La Dc non è stata solo un partito di leader ma anche molto organizzato. Con quadri dirigenti su tutto il territorio. E con il sostegno del collateralismo

Pubblicato e presentato il libro di Maurizio Eufemi, Una storia mai scritta, Roma 2023

Il libro contiene interviste a importanti esponenti di seconda fila della Dc, di ogni regione italiana. Quasi tutte le conversazioni sono state pubblicate, a puntate, durante gli ultimi mesi,  da beemagazine.

Ora lette in sequenza e in volume, offrono un quadro significativo della storia della Democrazia cristiana, partendo dal movimento giovanile, che è stato dalla fondazione della Dc un serbatoio, una scuola, una fucina da cui è emersa in maniera importante la classe dirigente del partito.

 

Calogero Mannino

 

La presentazione, nella Sala Capitolare del Senato, diffusa attraverso il canale web di Palazzo Madama e le onde di radio Radicale, è stata fatta da Giuseppe  Gargani, presidente della associazione parlamentari emeriti, da Mario Tassone, da Marco Follini, che è stato segretario del movimento giovanile della Dc prima di approdare ad altre formazioni politiche, con la scomparsa dello scudocrociato; da Calogero Mannino, più volte ministro e uno degli intervistati nel libro; e da relatori laici come lo storico Francesco Malgeri e lo studioso della società Giuseppe De Rita, entrambi stimati amici di Gerardo Bianco, che hanno impreziosito l’incontro con relazioni di grande rilevanza.

 

Giuseppe Gargani

 

Marco Follini

 

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Facciamo il punto con l’autore del libro

Giuseppe De Rita – ha sottolineato Eufemi – nella sua splendida vitalità di novantenne che nuota nella società, così come gli aveva suggerito di fare Tommaso Morlino, grande ispiratore e realizzatore degli enti rurali di sviluppo chiedendogli di abbandonare la programmazione, ci ha indicato gli elementi essenziali di un partito: la macchina, lo strumento culturale e un luogo di confronto come la rivista; gli uomini e le donne interni non esterni che alimentano il funzionamento del motore. Inoltre il collateralismo, quello delle organizzazioni che sposano il progetto culturale e politico.

De Rita ha ricordato l’episodio di Mons. Montini che oltre la tela ideologica tessuta con Paronetto e Papa Pacelli si preoccupava di dare una macchina e una busta di denari a Carretto e a Maria Badaloni per costruire la rete dei Maestri Cattolici nel Mezzogiorno così come quella della Coldiretti. Un episodio di grande significato su cui meditare.

A Francesco Malgeri – ha poi aggiunto Maurizio Eufemi – ho rivolto l’invito a completare la sua magistrale storia della Dc, oggi in cinque volumi, con un sesto che prenda in esame il periodo del 1992-94, quello contestato della chiusura del partito. È ancora giovane per potere definire e realizzare il programma obiettivo.

 

Francesco Malgeri

 

Eufemi ha poi annunciato che l’incontro di presentazione del libro è da considerarsi propedeutico a quello che con Luciano Benadusi si sta preparando a fine settembre, sui giovani e la politica sia nei movimenti giovanili sia nelle riviste culturali in fine settembre e che sta già suscitando molto interesse. Dunque una estate di riflessione e di lavoro.

L’intervento dello storico Francesco Malgeri. Un ricordo di Gerardo Bianco

Riproduciamo la relazione dello studioso nella sua interezza, sia per il suo intrinseco valore politico e storico, sia perché contiene un significativo ricordo di Gerardo Bianco, che è stato per anni presidente dell’Associazione degli ex parlamentari. Eufemi contava di chiudere il ciclo di interviste con una conversazione con l’indimenticato capogruppo dei deputati Dc, insigne latinista, ministro della Pubblica Istruzione, segretario e presidente del Ppi, scomparso nel dicembre dello scorso anno.

