Sicurezza e democrazia: c’è il rischio di una deriva autoritaria e repressiva

Il magistrato Roberto Tanisi interviene per BeeMagazine sul disegno di legge all’esame del Senato: le politiche securitarie - che riguardano in particolare la cosiddetta 'criminalità di strada' e recentemente anche le manifestazioni di dissenso – sono alimentate da bolle mediatiche che finiscono per diffondere una sensazione di insicurezza. Sì, è un circolo vizioso

Roberto Tanisi, sicurezza e insicurezza

Gustavo Zagrebelsky, illustre giurista e già presidente della Corte Costituzionale, in un suo scritto di qualche anno fa, ebbe ad evidenziare che la democrazia, pur costituendo “governo del popolo”, per essere veramente tale, debba fondarsi sugli individui e non sulla massa, altrimenti – lo ricordava anche Tocqueville – ciò che ne deriva è una degenerazione demagogica che sfocia nel populismo, il quale intende il legame sociale come imperniato su una nozione di popolo indifferenziata che – come scrive Enrico Scoditti – affida al potere politico (rectius: alle leadership che lo incarnano) “la risoluzione delle due questioni fondamentali, quella sociale delle condizioni di vita del ‘popolo’ e quella identitaria del radicamento etnico-culturale di una comunità, nel vuoto di ogni forma di mediazione e di connessione di sistema”.

Populismo, non democrazia

Nonostante le moderne costituzioni, pur consapevoli dell’importanza che riveste la sovranità popolare, abbiano evidenziato il rilievo dei limiti posti al suo esercizio (art. 1 della Costituzione: “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti indicati dalla Costituzione”), si è constatato negli ultimi anni, un po’ dovunque, il rifiorire di moderni populismi, espressione di “democrazia totalitaria” o di “democrazia illiberale” (per usare l’espressione cara al leader ungherese Orban) che sono, in realtà, la negazione stessa della democrazia. Da qui anche l’insofferenza della politica verso le istituzioni di garanzia, prime fra tutte la Corte Costituzionale e la magistratura, sovente considerate come oppositrici delle maggioranze di governo cui si devono le politiche populistiche. E perciò fatte oggetto di reiterati tentativi di “normalizzazione”.

Posizioni del genere, espressione – si diceva – di populismo e non di democrazia, tendono a svalutare i metodi propri della democrazia rappresentativa in favore di forme di democrazia diretta, o di forme di governo presidenziale se non autoritario. Si tratta di un fenomeno non solo italiano, favorito dalla lunga crisi economico-finanziaria iniziata sul finire del 2007, col conseguente acuirsi delle disuguaglianze sociali (anche a causa di una globalizzazione dell’economia malgovernata dagli Stati nazionali) e col rilevante aumento dei flussi migratori.

Gustavo Zagrebelsky

Gustavo Zagrebelsky

Insicurezza nella vita sociale

A causa della crisi i cittadini più svantaggiati dei Paesi più industrializzati e ricchi si sono visti improvvisamente privati delle antiche protezioni e con un futuro dalle incerte prospettive quanto al lavoro (si pensi alle tante chiusure di insediamenti industriali, a causa di crisi economiche e finanziarie o anche per semplice delocalizzazione), mentre, sull’altro versante, la crescita delle migrazioni da quello che un tempo era definito “terzo mondo” è stata avvertita come ulteriore fattore di insicurezza, pericolo di dispersione delle risorse sociali e minaccia demografico-culturale.

Ovvio che un fenomeno così complesso dovesse avere importanti riflessi sul diritto, e sul diritto penale in particolare, divenuto ormai parte integrante della politica ed utilizzato – scrive Vittorio Manes – per “soddisfare pretese punitive opportunisticamente fomentate e drammatizzate ed a legittimare i nuovi assetti di potere politico”.

Si inserisce in questo contesto il tema della “sicurezza urbana”, rispetto al quale, da molti anni, si assiste – secondo Luigi Ferraioli –  all’uso “demagogico e congiunturale del diritto penale, diretto ad alimentare la paura quale fonte di consenso elettorale tramite politiche e misure illiberali tanto inefficaci alla prevenzione della criminalità, quanto promotrici di un sistema penale disuguale e pesantemente lesivo dei diritti fondamentali”.

Le conseguenti politiche securitarie – che riguardano essenzialmente la cosiddetta “criminalità di strada” o, recentemente, anche le sole manifestazioni di dissenso – sono alimentate da “vere e proprie bolle mediatiche”, attraverso le quali si crea nell’opinione pubblica una rilevante sensazione di insicurezza, atta a giustificare gli interventi repressivi: un vero e proprio circolo vizioso che prima alimenta la paura e la conseguente richiesta di punizione, poi sviluppa il populismo che si rende interprete di tale esigenza, infine determina l’adozione di misure sempre più severe (nuovi reati, rilevanti aumenti di pena, eliminazione o attenuazione della discrezionalità del giudice nell’irrogazione della pena), in una chiave pan-penalistica che produce conseguenze di non poco momento anche nella pratica giudiziaria di tutti i giorni.

La promessa di Nordio: svolta garantista e depenalizzazione

Eppure, al momento dell’insediamento del governo, diametralmente opposta era stata la presa di posizione del ministro della Giustizia, che si era dichiarato promotore di una politica garantista e di una rilevante opera di depenalizzazione. Probabilmente, col senno di poi, egli si riferiva ai soli “colletti bianchi”, posto che, ad oggi, risulta abrogato solo l’abuso d’ufficio e sensibilmente ridimensionato il traffico di influenze.

