Israele, una crisi di identità che ne deciderà il volto futuro

Pubblichiamo la seconda puntata del rapporto su Israele

La riforma della giustizia, che ho analizzato nel precedente articolo, è solo una parte di un programma governativo che, se realizzato interamente (ci sono in cantiere circa 180 leggi), trasformerebbe il volto di Israele, rendendolo quasi irriconoscibile rispetto a quello attuale.

Il timore, apertamente espresso da molti, è che Israele rischi di trasformarsi in tempi relativamente brevi in uno Stato religiosamente bigotto, oscurantista, intollerante nei confronti delle minoranze e nemico del pluralismo di idee e convinzioni politiche. Non si ha infatti solo a che fare con leggi e progetti mal conciliabili con un’identità democratica, ma pure con una visione di ciò che Israele dovrebbe divenire. Ciò è respinto da vasti strati della popolazione, soprattutto laica e con diversi orientamenti politici, i quali lo ritengono un assalto vero e proprio alle loro libertà e valori. Secondo il leader dell’opposizione Yair Lapid, “abbiamo a che fare con persone a cui non importa niente degli interessi dello Stato” ma la realizzazione, a qualsiasi costo, della loro ideologia.

 

Israele e palestinesi, la svolta di Lapid all'Onu: «Favorevole alla soluzione dei Due Stati» - Open

Yair Lapid

 

L’affermazione della coalizione di esprimere la “volontà del popolo” è formalmente corretta se la si giudica sulla base dei seggi di cui dispone alla Knesset. Sono però necessarie annotazioni che delineano un quadro più sfumato e sfaccettato.

È innegabile che da ormai molti anni l’elettorato ebraico si è progressivamente spostato su posizioni di centro, di destra e pure di un pericoloso radicalismo nazional-religioso. La sinistra, una volta dominante, ha da ormai molti anni perso la capacità di dialogo con le masse e si è progressivamente ridotta a una minoranza che a malapena, in termini di deputati alla Knesset, supererebbe il numero di dita di una sola mano. I tentativi maldestri del governo di etichettare di “sinistra” – quasi fosse un anatema – i suoi avversari non rispecchiano perciò la realtà dei fatti. Definire di sinistra personalità politiche dell’opposizione che sono sempre state chiaramente identificate con la destra nazionalista, come l’ex premier Naftali Bennet o l’ex ministro della difesa Avigdor Lieberman, è palesemente falso.

Le folle che da oltre sei mesi manifestano nelle piazze contro la riforma sono eterogenee, di etichette politiche diverse, di tutti gli strati sociali e tutte le età. Il carattere corale, finora non violento, delle manifestazioni è motivo di orgoglio per chiunque abbia a cuore la democrazia. Dalla piazza israeliana emerge un potente messaggio rivolto ovunque la democrazia è a rischio.

L’attuale maggioranza parlamentare è la conseguenza di un sistema lacunoso che impone la formazione di coalizioni, visto che, in mancanza di un premio di maggioranza, da tempo immemorabile nessun partito dispone della forza necessaria per governare da solo. Ciò è chiaramente emerso nelle ultime elezioni. Tra la coalizione guidata da Netanyahu e l’opposizione lo scarto è stato di appena 26.500 voti a favore di quest’ ultima. La formazione dell’attuale governo è anche la conseguenza del rifiuto della leader del partito laburista Meirav Michaeli di andare alle elezioni in lista unica con l’altro partito di sinistra, Meretz.

 

Merav Michaeli has baby through surrogate in US - Israel News - The Jerusalem Post

Merav Michaeli

 

Il risultato è stato che i laburisti sono entrati alla Knesset per il rotto della cuffia, mentre Meretz ha sfiorato il quorum minimo necessario di voti (3,25%) ma non è riuscito a superarlo. L’altro grave errore è stato di un partito arabo, Balad, che ha preferito presentarsi alle urne da solo invece di ricompattarsi, come in passato, con altri due partiti arabi, e non ha superato la soglia di accesso. Nell’insieme, sono stati sciupati circa una decina di seggi che altrimenti sarebbero andati all’opposizione.

Però appena sette mesi dopo le elezioni, i sondaggi di opinione condotti settimanalmente da media locali di orientamenti diversi sono concordi nell’indicare un deciso crollo delle preferenze degli elettori nei confronti dei partiti della coalizione; ciò soprattutto a spese del Likud, il partito di maggioranza relativo di cui Netanyahu è il leader da oltre un ventennio.

