Iran, lo strapotere della teocrazia

Come avviene ogni volta che si acuisce una crisi internazionale, che anche per gli effetti della globalizzazione si riverbera sui singoli paesi, soprattutto di aree nevralgiche come il Medio Oriente, in Iran è in corso da qualche mese l’ennesimo sconvolgimento sociale e politico.

Nel 1979 la rivoluzione islamica mise fine a un impero che, sotto dinastie differenti, durava da 2.500 anni. In meno di mezzo secolo sono state diverse e sanguinose le proteste contro il regime teocratico incarnato dal clero sciita, ayatollah, hojatoleslam e mullah, il cui potere è garantito dal loro braccio armato rappresentato dai pasdaran, i famigerati guardiani della rivoluzione.

Dalla fine dell’impero dello scià Reza Pahlavi a oggi lo scollamento soprattutto, ma non solo, dei settori più emancipati della società iraniana dal governo è proceduto in progressione quasi geometrica. Anche il favore con cui nel 1979 molti settori della comunità internazionale avevano nel complesso accolto il radicale cambio istituzionale si è andato ben presto sbiadendo, fino a trascolorare in chiara opposizione.

 

 

Al tempo della caduta dello scià, l’Italia, che con Teheran intratteneva buoni rapporti politici e commerciali, si riposizionò prontamente a favore del mantenimento delle stesse buone relazioni anche con la neonata Repubblica islamica, agli antipodi dell’Impero del Pavone.

Almeno per i primi tempi, si deve ammettere, verso i nuovi padroni della Persia molti, compresa la maggiore superpotenza, ebbero atteggiamenti se non di plauso almeno di favorevole attendismo. Prima che la crisi degli ostaggi all’ambasciata americana a Teheran nel 1979 innescasse una ostilità con la repubblica islamica che perdura ancora, gli stessi Usa, che pure erano stati il più stretto alleato di Reza Pahlavi, scaricarono senza complimenti la famiglia imperiale, che infatti trovò ospitalità in Egitto, generosamente resosi disponibile per decisione del presidente Anwar Sadat.

Al contrario, mentre lo scià era ancora sul trono, la Francia fu un’altra nazione che, nel solco della sua consolidata tradizione verso i fuorusciti di ogni latitudine, malgrado avesse intensi rapporti commerciali col governo imperiale aveva accettato di ospitare il massimo leader religioso sciita, che era riparato a Parigi.

Per tornare all’Italia, ricordo nitidamente il giorno che l’ayatollah Ruhollah Khomeini fece ritorno a Teheran, accolto da una folla che si calcola superasse tre milioni di persone. Io ero a Roma, a Lettere della Sapienza, che era stata la mia facoltà, per chiedere alcuni documenti. Dopo una notevole agitazione per i viali della Città universitaria la segreteria invitò tutti ad uscire, spiegando che era in atto una grande e corale manifestazione alla quale partecipavano iscritti di quasi tutti gli istituti e le facoltà; con loro, se non centinaia, almeno parecchie decine erano i docenti. Festeggiavano tutti la caduta dello scià, deprecando le nefandezze della Savak, i servizi segreti imperiali, e soprattutto inneggiando all’arrivo di Khomeini, da molti ritenuto un grande leader democratico, che da Parigi aveva pilotato la fine della monarchia, preparandosi ad assumere il potere, avendo dalla sua la maggioranza della popolazione iraniana, con il clero sciita ovviamente in posizione preminente, e una parte preponderante delle forze armate, in pratica quasi tutte, con l’eccezione dei quadri superiori, degli alti ufficiali e soprattutto degli ex dignitari in uniforme, molti dei quali erano riusciti a fuggire all’estero.

 

 

Ben presto, però, si vide di che pasta erano fatti i nuovi padroni dell’antica Persia, ormai tenuta in pugno da ciò che per i pochi osservatori e analisti italiani in grado di interpretare a fondo gli avvenimenti interni di quel Paese, rappresentava la peggiore delle commistioni; una sinergia tra preti sciiti e militari revanscisti rispetto agli alti gradi, molti dei quali si erano perfezionati in accademie estere. In pochi mesi, gli innegabili misfatti della Savak furono oscurati dalle nefandezze di tribunali islamici e dei pasdaran, le milizie religiose occhiute e pervasive che tutt’ora controllano ogni aspetto della vita nazionale e determinano la liceità di ogni atto che si compia nel paese, anche mediante intromissioni nella sfera privata dei cittadini, perpetuamente sorvegliati da una rete di spie e delatori che pare conti milioni di collaboratori. Un paio d’anni dopo il rientro da Parigi, il volto di Khomeini, la Guida suprema della rivoluzione, che dapprima sembrava austero nel suo rigore religioso, si è fatto torvo, inesorabile. Il nuovo regime si è liberato di decine di migliaia di oppositori e sostenitori, veri o presunti, dei Pahlavi.

