentina di conflitti, tra alta, media e bassa intensità. Attualmente tale numero va quasi raddoppiato. Ma quelli, eccezion fatta per cinque o sei guerre su vasta scala, col coinvolgimento di più di due nazioni e l’impiego (per ora, fortunatamente, solo teorico) di strumenti di distruzione di massa, erano e sono scontri locali tra soggetti belligeranti destinati a essere ignorati: una ventina o poco più in Africa, una quindicina in Asia, e le altre in Medio Oriente, in America latina e nel resto del mondo.

Ma si parla di nazioni marginali di cui la gente comune si ricorda solo quando ne vede i nomi stampati sulle carte geografiche. Paesi così negletti i cui morti, “appena” 50 o 60 mila all’anno complessivamente, pesano molto meno delle ragioni per le quali quei conflitti si scatenano per poi trascinarsi quasi nell’anonimato. Escluse le guerre per dispute di aree minerarie ricche di giacimenti di metalli rari, cruciali per l’industria di microchip e telecomunicazioni, le contese sono spesso “di principio”, talvolta per pochi chilometri quadrati di territori in sostanza analoghi tra loro, la cui distribuzione oggetto del confronto risale a quando erano colonie, con ripartizioni non di rado arbitrarie fatte dalle cosiddette grandi potenze europee. Ma allora, non sarà che quel “secolo breve” dev’essere stato ben più elastico di come è stato descritto nel fortunato titolo dello storico britannico Eric Hobsbawm, se in causa sono ancora assetti geografico-politici immediatamente post-coloniali?

Eric Hobsbawm

 

Se si considera la più dissennata delle guerre in corso, quella scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina, evocata quotidianamente dai filmati dei telegiornali e dagli speciali televisivi, tornano scenari che le attuali generazioni avevano conosciuto soltanto dai libri di storia sulla Seconda guerra mondiale. Un tuffo nel passato che risale a quando il secolo breve che non finisce mai era appena di mezza età. Si documenta in diretta la distruzione di migliaia e migliaia di caseggiati, opifici, scuole, stabilimenti, con l’annientamento di molte decine di migliaia di persone che in quelle costruzioni sbriciolate, calcinate o annerite dal fuoco abitavano, studiavano (molti erano i bambini), lavoravano.

Sembra impossibile, ma è come se per una incongrua bizzarria del caso si materializzassero scenari sfuggiti ai film luce di 80 anni fa. Forse non siamo a Kiev e in altri luoghi dell’Ucraina, che sino ad ora erano ignorati e dai nomi quasi impronunciabili. Ma ci troviamo a Coventry, città inglese, obliterata nel 1940 come fosse un biglietto usa e getta del tram.

O a Londra, dai bei palazzi vittoriani sconciati più e più volte dai bombardamenti e dalle V-2 del baffuto criminale, con la sua corte di piccoli criminali gregari e mascelluti. O a Dresda, ad Amburgo, a Berlino, dove si consumò, con larghezza di interessi, la albionica (e sacrosanta) vendetta. Un tuffo nel passato che per i novantenni (non pochissimi) sopravvissuti e temporalmente elastici dev’essere sembrato l’aggiornamento di un incubo. Un incubo, difficile da immaginare, che nel loro piccolo (molte migliaia di morti, centinaia di migliaia di edifici distrutti) aveva richiesto un pesante tributo anche a Roma, a Napoli, a Milano, assieme ad ogni città portuale o industriale d’Italia, brutalmente centrata dalle bombe (amiche? nemiche?) degli Alleati, interessati più a colpire e sbandare la resistenza tedesca che alla salvaguardia di una popolazione in forte maggioranza già dissociatasi dal nazifascismo e già trattata dall’ex alleato come nemica e traditrice.

Insomma, il XX secolo non è del tutto breve né sempre lungo. È ancipite e per questo l’ho chiamato elastico. Come il tempo, che in certe circostanze e in determinati momenti sembra a noi senzienti essere sempre troppo lungo o troppo corto; mai giusto. Ripensando alle bombe cadute su Roma (ma le bombe, a voler essere precisi, non cadono da sole, vengono lanciate con stolida determinazione) mi è venuto in mente che la Città eterna ebbe quasi intatti i suoi tesori artistici e architettonici. Se, con uno dei salti che la mia mente vieppiù confusa compie, alla cloche dei bombardieri al posto degli statunitensi e degli inglesi ci fossero stati i tedeschi le cose sarebbero andate di sicuro peggio; ma peggio ancora se al posto dei tagliagole nazisti ci fossero stati i tagliagole dell’ISIS in sinergia con i loro cloni di Al Qaeda. Che, se hanno fatto saltare con la dinamite tutti i templi preislamici di cui hanno potuto prendere il controllo, si può ipotizzare lo scempio che avrebbero perpetrato nella città più sacra per gli infedeli cristiani, Roma. Ma qui siamo nel campo delle congetture; anzi, della distopia. Ciò non mi aiuta a fare chiarezza.