I due partiti religiosi ortodossi, UTJ (acronimo inglese di United Torah Judaism), voce degli haredim (ebrei religiosi ultraortodossi che preferiscono vivere dentro comunità chiuse per evitare la “contaminazione” di “nefaste” influenze esterne della cultura occidentale e dei suoi costumi) e Shas (ebrei sefarditi di origine nordafricana o mediorientale) possono contare su un elettorato stabile che obbedisce alle indicazioni di voto dei suoi rabbini. La loro forza elettorale, nelle passate legislature, è stata pressoché stabile, oscillando intorno agli attuali 18 seggi.

Il fatto davvero nuovo – perfino rivoluzionario – è stato l’ingresso nel sancta sanctorum dello Stato del Partito Sionista Religioso (PSR), raggruppamento di tre piccole formazioni di destra estrema, con chiari connotati razzisti, omofobi e maschilisti, che nelle precedenti elezioni non avevano superato (in un caso) o varcato a malapena il quorum minimo per accedere alla Knesset. Ora con una forza di 14 deputati sono divenuti il terzo partito in ordine di grandezza e possono pesantemente condizionare la politica del governo.

A uno dei suoi leader, Bezalel Smotrich, è andato il ministero del Tesoro, a un altro, Itamar Ben Gvir, il ministero per la Sicurezza nazionale, da cui dipende la polizia. Ambedue sono stati per molti anni nel mirino dello Shin Bet (servizio segreto di sicurezza interna) che ha tra i suoi compiti quello di combattere il terrorismo di matrice ebraica. Smotrich, nel 2005, sull’onda delle manifestazioni ostili all’evacuazione degli insediamenti ebraici nella Striscia di Gaza, fu sospettato di aver progettato un attentato ma fu poi rilasciato dopo tre settimane di detenzione, durante le quali si rifiutò di rispondere agli inquirenti.

Ben Gvir ha un lungo passato di fermi di polizia e di incriminazioni e condanne per reati concernenti l’ordine pubblico. Per un altro esponente del PSR, il rabbino Avi Maoz, è stata creata una Direzione per l’Identità Ebraica al fine di indirizzare programmi di orientamento ortodosso ebraico nelle scuole statali e – parole sue – “evitare che Israele diventi uno stato come gli altri”. Cioè, imponendo una supremazia ebraica per impedire che Israele “diventi uno stato di tutti i suoi cittadini”; riferimento, questo, all 20% rappresentato dalla minoranza araba.

Secondo Arie Pellman, ex vicecapo dello Shin Bet, “la destra estremista e messianica ha un solo obiettivo dichiarato che non tenta di celare: realizzare la promessa divina di sovranità su tutta la Terra di Israele, anche se ciò comporterà l’annessione forzosa di milioni di palestinesi”. “Ai loro occhi – ha continuato – poiché l’autostrada verso l’annessione totale mediante il ricorso a uno strumento legislativo è stata bloccata, l’anarchia e una realtà sanguinosa possono essere una strada secondaria per arrivare all’annessione unilaterale della Cisgiordania”.

A giudicare dal forte aumento delle tensioni tra coloni ebrei e la popolazione palestinese e dal moltiplicarsi di violenze da ambo le parti in Cisgiordania – dove bande di giovani terroristi ebrei si sono macchiate di ripetuti pogrom contro la popolazione civile locale – l’analisi di Pellman appare fondata. I dati indicano che nelle ultime elezioni il PSR è riuscito a convogliare su di sé parte considerevole di quel mezzo milione di israeliani che vivono negli insediamenti ebraici nei territori occupati. Molti voti, inoltre, sono apparentemente giunti da soldati in servizio di leva: circa il 20%, secondo i media locali.

In seno al Likud, infine, non è affatto certo che il sostegno alla riforma giudiziaria sia unanime. Autorevoli analisti politici affermano anzi l’esistenza di una fronda segreta che, pur non esponendosi apertamente per non incorrere nella vendicativa reazione del premier e dei suoi seguaci, dà segnali di crescente disagio per la svolta antidemocratica nel partito. Quali siano le reali dimensioni di questa opposizione è per ora difficile stabilire. Ma non si rischia di sbagliare quando si afferma che le frequenti esternazioni di ministri di partiti alleati, come Smotrich, Ben Gvir e altri – che si comportano come elefanti in un negozio di cristallerie – sono causa di forte imbarazzo agli esponenti più equilibrati del Likud, costringendo lo stesso Netanyahu a dissociarsi pubblicamente da alcune delle loro affermazioni più scandalose.

