Israele, Netanyahu si prepara al governo più di destra di sempre

Per cercare di capire i retroscena dell’esito elettorale israeliano – un compito quanto mai complicato, come tutto ciò che riguarda la politica di quella nazione – bisogna scindere l’analisi in quattro parti: il fenomeno (proprio nel senso di “Highlander”) di Benjamin, Bibi per amici e nemici, Netanyahu, l’affermazione del leader suprematista ebraico Itamar Ben-Gvir, il cui partito Otza LeYsrael è diventato la terza forza politica di Israele, il disgregamento di quello che con una forzatura parametrata sulle categorie italiane si chiamava il blocco di centro-sinistra, laburisti in testa, e il comportamento dell’elettorato arabo.

Un passato di ufficiale nelle forze speciali, con uno stato di servizio che include azioni temerarie nella Guerra del Kippur e all’interno del territorio nemico (Siria), la storia personale di Bibi può considerarsi in due fasi. Lasciata la divisa da capitano, si afferma nel mondo del lavoro e della politica, grazie a una preparazione accademica di prim’ordine, quasi tutta negli Stati Uniti, dove consegue laurea, master e dottorato in due fra le più prestigiose istituzioni americane; i primi due livelli, in economia, al MIT e il PhD, in scienze politiche, ad Harvard.

Primo capo del governo (e Premier più giovane) nato nel 1949 in Israele, il cui stato fu proclamato l’anno precedente la sua nascita, Bibi fonda l’Istituto antiterrorismo Yonatan Netanyahu, intitolato alla memoria del fratello maggiore Yonatan, rimasto ucciso a Entebbe, in Uganda, durante una celebre azione israeliana in cui furono liberati ostaggi ebrei.

A 44 anni si afferma come leader del Likud, il partito conservatore, e tre anni dopo è Premier. Il suo operato, inizialmente vincente, ha una prima battuta di arresto nei favori del pubblico, che giudica troppo poco convinta e per alcuni versi contraddittoria la linea negoziale da lui adottata verso i palestinesi dell’Olp, al tempo ancora guidato da Yasser Arafat. Sconfitto alle elezioni del 1999 dal laburista Ehud Barak, Bibi lascia la politica, anche in seguito a una serie di scandali e una inchiesta per corruzione, successivamente archiviata. Torna però alla politica qualche anno dopo, occupando a intermittenza i dicasteri chiave degli Esteri e delle Finanze. Come responsabile dell’economia, Netanyahu avvia una serie di importanti riforme, che risultano in una forte crescita del giovane Stato. Nel 2006 torna a essere leader del Likud, ora all’opposizione, dove resta tre anni.

La seconda fase della vita politica di Netanyahu comincia nel 2009, quando grazie a un patto di coalizione con un partito di destra riesce a ottenere la maggioranza alla Knesset, il parlamento di Gerusalemme, diventando nuovamente Premier, carica che dopo varie crisi seguite da elezioni anticipate gli viene rinnovata. Per molti Bibi, che risulta aver accumulato una notevole fortuna personale, diventa il simbolo dello strapotere del danaro. La forbice sociale si divarica sempre più, a vantaggio di personaggi che da parte della media borghesia illuminata, che rappresentava il nerbo della società israeliana, sono percepiti con una nota di disprezzo come i “neoricchi”.

Sulla riprovazione nei confronti del politico opaco e interessato a blindare la propria persona da quelle che percepisce come inframmettenze della magistratura, fanno premio le incertezze sul futuro.

E così in molti, anche tra coloro che dichiarano di detestarlo, alla fine finiscono per dargli il voto. Per assicurarsi l’impunità fino a che resterà in carica come capo dell’esecutivo, Netanyahu non ha mai fatto mistero di voler modificare la legge attuale, che non contempla l’immunità. Sino ad ora non c’è riuscito, ma si dà per certo che questa volta la mossa avrà successo.

Inoltre, in un Paese che ha sempre rispettato la sacralità della magistratura e la separazione dei tre poteri dello Stato, ha fatto sapere di voler far dipendere la scelta dei giudici della corte suprema solamente dal voto dei parlamentari, nei fatti creando un agglutinamento e una sostanziale coincidenza fra i tre poteri.