Carlo Nordio e le domande aperte sul fronte della sicurezza

Carlo Nordio

Il ddl-sicurezza, approvato dalla Camera ed ora all’esame del Senato, va dritto in questa direzione pan-penalistica, moltiplicando “i divieti, le punizioni, gli altolà …. a danno dei diseredati o di chi canta fuori dal coro” (così Michele Ainis su Repubblica del 3 ottobre scorso).

Meritano di essere stigmatizzate, soprattutto, la criminalizzazione del dissenso e della protesta (artt. 12-14 del d.d.l.), con la previsione del carcere anche in caso di resistenza passiva (norme “anti-Gandhi”, le hanno definite), o la possibilità del carcere per la donna incinta o madre di un neonato di età inferiore all’anno, pur se autrice di un reato non particolarmente grave: con il che viene cancellata una norma di civiltà giuridica, contenuta nel “fascista” codice Rocco, che in questi casi consentiva di differire l’esecuzione della pena (art. 146 c.p.).

Una legislazione, dunque, che si pone in continuità con i precedenti decreti rave e Caivano, nonché con la filosofia dei precedenti “pacchetti sicurezza” licenziati in passato dai Governi Berlusconi (anche se mai si era giunti ai limiti del d.d.l. che sta per essere approvato).

Ma “sicurezza” non è sinonimo di “repressione” (come pare intendere l’attuale Governo). È anche – e, direi, soprattutto – adozione di misure proattive, atte a prevenire i fenomeni da cui originano molti dei fenomeni criminosi per i quali si sta prevedendo questo imponente “giro di vite”.

Già Norberto Bobbio propugnava “lo spostamento della politica sociale delle società  tecnologicamente avanzate dalla repressione alla prevenzione”, mediante il ricorso alle conoscenze proprie delle scienze sociali, così da prevenire – e non reprimere – il comportamento deviante. Infatti, l’intervento proattivo anticipa il sopravvenire delle criticità e dimostra l’inadeguatezza di una risposta statuale che sia solo securitaria; la quale presenta, invece, due negatività: indebolisce il senso di umanità e rende indifferenti alle disuguaglianze.

Norberto Bobbio

Norberto Bobbio

Sono tanti gli interventi proattivi che possono essere utili allo scopo: dalla riqualificazione urbanistica, sociale e culturale delle periferie,  specie se degradate, alla realizzazione di una sinergia operativa fra le varie forze di Polizia, compresa la Polizia locale;  dall’adozione di politiche volte a realizzare, per quanto possibile, l’inclusione sociale alla valorizzazione della cultura della legalità; e così via. Pratiche, queste, che tendono a “dare ordine al disordine” (così il penalista Giorgio Pighi, che è stato anche Sindaco di una grande città per dieci anni e che sottolinea l’importanza che in questo settore può rivestire l’ente locale, il Comune, il quale può adottare interventi mirati a causa della miglior conoscenza del territorio).

A Caivano ha fatto molto di più una dirigente scolastica

Si è detto prima del Decreto Caivano (D.L. 15.9.23, convertito nella Legge n. 159/23), che ha ritenuto di dare soluzione ai drammatici problemi di quell’estrema periferia di Napoli mediante l’adozione di misure sostanzialmente repressive (fatta eccezione per l’introduzione del “percorso di rieducazione del minore” finalizzato all’estinzione del reato). In tale decreto si prevede, fra l’altro, la trasformazione da contravvenzione in delitto (con rilevante aumento di pena) del reato di inosservanza, da parte dei genitori, dell’obbligo di istruzione per i figli minori: una fattispecie del tutto priva di reale efficacia dissuasiva in contesti degradati come Caivano, o come il rione Brancaccio di Palermo, in cui minacce di tipo sanzionatorio non sono neppure comprese dai destinatari.

A Caivano, invece, contro la dispersione scolastica ha fatto molto di più la professoressa Eugenia Carfora, Dirigente scolastica di una scuola superiore, la quale non ha invocato l’adozione di misure repressive o, addirittura – come pure le era stato suggerito – l’intervento dell’esercito, ma si è recata casa per casa, a prendere i ragazzi che non andavano a scuola, spiegando loro – e ai loro genitori – l’importanza dell’educazione scolastica per una crescita civile lontana dal crimine. Ora quella scuola è portata ad esempio di come la prevenzione sia molto più importante della repressione.

Eugenia Carfora

La dirigente scolastica Eugenia Carfora

Purtroppo le politiche proattive, siccome di lungo periodo e di maggiore complessità, si scontrano con la necessità della politica di fare presto, di conseguire risultati immediati, soprattutto in un Paese come il nostro connotato da frequenti competizioni elettorali. Da qui la difficoltà di inquadrare correttamente i fenomeni da correggere e il privilegiare, al contrario, politiche di corto respiro, sostanzialmente reattive: in tale modo si reagisce in maniera immediata sull’effetto, ma si resta indifferenti rispetto alla causa.

Ciò che occorre, invece, è l’adozione di politiche di sicurezza urbana integrata,  che siano un mix di prevenzione per il futuro e di protezione per il presente, posto che le misure repressive o cautelari immediate, se valgono ad assicurare, appunto nell’immediato, la vittima alla giustizia, non valgono a migliorare le condizioni generali di sicurezza di una città o di un suo quartiere.

Infine, va contrastato questo vento autoritario che spira ormai sulle nostre libertà e sulle nostre vite e richiamare, invece, lo spirito libertario che aleggia nella nostra Costituzione, perché – ricordava Calamandrei – “la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”.

E senza libertà non c’è democrazia.

 

Roberto TanisiGià presidente del Tribunale e di Corte d’Appello

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