Israele a rischio di implosione

Pubblichiamo in due puntate un Rapporto sulla situazione israeliana e le prospettive a cui va incontro il Paese. Lo firma un giornalista già corrispondente dell’Ansa da Israele e che conserva uno sguardo diretto su ciò che si muove in quella fascia mediterranea

Le elezioni dello scorso novembre in Israele hanno portato al potere un governo di coalizione, che si definisce di “destra-destra”, con un programma politico fortemente ideologico che tra l’altro vuole dare maggiore libertà d’azione all’ esecutivo, liberandolo da pastoie che limitano la sua libertà d’azione. Punto centrale, ma non unico, del programma è perciò una “riforma” (ma c’è chi la definisce “rivoluzione”) della giustizia che di fatto potrebbe porre fine all’indipendenza della magistratura e svuoterebbe di contenuti la democrazia israeliana, peraltro già largamente imperfetta.

I partiti della coalizione affermano che l’apparentemente solida maggioranza parlamentare, 64 deputati su 120, li legittima a portare avanti i programmi enunciati perché “questa è la volontà del popolo”. Un’affermazione che tuttavia non regge all’esame dei fatti, visto e considerato che durante la campagna elettorale l’accento è stato posto quasi esclusivamente sulle questioni economiche e di sicurezza che interessano direttamente la vita del cittadino.

L’intento di riformare la giustizia è stato invece menzionato solo marginalmente, in modo molto opaco e senza entrare nei contenuti del programma. Solo dopo la formazione del governo, lo scorso dicembre, il progetto di riforma è stato esposto chiaramente e presentato come obiettivo prioritario dal ministro della Giustizia Yariv Levin, suscitando la reazione inorridita di vasti strati dell’opinione pubblica democratica.

Sono cominciate così in diverse parti del Paese manifestazioni di protesta – finora generalmente pacifiche, a parte alcuni episodi di violenza e di scontri con la polizia – che da allora continuano senza sosta. Nel centro di Tel Aviv, cuore della protesta, si riuniscono settimanalmente anche centomila persone, in media, di tutte le età e di tutti gli strati sociali. Nessuna di loro nega che in una democrazia un governo, nato dalla libera volontà degli elettori, sia pienamente legittimato a realizzare i suoi programmi. Con un invalicabile limite però: che le riforme non abbiano il fine di alterare le regole del gioco democratico, compiendo quello che a giudizio degli oppositori sarebbe a tutti gli effetti “un colpo di stato strisciante”.

Per attuare i suoi programmi il governo ha come primo obiettivo il controllo della magistratura. Al riguardo, un’osservazione preliminare. Israele non ha una Costituzione dietro la quale difendersi. Ha invece varato finora tredici “leggi fondamentali”, che hanno un valore quasi costituzionale, prevalgono cioè sulle leggi ordinarie. In una prospettiva, al momento utopica, dovrebbero, con l’aggiunta di altre, formare gli articoli di una Carta costituzionale. Dei tre bracci dello Stato, legislativo, esecutivo e giudiziario, solo l’ultimo è davvero indipendente. Poiché i governi sono tutti formati da coalizioni di partiti che necessariamente hanno la maggioranza parlamentare, ne consegue che la volontà del governo, grazie allo strumento della disciplina parlamentare, in genere, ma non sempre, finisce col prevalere sul legislatore. Perciò, i confini tra i due bracci sono deboli e valicabili e, in mancanza di una Costituzione, l’importanza di una magistratura indipendente, in grado di contrastare atti illegali dell’esecutivo, è ancora più cruciale.

 

Ehud Olmert

 

Malgrado diverse pecche, riformabili, la magistratura ha ampiamente provato la sua indipendenza, non esitando a rinviare a giudizio ministri, alti funzionari e perfino nell’ultimo ventennio un capo dello stato (Moshe Katzav) e un premier in carica (Ehud Olmert). Nei confronti dell’attuale capo del governo, Benjamin (Bibi) Netanyahu, si è aperto nel 2020 un processo che lo vede imputato di frode, corruzione e abuso di potere nell’esercizio delle sue funzioni.

 

Netanyahu

 

Riforma della giustizia

Per minare l’indipendenza della magistratura il governo intende agire in tre modi.

  • Modifica della composizione della commissione mista cui compete la nomina dei giudici della Corte Suprema e dei tribunali di grado inferiore in modo da far sì che siano scelti candidati di suo gradimento. Due i possibili rischi: la politicizzazione dei giudici e la fine dell’indipendenza dei magistrati. Nel sistema in vigore la commissione è formata dal presidente della Corte Suprema e da altri due giudici della stessa Corte, da due rappresentanti dell’Ordine degli avvocati, dal ministro della giustizia, da un altro ministro e da due rappresentanti della Knesset (il Parlamento unicamerale), uno per l’opposizione e uno per la coalizione di governo. L’intento è di assicurare un equilibrio tra l’aspetto professionale e quello politico.

In questa commissione il governo non ha assicurata a priori la maggioranza necessaria per la nomina dei candidati di sua scelta. Il ministro Levin si rifiuta perciò di riunire la commissione fino a quando non si troverà il modo di alterarne la composizione nel senso voluto. Per esempio, come ha minacciato di fare, escludendo i rappresentanti degli avvocati dopo la recente schiacciante vittoria (col 72% dei voti) del candidato dell’opposizione nelle recentissime votazioni interne per la presidenza dell’Ordine.