Nel più cupo sconforto per i risultati di questa elezione, Giorgio Raccah, un vecchio giornalista e analista politico di idee “liberal”, da molti decenni in Israele, richiesto da me di un commento all’incredibile resilienza di Bibi ha usato parole forti e inequivocabili: “È una tragedia per Israele. Ma noi abbiamo il diritto di vivere in un paese democratico e il dovere di difendere la democrazia con ogni mezzo. Se necessario, combatteremo”.

Alla Knesset, cruciali alleati di comodo per Netanyahu sono stati i partiti religiosi più di destra, perennemente alla ricerca di prebende e favoritismi sociali, specie per le scuole religiose reputate dalla società laica non più che dei centri di parassitismo, ai quali ha fatto concessioni che per molti che formano la antica base sionista suonano come concussioni.

Il Likud, negli ultimi anni, si è andato spostando sempre di più a destra, fino ad allearsi, in questa tornata elettorale, con il partito Otzma Yehudit (Forza ebraica), quintessenza del sovranismo suprematista antiarabo. Un partito che ora ha raggiunto ben 15 seggi e che si è attestato al terzo posto, dopo il Likud e lo Yesh Atid (C’è futuro), centrista, che sta ora per diventare opposizione da principale partito di governo che era. Itamar Ben-Gvir, un avvocato che ha scelto di vivere con la famiglia in un insediamento vicino Hebron, ha raccolto l’eredità di Meir Kahane, un rabbino estremista fondatore del Kach, ucciso a New York da un terrorista musulmano nel 1990. Il Kach, poi messo fuori legge per incitazione all’odio sociale, apologia di reato e violenze, non diversamente dall’odierno Otza LeYsrael, si proponeva di deportare fuori da Israele tutti i palestinesi che vivono nei territori occupati, Cisgiordania e Gaza. Ben-Gvir, a differenza di Kahane, concede che gli arabi israeliani che vivono nello Stato ebraico e che ne rispettano le leggi possono rimanervi, senza rischiare l’espulsione.

Israel elections: Itamar Ben Gvir, the Jewish supremacist on the rise |  Middle East Eye

Per il resto Ben-Gvir, che ha subito decine di denunce e di processi per i suoi discorsi di odio nei confronti degli arabi, non ha mai nascosto le sue simpatie per Baruch Goldstein, un ebreo americano che nel 1994 a Hebron massacrò 29 arabi e ne ferì altri 125, aprendo il fuoco contro una folla di fedeli musulmani che pregava presso le tombe dei Patriarchi. Oltre a una grande foto di Goldstein, che campeggia nel suo studio, Ben-Gvir possiede anche come cimelio un pezzo dell’automobile di Yitzhak Rabin, il leader laburista assassinato da un terrorista ebreo nel 1995. “Se possiamo arrivare alla sua auto – disse due settimane prima che Rabin fosse ucciso dopo un comizio per la pace a Tel Aviv – possiamo arrivare anche a lui”. Oggi Ben-Gvir chiede il ministero per la Sicurezza e visto che è il suo principale alleato, è possibile, anzi probabile, che Bibi glielo dia.

AOC was Right to Pull Out of Peace Now's Yitzhak Rabin Memorial

Ma a parte la capacità di Bibi di risorgere dalle proprie ceneri come l’Araba Fenice (o nel suo caso, per evitare offese mortali, si dovrebbe dire “Ebraica Fenice”), più che la vittoria del Likud e dei suoi alleati, che stanno per dare vita al governo daranno vita al governo più di destra nella storia di quel Paese, questo risultato è da ascrivere al tracollo dei laburisti nel corso degli anni e dalla loro mancanza di senso dell’opportunità politica.

Piuttosto che allearsi con il Meretz, considerato troppo di sinistra, che avrebbe desiderato creare una sinergia con i laburisti, attualmente guidati dalla giornalista e politica Merav Michaeli, hanno preferito correre da soli. Il risultato è stato una ulteriore emorragia di voti, che li ha portati ad avere appena sei seggi. Dal canto suo il Merez, per la prima volta nella sua storia quasi trentennale, non disporrà neppure di un seggio.