Lo ha fatto mediante una catena ininterrotta di condanne a morte, comminate anche per delitti che, in un paese occidentale, verrebbero sanzionati da ammende. In Iran le condanne sono spesso irrogate da rozzi mullah, muniti di deleghe che li trasformano in presidenti di tribunali. Le forche sono erette oltre che all’interno delle carceri anche sulle pubbliche piazze; e perché servano di monito a chi traligna e di soddisfazione per il popolino più imbestiato e desideroso di sangue sono in genere montate su alte gru, dalle quali i cadaveri dei condannati sono lasciati penzolare con addosso cartelli che illustrano il delitto commesso.

Superata la lunga crisi nelle relazioni tra l’Iran e i paesi occidentali alleati degli Usa, tra i quali l’Italia, crisi creatasi nel 1982 con lo scoppio della guerra tra Iran e Iraq, senza troppe sorprese, nel 1988 il CAF (Craxi-Andreotti-Forlani), sorta di trimurti italiana che governa la coalizione penta-partitica, ricuce i rapporti con Teheran. Del resto, al pari del danaro che non ha odore, anche il puzzo del petrolio o del gas, genere ultimamente di grande attualità, svanisce, facendo sembrare tutti quelli che negoziano con l’Iran affetti da anosmia politica.

Succede con la cosiddetta Prima repubblica italiana e, per molti versi, continua ancora oggi. O almeno è accaduto sino a poco fa, quando, come avviene ciclicamente dall’istaurazione del regime teocratico iraniano, uno stato di latente malcontento nelle classi medie e scolarizzate porta a manifestazioni, cortei, atti di disobbedienza alla draconiana morale islamica, puntualmente repressi nella maniera più brutale dai Guardiani della rivoluzione. In prima fila, oggi, le donne. Le coraggiosissime donne persiane, molte delle quali sfidando lunghe pene detentive, corporali e, non di rado, la morte, si tolgono dalla testa il velo e marciano capelli al vento, gridando slogan contro il sistema teocratico e, soprattutto, contro la Guida suprema Ali Khamenei.

 

 

Malgrado questo, sinora l’Iran non è stato incluso formalmente nella lista Usa dei cosiddetti “stati canaglia”. Ciò si può spiegare principalmente per due motivi. Il primo perché quella poco invidiabile patente gli era stata affibbiata, sebbene non formalmente, dallo scorso presidente Usa Donald Trump (che di canaglie ha pure dimostrato di intendersene non poco), qualifica poi sensibilmente mitigata da Joe Biden, deciso a prendere le distanze in ogni modo possibile dal predecessore repubblicano; in secondo luogo, per i suddetti, mercantili interessi del mondo occidentale, visti gli sterminati giacimenti di idrocarburi di quel paese.

Se a ciò si somma la guerra russo-ucraina in atto, con i suoi riflessi catastrofici sui conti energetici di quasi tutta l’Europa, si comprende quanto in questa parte del mondo occidentale, sotto l’alibi della non ingerenza negli affari interni di un’altra nazione, le sommosse che sconvolgono le piazze di Teheran e di altre città iraniane siano trattate dai media quasi sotto il solo profilo cronachistico.

Non che le cronache siano avare di informazioni, come tutti i giorni si vede nelle televisioni e si legge sui giornali, sul numero dei morti fatti a centinaia dai pasdaran e sui casi personali di eroiche ragazze, Mahsa Amini, Nika Shahkarami e le altre, divenute figure emblematiche per il coraggio costato loro la vita; ma molti media del Vecchio Continente sono poco inclini ad analisi complete e approfondimenti, specialmente se contrastanti con il mainstream politico dettato dalle necessità di mercato.

 

 

E se durante le prime ore del ritorno a Teheran di Khomeini, un esponente comunista di spicco come Pietro Ingrao era andato a congratularsi per la svolta democratica e la fine della dinastia imperiale, anche 42 anni dopo il ministro degli Esteri degli scorsi governi, Luigi Di Maio, ha avuto vari contatti, sia di persona sia telefonici, con la controparte iraniana Hossein Amirabdollahian.

L’ultima telefonata, secondo quanto ha fatto sapere la Farnesina, ha riguardato Alessia Piperno, la travel blogger romana, di origine ebraica, arrestata nella capitale il 28 settembre scorso, per seguire la sua passione per i viaggi “non turistici”. Ora è detenuta nel carcere di Evin, che è stato teatro di sommosse con decine di vittime tra morti e feriti, ma non risulta ne sia rimasta coinvolta. La Farnesina ha fatto sapere che le sue condizioni sono buone, sebbene, per il momento, di rilascio non si parli. Della telefonata che riguarda Alessia non ci si può che rallegrare, sperando in un rapido e felice epilogo del suo incubo. Meno, però, si può essere soddisfatti dei contatti, avutisi nell’arco dell’ultimo anno e mezzo e che riguardano il solito business; affari che forse sarebbe opportuno diradare con un paese che seguita a conculcare una parte importante del suo popolo, ha praticato il terrorismo di Stato e, tanto per citare uno scambio recente particolarmente significativo, vende droni alla Russia che li usa per bombardare l’Ucraina. Sempre riguardo alla bilancia commerciale con l’Iran, fa eccezione la Francia, che ha ridotto gli scambi al minimo e che, come è noto, ha con gli integralismi islamici di ogni provenienza un contenzioso ben lontano dall’essere superato.