Vorrei sapere da dove Karl Marx abbia preso l’idea che la Storia si presenta dapprima come tragedia per poi ripetersi come farsa. Seguitando a evocare teatri bellici, mi sovviene la tragedia di Varsavia, che sembra essere il modello “ideale” per una replica in salsa ucraina, come direbbero con una cinica battuta il buon patriarca Cirillo, o il comandante in capo delle operazioni militari russe in Ucraina Sergej Surovikin (affettuosamente soprannominato “generale Armageddon”) o qualche altro tirapiedi di Putin.

Putin

 

È forte la confusione nella mia testa ormai canuta e non vi mancano gli incubi in uno strano mélange spazio-temporale. Uno mi ha còlto dopo aver letto, mentre anni fa visitavo Varsavia, i particolari del rapporto avuto con gli invasori nazisti. Che dopo molti mesi di stragi, repressioni, torture e razzie, prima in occasione della rivolta del ghetto ebraico e poi dell’occupazione globale della capitale polacca, protrattasi per un anno e mezzo, al principio del 1945 se ne andarono lasciando graziosamente a mo’ di commiato molte tonnellate di tritolo con cui l’85 per cento del centro della città fu fatto saltare. Ma ci fu chi li superò.

Furono alcuni reparti formati da disertori russi passati ai nazisti, che nella città invasa si macchiarono di atti disumani talmente brutali che, secondo quanto scrive lo storico Max Hastings in Armageddon (nessuna attinenza con “il macellaio di Aleppo”, altro nomignolo del sunnominato Surovikin) un colonnello della Wermacht, disgustato da tanta efferatezza, fece fucilare uno dei loro capi. Certi resoconti che adesso vengono dall’Ucraina sull’azione dei mercenari al soldo dei russi non mi pare che differiscano molto. Ancora non basta. In un ennesimo cambio di scena a ritroso nel tempo, ci sono stati altri russi, stavolta agenti segreti dell’URSS, che senza interferire nella ritirata nazista da Varsavia ne hanno approfittato per finire quelle stragi di cittadini polacchi che i tedeschi in fuga avevano lasciato incompiute.

Del resto un altro baffutissimo leader supremo, il Piccolo padre di tutte le Russie Iosif Stalin, nell’ordinare la liquidazione di più polacchi possibile aveva ricordato alla sua cerchia di fedelissimi che è più facile far diventare comunista un cavallo piuttosto che un polacco.

A proposito di polacchi e di comunisti, è dei giorni da poco passati la notizia di un altro segmento di Ventesimo secolo che si è spento. Il papa emerito Benedetto XVI era stato uno “sherpa” del Concilio Vaticano secondo indetto da Giovanni XXIII ed era stato creato Cardinale da Paolo VI. Giovanni Paolo II, il papa polacco, volle Joseph Ratzinger come stretto collaboratore, nominandolo Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Karol Wojtyla e il cardinale tedesco ebbero un rapporto di amicizia, sebbene le loro personalità fossero diversissime, come altrettanto diversi sono stati i caratteri di Ratzinger e di Jorge Bergoglio, il papa argentino suo successore.

Nella contiguità delle loro personalità, il secolo si è dimostrato davvero elastico. Il polacco ossessionato dal comunismo reale dell’URSS; il tedesco, dalla natura più spirituale e umbratile, dalla secolarizzazione e dal relativismo delle società contemporanee.

Ratzinger, che come papa emerito è vissuto nove anni vicino ma mai in sovrapposizione del successore Francesco, dai pontefici che lo hanno preceduto e seguito ha ricevuto grande stima e affetto. Entrambi gli riconoscevano una profondità e probabilmente una superiorità di pensiero che ne ha fatto un esemplare uomo di dottrina e un faro epocale di cultura non solo teologica. Ora è rientrato nella storia da cui, forse suo malgrado, la natura si ostinava a non farlo entrare a pieno titolo in quanto vivente. Era ammirato e rispettato anche da molti che pur non essendo credenti sono stati quasi soggiogati dalla raffinatezza spirituale da lui posseduta in sommo grado. Se fosse proclamato dottore della Chiesa, pur da agnostico quale sono, ne sarei felice.