Per chi come me ha conosciuto il Paese ancora nella fase pionieristica di alcune delle cinque guerre cosiddette “di indipendenza”, ossia quella subito dopo la proclamazione dello Stato (1948), dopo la crisi di Suez (1956), dei Sei giorni (1967), del Kippur (1973) e del Libano (1982), nel mio caso le ultime due, e poi ha vissuto a lungo nel Paese tra il 1990 e il 1994, pensare a che cosa oggi sia divenuto Israele mette un po’ di sgomento. Il Paese del sionismo storico, il cui nerbo originario era rappresentato proprio dalle prime organizzazioni socialiste e socialdemocratiche risalenti agli anni ’50, complessivamente è più prospero, tecnologicamente è tra le più avanzate del mondo, i suoi abitanti sfiorano i dieci milioni, l’aspettativa di vita è tra le più alte, il reddito pro capite è aumentato, anche se in modo sempre meno perequativo, data la crescente percentuale di poveri.

Resta però la percezione, crescente, dell’insicurezza, il senso (peraltro del tutto giustificato) dell’accerchiamento, la consapevolezza che per tutta la regione, per trita che possa suonare, la metafora più calzante resta quella della “polveriera”. Eppure, come dimostra la politica seguita dal Likud nella seconda fase dei governi di Netanyahu, molto poco è stato fatto davvero per tentare di avviare una normalizzazione con i palestinesi e con i paesi circonvicini. La sensazione, per un osservatore, è che il sentimento che spinge molti elettori a scegliere partiti religiosi di cui spesso non condivide ideologie e sentimenti; o, meno ancora, ultranazionalisti che preferiscono abitare insediamenti che in realtà sono fortilizi, in una forzata (da loro stessi) quasi-coabitazione con i palestinesi che li detestano, sia un modo per creare una sorta di cuscinetto che preservi la comodità delle loro belle case di Tel Aviv, Gerusalemme o Haifa dai rischi esogeni circostanti.

E per chi non ha molto da perdere, per i nuovi immigrati che non si sono riusciti a inserire, come una parte di ebrei russi o statunitensi che per motivi economici o altro decidono di non appartenere più alla diaspora ma di trasferirsi nella terra ancestrale, vivere da coloni può offrire grandi vantaggi economici e, per assurdo che sembri, anche psicologici. Li fa sentire i nuovi pionieri, gli eroi di un sionismo che però non ha nulla da spartire con quello delle origini. Di fronte al quale solo chi è contrario all’idea che esista Israele può in coscienza sentirsi avverso.

Quanto ai palestinesi, il solito anello debole dell’eterno conflitto, se precisamente ieri hanno già dato prova di reagire, al solito masochisticamente, lanciando razzi da Gaza contro le città israeliane, bisogna dire che anche se queste elezioni avessero avuto un esito diverso e non fosse prevalsa l’estrema destra nazionalista, la situazione non sarebbe cambiata. Come è già successo in altri momenti storici, quando i partiti di impronta laica, socialdemocratici, moderati o francamente progressisti erano fortemente prevalenti, non è mai mancato qualche comando strategico palestinese o qualche lupo solitario (forse eterodiretto) che abbia sferrato attacchi o compiuto stragi e attentati per far naufragare anche un barlume di trattative di pace.

Come diceva con semi rassegnato senso dell’umorismo Abba Eban, grande intellettuale e politico della prima ora dello Stato, “gli arabi non hanno mai perso l’occasione di perdere un’occasione”. Mentre quello che per me (e molti altri) è stato il più grande statista che Israele abbia avuto, Itzhak Rabin, uomo con poche sovrastrutture ed essenziale nella sua condotta di vita, di fronte al dissidio infinito con i vicini, che da militare aveva dovuto combattere da prima che esistesse Israele, dichiarava sereno: “Bisogna combattere il terrorismo come se ci fosse già la pace e mirare a un accordo di pace come se il terrorismo non esistesse”.

 

Carlo Giacobbe – Giornalista, Già corrispondente da varie capitali del mondo, tra cui Tel Aviv

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