“Questo premio è anche per mia moglie”. Quando è squillato il telefono era in un’altra stanza e così Victor Ambros non ha risposto alla chiamata che gli arrivava dalla Svezia, dal Comitato per il Nobel, per comunicargli che il premio per la medicina del 2024 andava a lui. A lui e al suo collega Gary Ruvkun. A lui, a loro, ma non a lei.
Non a Rosalind Lee, collega e moglie di Ambros, autrice insieme al marito della ricerca che ha portato – dopo molti anni di studi e numerose altre ricerche – al Nobel di quest’anno.
E non si può dire che si tratti di un particolare sfuggito all’Accademia di Svezia. Nella motivazione del Premio, come prima “Key Publication” si cita proprio l’articolo pubblicato sulla rivista Cell nel 1993. E nel post celebrativo sull’account Instagram del comitato, sotto la foto sorridente del neo-premio Nobel con accanto la moglie altrettanto sorridente, si legge: “Congratulazioni al nostro premio Nobel per la medicina 2024, Victor Ambros. Questa mattina ha celebrato la notizia del premio con la sua collega e moglie Rosalind Lee che è stata anche la prima autrice dello studio del 1993 Cell citato dal Comitato”.
Non siamo sufficientemente esperti di regolazione genica e microRna – gli ambiti di ricerca della coppia di scienziati – per capire se Lee meritasse il Nobel quanto o più del marito. Ma un paio di cose sono chiare anche a un profano.
Il paper del 1993 aveva Lee come “prima autrice” e Ambros come ultimo. Nel lessico della ricerca scientifica, questo vuol dire che Ambros era il capo progetto (Principal Investigator-PI), ovvero quello che ha ideato il progetto di ricerca e trovato i finanziamenti. In questi settori i finanziamenti sono fondamentali, se non ci sono e se non sono cospicui la ricerca semplicemente non si fa. E se i progetti non sono credibili, innovativi, magari anche potenzialmente remunerativi i finanziamenti non arrivano. Insomma, il ruolo del PI non è una rendita di potere ma una funzione fondamentale. Altrettanto cruciale il ruolo del primo autore, autrice in questo caso.
È la persona che materialmente porta avanti la ricerca e la conclude. In alcuni ambiti scientifici i riconoscimenti – non solo il Nobel, ovviamente – vengono spesso condivisi tra Principal Investigator e autori. Non così in medicina e biologia o comunque, non sempre.
Ma il dato più interessante (per quanto non sorprendente e men che meno entusiasmante) è che in questo caso , come nella stragrande maggioranza dei casi, il principal investigator fosse LUI, mentre LEI era “solo” la prima autrice.
Una storia come altre (Nobel a parte)
Lee e Ambros si sono sposati nel 1976, l’anno in cui lei si laureava al Mit di Boston dove lui aveva un PhD (dottorato di ricerca). Nel 1989 Lee entra nel laboratorio di ricerca che Ambros dirige ad Harvard e nel 1993 arriva il famoso paper che apre la strada che porterà al Nobel 31 anni dopo. Questa è la loro storia che – Nobel a parte – assomiglia a moltissime altre storie di coppie di scienziati.
Una ricercatrice italiana che dirige un laboratorio di ricerca in un prestigioso istituto europeo lo dice fuori dai denti: “Quello che innervosisce di più è che il marito è andato avanti nella carriera mentre la moglie è rimasta assistente nel suo gruppo. Il modello é purtroppo spesso così, mai il contrario. E dispiace che il comitato del premio Nobel non noti nemmeno la problematica, tanto da twittarlo”.
Il famoso tetto di cristallo che non sfonda nemmeno i laboratori scientifici: i capi sono i maschi. A loro i soldi e – quasi sempre – a loro anche i riconoscimenti.
Sessantasei su 1.012
Su 1.012 premi Nobel assegnati nella storia, alle donne ne sono andati 66. Non serve essere premi Nobel per scoprire che l’incidenza percentuale supera di poco il 6% (6,5%, per la precisione). Se ci limitiamo alle materie scientifiche (fisica, chimica e medicina) le cose vanno anche peggio: dei 653 scienziati premiati solo 26 sono donne. Qui il calcolo percentuale è meno intuitivo ma il risultato persino più deprimente: 3,98%.
La più maschilista delle scienze – guardando il Nobel – è la fisica con sole 5 premiate su 227 (2,2%). Anche se tra di loro spicca l’unica ad aver vinto due Nobel in due discipline scientifiche diverse (fisica e chimica): Marie Curie, che prima di sposarsi di cognome faceva Sklodowska. E chissà se solo con il suo cognome polacco avrebbe mai vinto qualcosa. In questa materia si vede che i tempi cambiano.