Non posso dare inizio al mio intervento senza spendere alcune parole in ricordo di Gerardo Bianco, al quale Maurizio Eufemi ha voluto dedicare questo volume. Gerardo Bianco è stato un democristiano, un parlamentare, un uomo di cultura, un meridionalista, una figura carica di umanità e di intelligenza politica, che ha speso la sua vita al servizio del Paese, richiamandosi ai valori che sin da giovane aveva assorbito alla scuola di quel cattolicesimo democratico che, da Sturzo a De Gasperi a Moro, ha svolto un ruolo di primo piano nella costruzione della democrazia e nello sviluppo economico e sociale del paese.

Bianco sentiva fortemente l’esigenza di una lettura serena e obiettiva della storia dell’Italia repubblicana e del ruolo che la Democrazia cristiana aveva esercitato nell’arco di mezzo secolo, nel quadro di un sistema politico basato sui partiti, espressioni di culture, ideologie e personalità diverse, ancorati ad una storia e ad un pensiero.

Per questo non si riconosceva nei partiti personali, rappresentati dalla figura di un leader, senza storia e senza una cultura politica. Nella Premessa al suo volume La parabola dell’Ulivo, scrisse che nel 1994 si ebbe una “scelta demonizzante della storia repubblicana, sintomo di una scadente visione politica, miope nella sua prospettiva”.

A suo avviso il successo dei partiti che vinsero le elezioni del 1994 si fondò su “una sbrigativa condanna della prima Repubblica, accusata di consociativismo, cioè di subordinazione ad una inesistente deriva social-comunista, invece di essere riconosciuta come costruzione di una solida democrazia, che aveva ricomposto le grandi iniziali fratture ideologiche e politiche, con l’accettazione, condivisa anche dagli originari partiti antisistema, della cultura europeista e delle democrazie occidentali”.

“I giudizi a volte aspri o addirittura derisori che, soprattutto a livello mediatico, sono ricorrenti sulla Democrazia cristiana, gli apparivano non solo ingiusti e ingenerosi, ma anche con evidenti limiti culturali. Si tratta di giudizi che ignorano la storia politica della Repubblica, dimenticando quanto, in quegli anni, le forze politiche, ciascuna per la propria parte, hanno realizzato importanti risultati, anche grazie ad una grande partecipazione dei cittadini alle vicende politiche”.

Non va dimenticato il cammino compiuto dal paese nella seconda metà del secolo scorso, l’avvio di uno sviluppo economico che ha permesso per lunghi anni una esistenza serena ad una gran parte di cittadini, superando profonde sacche di miseria ereditate da quasi un secolo di storia nazionale.

Per questo Gerardo Bianco insisteva sull’esigenza di “ritessere una trama che restituisca alla politica il suo ruolo, è necessario – scriveva – recuperare una serena memoria storica del passato, che individui lacune e sconfitte, ma anche le notevoli positività trasmesse e da riproporre come cardini di un sistema democratico che ha resistito anche al cambio di direzione politica del paese e alle convulsioni che ne sono seguite”.

Possiamo dire che il libro di Maurizio Eufemi risponde pienamente alla esigenza sollecitata da Gerardo Bianco. Si tratta di un libro che ha il merito di proporci una originale lettura della storia della Democrazia cristiana, attraverso i diversi percorsi di personalità ed esponenti che sono stati protagonisti della storia del nostro paese, nel governo, in Parlamento, nelle amministrazioni locali, nell’associazionismo cattolico, nel sindacalismo e nel movimento giovanile.

 

Maurizio Eufemi

 

La formula delle interviste, adottata da Eufemi, ci aiuta a ripercorrere, sul filo della memoria e sulla base di riferimenti a vicende e a persone, la storia di una partecipazione alla vita politica e sociale del nostro paese da parte di democristiani che operarono attivamente, con passione e con eccellenti risultati sia sul piano nazionale sia a livello locale.

Tra le molte voci offerte da queste interviste, vorrei ricordare l’intervista a Guido Bodrato, che recentemente ci ha lasciato e che resta una delle figure più significative nella storia del partito e nella storia del Paese.