 

 

Tra i mezzi di informazione fanno eccezione i “soliti” campioni della stampa indipendente di scuola anglosassone, in particolare l’americana CNN e la britannica Bbc, che presenta anche trasmissioni in lingua farsi ad uso degli iraniani nel mondo e dei pochi (spie a parte) in grado di captare le emissioni dalla madrepatria.

Una delle caratteristiche sconcertanti della grande Repubblica islamica mediorientale, accentuatasi particolarmente negli ultimi due decenni, è che un paese considerato una delle culle della civiltà e celebre per il suo contributo alle scienze, alle arti e alla letteratura, in periodi in cui sull’Europa gravavano i “secoli bui” seguiti al tracollo dell’impero romano, oggi possieda leggi e consuetudini religiose, politiche e sociali che non suona iperbolico definire, per molti versi, medioevali.

Ciò però non significa che in Iran si sia bloccato anche il progresso tecnologico, malgrado molto evidenti restino i contrasti tra le zone rurali più depresse e le aree urbane più importanti. Inoltre, forte delle seconde maggiori riserve petrolifere mondiali, il paese destina una parte importante delle sue risorse a favore della protezione sociale delle classi meno abbienti; sono loro il punto di forza del regime, che attraverso i programmi scolastici, di salute e della casa crea in pratica una fabbrica del consenso, che polarizza le differenze tra oppositori (come i borghesi e gli intellettuali che si riversano ogni giorno in strada per manifestare contro il regime) e gli entusiastici sostenitori delle autorità islamiche. Ceti come i contadini, i lavoratori più umili e i militari di bassa forza, rappresentano una massa critica importante rispetto ai pur numerosi avversari del clero sciita.

La sciia, la principale tra le denominazioni minoritarie dell’Islam e storica antagonista dei sunniti, che nel pianeta Islam sono la maggioranza, si basa su una concezione millenaristica del ritorno del dodicesimo imam (depositario della vera fede), morto in giovane età nel nono secolo, i cui seguaci però non credettero nella sua morte, ritenendo che per scampare alla persecuzione dei suoi nemici si fosse nascosto, per fare ritorno alla fine dei tempi nella veste di Mahdi, figura analoga a quella del Messia. Tale concezione, che ancora nella prima metà del secolo scorso era ritenuta anche da importanti teologi sciiti una forma di superstizione da superare, quasi per un antagonismo con l’Occidente (Usa in primis) e con Israele (rispettivamente definiti il “grande” e il “piccolo Satana”), è oggi più rafforzata che mai tra il clero iraniano, che ha raccolto di nuovo pienamente l’eredità dottrinaria di Khomeini.

Oggi, a differenza per esempio del predecessore Hassan Rouhani, il presidente Ebrahim Raisi è del tutto allineato alle posizioni della Guida suprema, ayatollah Ali Khamenei, e ancora più di questi ha un passato di estremo radicalismo conservatore. Quando era primo magistrato del paese è stato considerato il principale ispiratore della linea che ha portato all’esecuzione di migliaia di dissidenti e oppositori, specie durante le purghe del 1989; 30.000 persone secondo alcune stime indipendenti. Tra i possibili successori dell’ottantatreenne Khamenei, che resta l’incontestabile figura apicale dello stato confessionale, lo stesso Raisi è dato da molti per probabile.

 

 

Nel cercare di comprendere le intricate manovre e i giochi di potere di una delle nazioni più complicate del pianeta, si stenta a capire il perché i due massimi esponenti del regime sembrino trarre piacere dall’avversione che, specie alla luce degli avvenimenti più recenti, suscitano nel consorzio civile. La loro, e soprattutto quella di Khamenei, è una linea politico-ideologica che sembra ispirarsi alla più tortuosa ambiguità. Il leader supremo, che avrebbe emanato una fatwa in cui dichiara di ripudiare il ricorso alle armi atomiche (fatwa che peraltro non compare tra i documenti ufficiali dello Stato), avrebbe invece surrettiziamente invitato gli scienziati, iraniani e non solo, che in segreto lavorano sul nucleare, a spingere le sperimentazioni per dotarsi di quel tipo di ordigno.

Per farlo sarebbe ricorso alla taqiya, una classica istituzione del mondo islamico, tipica soprattutto della sciia. Una parola che si può tradurre con dissimulazione o menzogna e che permette di celare ai propri nemici la pratica della propria fede (i precetti obbligatori per ogni musulmano) e addirittura di sconfessarla, nonché di affermare il falso se ciò rappresenta l’unico mezzo percorribile per non mettere a rischio la vita o il proprio status. E di fronte alla possibilità di sconfessare Allah (sia pure per uno scopo di cruciale importanza), negare di avere la bomba o almeno di lavorare alla sua realizzazione sembra quasi un peccato veniale.

 

Carlo GiacobbeGiornalista, già corrispondente da varie capitali di Paesi europei ed extraeuropei

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