Per il capo dell’opposizione, comunque, questo governo “avrà vita breve, perché i suoi componenti si odiano l’uno con l’altro”. Uno scenario non impossibile, vista la notoria litigiosità della vita politica israeliana. La logica della sopravvivenza politica suggerisce invece che i partiti della coalizione faranno ogni sforzo per portare a termine i quattro anni che restano alla fine della legislatura, nella convinzione che l’esito delle scorse elezioni sia ora un’occasione unica per realizzare i loro programmi. Sono ben consci di aver vinto un insperato terno al lotto, quasi certamente irripetibile se Israele resterà una democrazia. Come in tutti gli eventi umani, non esiste un modello di comportamento razionale a cui si possa applicare una logica matematica consequenziale per ottenere, una volta inseriti i giusti input, la risposta corretta.

Una società di contrasti

Ma in questa temperie politica, gli israeliani sono uniti? La risposta è sì, ogni volta che Israele si trova in guerra o la sua esistenza è minacciata. Ciò può bastare come collante? Probabilmente no. L’ex presidente Reuven Rivlin, nel 2015, in occasione di un momento di forti tensioni interne, in un discorso divenuto celebre, affermò che la società israeliana è divisa in quattro tribù: ebrei laici, ebrei ortodossi nazionalisti, ebrei ultraortodossi (haredim), arabi (musulmani fortemente maggioritari e cristiani). La loro piena integrazione economica, politica e sociale nella vita dello Stato, ha aggiunto Rivlin, è l’unica, necessaria e migliore via per il progresso di Israele.

 

Rivlin calls on Jews to unite, in English-language Rosh Hashanah video | The Times of Israel

Reuven Rivlin

 

La società ebraica (circa l’80% della popolazione), formata da migranti di una settantina di nazionalità diverse giunti nei primi anni di vita dello Stato, è ora per il 70% di giovani nati nel Paese. Molti di loro non hanno conosciuto altre realtà e una parte ha una conoscenza limitata di altre culture.

Studi e ricerche sociologiche, in anni recenti, sulla base di sondaggi condotti su campioni rappresentativi della popolazione ebraica, evidenziano divisioni profonde. Circa il 49% degli interpellati si definiscono ebrei laici, il 29% tradizionalisti (nel senso che rispettano la religione e le sue festività ma il loro stile di vita è simile a quello dei laici), il 22% religiosi ortodossi (lavorano, ma hanno uno stile di vita conforme ai dettami della religione), l’8-12% (dipende dai sondaggi) sono haredim (religiosamente integralisti). L’89% dei laici privilegiano l’identità israeliana rispetto all’ebraica, mentre risposte di segno contrario si ottengono dai religiosi. Gli ebrei, in maggioranza, affermano di sostenere la democrazia, ma profondi contrasti emergono quando si chiede chi debba prevalere nel caso di contrasti tra stato e religione. “La socialdemocrazia sionista – ha scritto già nel 1987 il sociologo Ian Lustik – si trova davanti a sfide senza precedenti da parte di un’ideologia irredentista con una base escatologica che si può giustamente definire integralismo ebraico”. Lo scontro in atto nella società ebraica riguarda perciò, in ultima analisi, la questione su quale identità debba prevalere: israeliana o ebraica. Dall’esito di questo scontro, emergerà il volto futuro di Israele.

In questo articolo non ho volutamente menzionato la questione palestinese e dei territori occupati – sicuramente fondamentale per il suo impatto sulla società israeliana – semplicemente perché non è un tema delle proteste che agitano le piazze e perché l’argomento per la sua vastità esige un’analisi approfondita e separata.

Due osservazioni tuttavia si possono fare. Nel 1967, a conclusione della travolgente vittoria israeliana nella Guerra dei sei giorni, il governo israeliano allora al potere si dichiarò disposto a ritirarsi da tutti i territori occupati (ma non da Gerusalemme est) in cambio di accordi di pace con gli Stati arabi; della questione palestinese allora nessuno parlava. Furono i capi di Stato e di governo arabi, nel vertice di Khartum quello stesso anno, a replicare con un netto rifiuto del riconoscimento dello Stato ebraico e della pace. Da allora quella che doveva essere merce di scambio ha assunto col passare degli anni un peso diverso.

Agli occhi della destra religiosa nazionalista, animata da visioni messianiche, l’occupazione delle bibliche Giudea e Samaria (Cisgiordania) è la realizzazione di una promessa divina e ha reso inalienabili questi territori che hanno progressivamente assunto un carattere quasi sacrale, di altari sui quali è lecito tutto sacrificare. Nel 1967 lo scienziato e filosofo israeliano Yeshayahu Leibowitch ammonì che l’occupazione dei territori e il contatto con una popolazione palestinese ostile avrebbero avuto un impatto nefasto sulla società e sulla democrazia israeliana. Come Cassandra non fu ascoltato.

La storia insegna che nessuno è profeta in patria.

 

Giorgio Raccah – Giornalista

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