Con questo libro siamo di fronte ad un racconto che ripercorre momenti importanti nella vita del partito e che ci aiuta a capire come la Democrazia cristiana nella sua lunga storia non sia stata un semplice collettore di consenso elettorale, ma anche espressione di una cultura, di un pensiero e di partecipazione convinta di classi sociali appartenenti al mondo del lavoro, delle professioni, dell’imprenditoria, che ha qualificato la fisionomia interclassista del partito.

Una fisionomia che Carlo Donat-Cattin descrisse efficacemente intervenendo alla Camera, il 12 agosto 1979, spiegando la natura articolata e complessa del suo partito: “Siamo cresciuti nel solco tracciato per faticosi decenni nella gleba dell’Italia contadina, tra le minoranze cattoliche dei quartieri operai e degli opifici di vallata della prima e della seconda industrializzazione, nel popolo minuto dedito all’artigianato e al commercio, nella schiera interminabile di educatori, intellettuali, uomini di pensiero, nella più ristretta schiera di imprenditori, di scienziati, di ricercatori chiamati alla vita sociale dalla ispirazione cristiana. Siamo popolo nell’accezione sociologica, chiamato alla politica secondo una spinta partita dalla base del mondo cattolico, alla conquista di una dimensione laica”.

La Democrazia cristiana fu un partito complesso, con le sue articolazioni interne, caratterizzate dal sistema delle correnti, che furono presenti anche in altri partiti, ma che costituirono indubbiamente un tratto distintivo del partito dei cattolici. Siamo di fronte ad un arcipelago di gruppi, dentro il grande partito di ispirazione cristiana, che ha funzionato come un contenitore di esperienze e sensibilità durante i primi sessant’anni della storia repubblicana. Essere democristiani significava essere anche fanfaniani, forlaniani, demitiani.

Oppure dorotei, morotei, gavianei. Associati per appartenenze geografiche o per fedeltà al proprio leader. Nel suo ultimo e ben noto discorso ai gruppi parlamentari nel febbraio 1978, Aldo Moro aveva ammonito: «Siamo importanti, ma lo siamo per l’amalgama che caratterizza la  Democrazia cristiana. Se non siamo declinati è perché siamo tutte queste cose insieme».

Un partito che seppe farsi interprete del paese, dei diversi interessi e delle diverse attese che emergevano dalla società civile, dal mondo del lavoro e delle professioni, con l’attenzione alle esigenze del mercato e dello sviluppo capitalistico, ma sensibile anche al bisogno di assistenza sociale e del sostegno dello Stato per le categorie più deboli dei cittadini, ispirando la propria azione al rispetto della persona e ad una visione pluralista e articolata della società, lontano da qualsiasi concezione di stampo ideologico e classista.

Insomma, in seno alla Democrazia cristiana troviamo una pluralità di personalità, ciascuna delle quali rappresentava, con le sue idee, il suo retroterra sociale e culturale e con i suoi legami con diverse realtà locali e regionali, un modo originale di essere democristiano, a testimonianza della complessa e flessibile fisionomia del partito.

Tuttavia, nonostante questa articolazione e questa apparente frammentazione, siamo di fronte ad un partito che sentì con grande convinzione l’esigenza dell’unità. Non a caso, nei momenti più delicati nella storia del partito, uomini come De Gasperi e Moro, richiamarono il partito all’esigenza dell’unità come elemento imprescindibile per affrontare decisioni e svolte politiche decisive per la storia del paese e del partito.

Maurizio Eufemi ci ammonisce a guardare alla storia del partito e ai protagonisti ricordati in questo libro, che hanno rappresentato “piccoli tasselli di un grande mosaico che può aiutare a leggere il movimento della storia e il significato delle immagini che scorrono lentamente insieme al tempo”.

In altre parole, questo libro ci invita al recupero di un patrimonio culturale, di una storia e di un pensiero, di una identità culturale ancora in grado di fornire gli strumenti per interpretare il difficile momento che stiamo attraversando.