  • Annullamento o almeno limitazione (nel migliore dei casi) del potere della Corte Suprema di stabilire l’illegittimità di leggi se giudicate contrarie a una delle Leggi Fondamentali. I poteri della Corte – a cui viene rimproverato da diverse parti politiche, talvolta pure dall’opposizione, un eccesso di “attivismo giudiziario” – sono molto ampi perché, con l’esclusione delle Leggi Fondamentali, si estendono anche ai provvedimenti amministrativi del governo e di altri enti sulla base della “clausola della ragionevolezza”.

Un caso recente di impiego di questa clausola è stato l’inclusione nel nuovo governo di un parlamentare, Arie Deri (leader del partito Shas) due volte condannato per reati di corruzione e frode fiscale che la prima volta gli sono pure costati diversi anni di carcere. La Corte ha stabilito che la nomina era “estremamente irragionevole”, costringendo il premier Netanyahu a licenziarlo.

La modifica legislativa ora proposta permetterebbe alla Knesset di prevalere sui verdetti della Corte. Essa stabilisce che una legge che dovesse essere respinta dalla Corte potrà essere reintrodotta in Parlamento e approvata con una semplice maggioranza di 61 deputati, ristabilendone così la validità. In questo modo Deri potrebbe ritornare al governo. Esperti di diritto, afferma l’autorevole Haaretz, quotidiano liberal, “ammoniscono che questa modifica aprirebbe la porta a possibilità finora inimmaginabili nell’ordinamento democratico israeliano. In teoria, il governo potrebbe chiudere il quotidiano Haaretz, dichiarare illegali i partiti dell’opposizione o cambiare le regole elettorali in modo da avvantaggiare chiaramente la coalizione”, assicurandone la permanenza al potere.

Inoltre, la legislazione vigente non definisce chiaramente cosa costituisce una Legge Fondamentale e non prevede una maggioranza speciale per la sua approvazione. Al pari di una legge ordinaria, basta la maggioranza semplice di 61 deputati.

“Ciò significa – scrive sempre Haaretz – che stando alla legislazione proposta dal governo qualunque legge che una maggioranza semplice di legislatori decidesse di definire fondamentale diverrebbe automaticamente immune alla revisione della Corte. In altre parole, se il governo dovesse varare una legge che discrimini le minoranze e la definisse Fondamentale non sarebbe nemmeno necessario ricorrere alla clausola della ragionevolezza, perché già in primo luogo la Corte non avrebbe la possibilità di intervenire”.

  • Riforma del ruolo dei consiglieri giuridici. Nel sistema in vigore, il governo e ciascun ministero devono essere affiancati da un consigliere giuridico che non è di nomina politica ed è perciò teoricamente immune da pressioni politiche. Il suo ruolo, spiega l’Istituto Israeliano per la Democrazia (IID) “è di aiutare il ministero a realizzare le sue politiche da una prospettiva legale e al tempo stesso di agire come guardiano, accertandosi che il ministero rispetti le leggi”. Nella riforma proposta, il consigliere giuridico perderebbe la sua indipendenza e diverrebbe una nomina politica; in effetti uno yes man asservito al ministro. Secondo l’IID “è ancora un altro tentativo di imporre una camicia di forza a un’istituzione indipendente con funzioni di guardiano e di sottoporla ai quadri politici alla faccia dell’interesse pubblico”.

Nei mesi scorsi, promossi dal capo dello stato Yitzhak Herzog, si sono svolti negoziati tra rappresentanti della coalizione e dell’opposizione, allo scopo di arrivare a una riforma concordata, almeno nei suoi punti centrali. Il tentativo non ha ottenuto i risultati sperati e i colloqui sono stati congelati dall’opposizione fino a quando non sarà completata la formazione della commissione per la nomina dei giudici, con l’intento di riconvocarla subito dopo. Le proteste di piazza hanno però avuto l’effetto di intimidire il governo che non si aspettava una reazione così decisa e persistente.

Il premier Netanyahu – che non dà interviste ai media locali, accusandoli di essere schierati con l’opposizione – ha dichiarato nei giorni scorsi al Wall Street Journal di essere deciso a portare avanti la riforma, ma senza la clausola che permetterebbe alla Knesset di prevalere sui verdetti della Corte Suprema.  Il formato della commissione, ha detto Netanyahu, sarà invece cambiato, ma non ha precisato come.

Un ottimista potrebbe vedere in queste affermazioni del premier un segnale distensivo e un desiderio di intesa, che l’opposizione non pare però disposta a recepire. Il sospetto espresso è piuttosto che il premier stia cercando “di addormentare” le forze che si oppongono alla riforma, procedendo a piccoli passi. La totale perdita di credibilità di Netanyahu, che i suoi avversari accusano di non mantenere quasi mai la parola data, accresce la diffidenza. Ma a suscitare le resistenze più forti è soprattutto la convinzione di avere a che fare con un governo pesantemente condizionato dalla partecipazione di partiti, espressione di un radicalismo nazional-religioso ebraico militante.

(fine prima parte)

 

Giorgio Raccah

 

Giorgio Raccah Giornalista

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