In nome di Giulia

Forse sbaglierò, ma credo che non si siano mai registrati tanta partecipazione e così tanto manifesto dolore per la fine tragica di una donna, quanto per la morte della giovanissima Giulia.

 

 

 

 

Il suo viso ancora bambino, i suoi atteggiamenti adolescenti, il suo brillante traguardo di studi, sono entrati nelle nostre case e hanno lasciato un segno. Profondo. Come a sostenere l’ impossibilità di un gesto cruento, bestiale, nei confronti di un’anima così gentile, fragile.

Credo mai come ora, discussioni tanto accese, anche se talvolta con cadute di stile per alcuni inutili tratti di ideologismo o per appartenenza politica, continuano a succedersi su testate giornalistiche, trasmissioni televisive, nelle piazze o nelle sedi istituzionali dalle scuole, alle Università, ai luoghi del potere politico.

Il tema della violenza sulle donne, portato all’estremo inconcepibile dell’assassinio, ci interessa tutti, ma riguarda soprattutto il mondo maschile, quel mondo che dopo millenni di impostazioni di ruoli definiti, certi, che non si modificavano se non con timidi o intelligenti compromessi vede, da pochi decenni, una mutazione nel rapporto uomo-donna; si registra, infatti, un capovolgimento di funzioni, di capacità e di raggiungimento di obiettivi sociali ed economici che appartengono alle donne e non solo o non più, come in alcuni casi accade, agli uomini.

Il terreno di sicurezza, di stabilità che non poneva in discussione equilibri, negli ultimi 50, 60 anni è saltato e il genere maschile non è ancora pronto ad accettare la rivoluzione sociale in atto; una condizione mutata che alimenta vertiginosamente incomprensioni, scontri, violenze per incapacità di gestire un rifiuto o un abbandono.

Uomini di ogni classe sociale e di varie appartenenze culturali agiscono violenza nei confronti delle proprie compagne, o ex, e nella maggior parte dei casi vengono definiti dall’esterno educati e impegnati sul lavoro, affidabili padri di famiglia, cortesi nelle amicizie, brave persone che chissà perché si trasformano in mostri. Già, chissà perché! La nostra è una società dell’apparenza, della superficialità, del conformismo. I rapporti sociali e familiari sono molto spesso slegati, non conoscono il confronto, l’ascolto profondo; in molti contesti si eludono i problemi e dunque non si riconoscono, se ne rattoppano le smagliature con il ricorso al consumismo di “affetti” e di oggetti.

Una società liquida, come da definizione del filosofo e sociologo Zygmut Bauman, nella quale e per la quale non si è mossi dall’empatia nei confronti dell’altro, ma si è sopraffatti dall’apatia quando non si passi all’odio, alla rabbia che smuovono le anime morte di quei bravi ragazzi e uomini irreprensibili fuori, e inceneriti dentro. Non sono bravi, né irreprensibili . Sono maschi, non Uomini perché in loro non c’è luce, in loro non abita un briciolo di umanità. Sono maschi, figli di madri e di padri distratti, diseducanti, di famiglie impegnate a sopravvivere o forse a vivere nella assoluta mancanza di etica, incapaci di distinguere, di approfondire, di intervenire.

Meglio, dunque, la quiete, il silenzio, la falsa bontà, che in un battito d’ali si trasformano in ossessione, in possesso, in odio, in violenza che stordisce ogni volta di più e porta con sé annose domande. Il padre è morto, è tramontato definitivamente, almeno nella forma della Legge-Ideale assoluto. Il padre Narciso, così di moda e diffuso oggi, tutto preso da se stesso non rispetta le regole per sé, né le fa rispettare e in tutto ciò si chiede da più parti l’urgenza dell’intervento educativo della scuola. Ricordiamo che è la famiglia che crea le condizioni primigenie dello stare al mondo. La scuola continua un percorso, spesso impervio, assumendosi gravose responsabilità osteggiate proprio da quelle stesse famiglie che hanno fallito nel proprio ruolo più importante e decisivo; nel contempo non si vuole comprendere che è già nelle funzioni di ogni ordine e grado scolastico non solo istruire, ma educare, nella accezione più nobile del termine.

Tutte le riflessioni di cui sopra relative alle responsabilità dei ruoli istituzionali e non, si ripropongono fortemente e senza soluzione di continuità in tutte le forme di comunicazione in seguito alla tragedia di Giulia, la 105esima vittima del disamore, del possesso, del senso frustrante di inferiorità per i risultati da lei raggiunti e della cieca cattiveria di un “bravo” ragazzo-mostro che annienta con inaudita crudeltà una creatura. Cosi, una dopo l’altra, da anni, decenni. Ma dopo l’ennesimo stop alla vita di una donna mi viene da pensare, e forse da sperare, che questo tragico epilogo stia per segnare un tempo oltre il quale non si possa più attendere, e che lo stesso possa divenire uno spartiacque fra un Prima e un Poi.

Tra un prima e un dopo il Tempo di Giulia.

 

Rita RuccoDocente – Direttrice della collana editoriale “Pluriverso femminile” della Casa editrice Milella

 

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