Ripercorrendo la lunga storia della presenza politica e sociale dei cattolici italiani, storici come Fausto Fonzi, Pietro coppola, Gabriele De Rosa ed altri, pur non trascurando limiti, debolezze ed errori, anno sottolineato le ragioni di una presenza che ha saputo interpretare l’anima popolare, cogliendo le esigenze, e i bisogni di diverse categorie sociali, di strati popolari e borghesi, sostenendone le esigenze e le aspirazioni, rivendicando la libertà degli enti locali e le istanze autonomistiche e regionalistiche, senza misconoscere i valori dell’unità nazionale, coniugando democrazia e ispirazione cristiana senza integralismi e senza confondere la politica con la fede, facendo propri e difendendo, anche con il sacrificio personale, i valori della libertà contro ogni forma di sopraffazione e di autoritarismo.

È indubbio, tuttavia, che all’inizio degli anni Novanta si sia dispersa, fino alla liquidazione, la funzione di un partito che aveva svolto un ruolo fondamentale nella storia politica del paese, e che, tra l’ altro, era riuscito a convogliare e a raccogliere una  ampia base di consensi, offrendo immagine di grande forza di mediazione, capace di interpretare la volontà e gli interessi di categorie e gruppi sociali che costituivano l’articolato e complesso quadro della società italiana e l’asse portante della realtà economica, sociale e civile del paese. Si può aggiungere, che quel partito era riuscito a svolgere un ruolo di grande rilievo politico, raccogliendo i consensi di una fascia di elettorato, cattolico e non, forse più incline alla conservazione che al riformismo, che veniva in qualche modo sottratto alla sua vocazione autoritaria per incanalarlo all’interno di un progetto chiaramente democratico e con una chiara sensibilità sociale.

Quel progetto democratico e riformista, sorretto dall’ispirazione cristiana, avrebbe dovuto trovare la sua concreta affermazione, proprio negli anni a noi più vicini, quando il crollo del comunismo e la fine dell’Unione sovietica e delle democrazie popolari dell’Est europeo, facevano cadere molti miti e molte suggestioni. Il cattolicesimo democratico, proprio di fronte a quel fallimento, appariva vincente, poteva riproporre la validità di un pensiero che aveva sempre respinto le istanze totalitarie in nome dei valori della democrazia e del pluralismo, riaffermando il valore della persona umana e un disegno di società animata dalla solidarietà e dalla giustizia sociale.

Certamente, tra le cause che hanno portato alla conclusione dell’esperienza della Democrazia cristiana non sono mancati i limiti e i processi degenerativi, nei quali i partiti hanno assunto un ruolo e un peso che andava al di là di un corretto equilibrio tra forze politiche, istituzioni, poteri economici, apparati dello Stato, alimentando una crisi, aggravata dal mutamento del sistema elettorale, da tangentopoli e dagli interventi della Magistratura, destinata a minare il sistema politico che aveva contraddistinto la storia della nostra Repubblica.

Come sottolinea Maurizio Eufemi, “è ancora presto per comprendere veramente ciò che accadde nel 1992-1994, con la scomparsa della coalizione di pertiti di governo e soprattutto del partito della Ricostruzione, la Democrazia cristiana”.

Insomma, la fine della Dc e il radicale mutamento del sistema politico italiano all’inizio degli anni Novanta, che segna la fine di quella che Scoppola ha definito la Repubblica dei partiti, è una storia che deve ancora essere scritta, con serenità di giudizio e con quel distacco necessario per ricostruire il passato, al di là delle dell’esperienza della Democrazia cristiana non sono mancati i limiti e i processi degenerativi, nei quali i partiti hanno assunto un ruolo e un peso che andava al di là di un corretto equilibrio tra forze politiche, istituzioni, poteri economici, apparati dello Stato, alimentando una crisi, aggravata dal mutamento del sistema elettorale, da tangentopoli e dagli interventi della Magistratura, destinata a minare il sistema politico che aveva contraddistinto la storia della nostra Repubblica.

 

Simone MassaccesiRedattore

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