Dopo il Nobel del 1904 a Maria Sklodowska (Curie) bisognerà aspettare quasi 60 anni per un secondo riconoscimento ad una donna (1963, Maria Goeppert Mayer) e altri 55 per il terzo (2018, Donna Strickland). Dopo però ce ne sono stati altri due: Andrea Ghez nel 2020 e Anne L’Huiller nel 2023.
Statistica triste anche per la scienza triste, l’economia, solo 3 donne – la prima nel 2009, l’ultima l’anno scorso – su 96 premiati (3,12%). Il più inclusivo dei premi, si fa per dire, è quello per la letteratura (18 donne su 121 pari al 14,8%) seguito a ruota da quello per la Pace (19 su 132 – 14,39%). Anche in questi casi, la percentuale cresce grazie ai premi assegnati negli ultimi decenni. Tendenza contraddetta dalle decisioni di quest’anno: su 12 Nobel assegnati nel 2024, solo uno è andato a una donna, la scrittrice coreana Han Kang.
La storia dei “Nobel negati”
Altrettanto interessante è la storia dei “Nobel negati”, come li ha definiti Sara Sesti, che negli anni si è molto occupata della questione. Il caso più clamoroso, probabilmente, è quello di Rosalind Franklin che – ricorda Sesti – fornì “le prove sperimentali della struttura del Dna. Per questa scoperta ricevettero il Nobel i suoi colleghi Crick e Watson”.
Abbastanza incredibile anche il caso di Jocelyne Bell-Burnell che scoprì per caso i pulsar ancora da studentessa ma il Nobel andò al relatore della sua tesi, Anthony Ewish. Non “anche” al relatore che pure avrà avuto un ruolo importante, “solo” al relatore.
Sesti racconta molte altre storie di “Nobel negati” (per chi vuole approfondire: Sara Sesti, Liliana Moro, Scienziate nel tempo. Più 100 biografie , Edizioni Ledizioni, Milano 2023) più una misteriosa e affascinante: la storia di Mileva Maric, ovvero la prima moglie di Alfred Einstein. Maric, i cui studi universitari vennero ostacolati in tutti i modi tanto da impedirle di laurearsi, collaborò con lo scienziato più famoso del Novecento alla formulazione della teoria della relatività. Una simbiosi che oggi rende impervio riconoscere fino in fondo il ruolo di lei: “Il lavoro di Mileva – scrive Sesti – si confuse talmente con quello di Albert che non è più possibile ricostruirlo e capire quanto meritasse il Nobel assegnato al marito”.
Anche perché, come capita anche nelle famiglie normali, col tempo – per quanto relativo – le cose si complicano. Il lavoro, in questo caso la ricerca scientifica, s’intreccia con la vita. Arrivano i figli, servono i soldi per andare avanti e succede che la donna faccia un passo indietro per consentire al marito di fare carriera. Figurarsi poi se il marito si chiama Albert Einstein.
Insomma, i tempi cambiano ma forse non così velocemente come ci si potrebbe aspettare. Nel mondo reale come in quello che punta al premio Nobel. Qui la domanda inevitabile, per quanto apparentemente banale, è se ad essere maschilista sia l’Accademia di Svezia che premia quasi solo scienziati maschi o la società che blocca le scienziate prima di poter raggiungere traguardi degni del Nobel. La seconda è certamente vera, la prima non del tutto falsa.
Il caso Barbie & Ken (vedi alla voce Oscar)
D’altra parte contraddizioni simili si vedono anche fuori dall’ambito accademico. L’anno scorso la regista Greta Gerwig usò lo stereotipo femminile più consolidato nell’immaginario mondiale, ovvero la bambola Barbie, per provare a ribaltare lo schema, a sovvertire il paradigma del rapporto tra i sessi. Almeno nelle intenzioni. Il risultato è stato un film di enorme successo – sebbene odiato e amato in egual misura – e candidato a ben 8 premi Oscar. Praticamente tutti quelli più importanti, tranne la regia e la miglior attrice protagonista.
Candidato invece, come migliore attore non protagonista Ryan Gosling che impersonava Ken. Morale della favola: il film si chiama Barbie ma la nomination va a Ken (che poi non ha nemmeno vinto).
Scienza o cinema, Oscar o Nobel, la storia non cambia. E non cambierà, forse, finché il primo commento dopo la mancata risposta alla telefonata dell’Accademia di Svezia perché il telefono era nell’altra stanza, non sarà: “Questo premio va anche a mio marito”.
Mimmo Torrisi – Giornalista