Da una religione del Libro all’altra. “Kairos”, il tempo comprimibile o dilatabile cui fa da alter ego “chronos”, quello scandito dalle lancette degli orologi e dalle pagine dei calendari, sembra giocare anche nella più giovane delle nazioni industrializzate, Israele. Che dopo l’insediamento del nuovo governo presieduto da Benjamin Netanyahu resta sempre (fino a prova contraria) l’unica democrazia compiuta del medio Oriente, ma lo è, per così dire, a scartamento ridotto.

La nazione degli ebrei, nata tre anni dopo la fine della Seconda guerra col beneplacito di quasi tutta la comunità internazionale eccetto naturalmente i paesi arabi e islamici, era un modello di solidarietà politico-sociale di matrice laburista, la corrente maggioritaria del sionismo, elemento fondativo del nerbo del nuovo Stato ebraico. Là dove “ebraico” richiama l’idea di popolo in forma molto più essenziale che non quella di religione.

Netanyahu, proveniente da una famiglia di intellettuali laici di origine aschenazita e cresciuto tra gli Usa e Israele, era stato per la prima volta capo di un governo del Likud, conservatore, dal 1996 al ’99. Ora, sopravvissuto a ogni genere di crisi e mentre si attende ancora l’esito di alcune delle azioni giudiziarie promosse a suo carico per diversi capi di imputazione (concussione, illeciti di vario tipo, corruzione, ecc.) è entrato in carica per la sesta volta come capo dell’esecutivo. Il Novecento per lui non accenna a finire.

Non mi ha aiutato a diradare la nebbia sempre più fitta che ottunde le mie percezioni temporali l’essermi soffermato sulla situazione in Brasile. In coincidenza con l’anno appena iniziatosi, il gigante latino-americano ha vissuto due momenti che sembrano la dimostrazione che l’elasticità è l’unica sintesi possibile tra chronos e kairos. A noi poveri uomini fallibili non resta che auspicare una simile plasticità all’interno della nostra materia grigia, messa costantemente a dura prova, e che in mancanza di evidenze migliori è per noi l’unica sede, grande o piccola che sia, dell’anima e del pensiero. Dopo una fiammata di autoritarismo e di un militaresco codinismo da far impallidire certi personaggi creati dalla penna di Jorge Amado, Jair Bolsonaro, un presidente degnissimo collega (e amico) dello statunitense Donald Trump, è finalmente uscito di scena.

Al suo posto, dal 1º gennaio, si è insediato per la seconda volta Inácio Lula. Bolsonaro sembrava la prosecuzione del XX secolo, che quando era cominciato aveva visto la fine della schiavitù da soli 12 anni. Negli ultimi decenni il paese aveva recuperato in fretta, crescendo anche come potenza industrializzata, sebbene non privo di sperequazioni sociali, solo in parte superate dalla prima amministrazione Lula. Con Bolsonaro, però, il Brasile sembrava essere ripiombato nel Novecento tra le due guerre. Oggi, chronos ha riavuto il suo.

Non però nell’altro avvenimento che, forse più del nuovo presidente, per il quale una larga parte della popolazione nutre indifferenza, ha polarizzato l’attenzione e le emozioni di tutto – letteralmente tutto – il popolo brasiliano: la morte di Edson Arantes do Nascimento. Pelé in Brasile era solo la cosa più importante che l’antica colonia portoghese avesse mai avuto. La “perla (nera)” della corona, modello e ispirazione per ogni “garotinho” dei 26 stati brasiliani, nonché esempio di uomo e di sportivo. Altro che “pibe de oro”.

 

A parte i record calcistici ineguagliati, Pelé non ha mai spacciato la sua mano furtiva per quella di un dio, peraltro insopportabile per chi non è un fan del pallone. Pelé è tornato nel XX secolo, che ha contribuito a riscattare, prima che altri, non sul campo di calcio ma nella politica, provassero a rovinarlo. A un Cristiano Ronaldo o a un Lionel Messi potranno forse seguire fuoriclasse altrettanto bravi o, forse, anche di più, ma un altro Pelé non ci sarà. Col suo funerale, per quanto riguarda lo sport più diffuso nel mondo, il secolo “elastico” adesso è davvero finito. Chissà il nuovo quanto durerà.

 

Carlo Giacobbe – Giornalista. Già corrispondente dalle Capitali di vari Paesi in vari Continenti

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