Il critichese. Ossia: la lettura dell’arte contemporanea non deve sovrastare le coscienze

Lectio di accettazione del Premio “Silvia Dell’Orso” 2024 per la divulgazione assegnato a Milano, Pinacoteca di Brera, il 16 dicembre alla rubrica Per capire l’arte ci vuole una sedia.

Ringrazio il Presidente dell’Associazione Silvia dell’Orso, Paolo Cavaglione, e il Comitato scientifico. Sono onorata di essere premiata dall’Associazione il cui Presidente onorario è Salvatore Settis, mio professore e direttore quando fui perfezionanda alla Scuola Normale di Pisa dal novembre 2001. Mi onora, in aggiunta, che il mio impegno divulgativo riceva un premio intitolato alla giornalista Silvia Dall’Orso che con Settis realizzò un libro intervista sul concetto di eccellenza in ambito accademico in tempi non sospetti (dato che oggi si abusa delle parole “eccellenza” e “merito” proprio nel contesto dell’istruzione e della ricerca, che per mestiere pratico quotidianamente).

Con il Presidente Paolo Cavaglione abbiamo pensato che un tema adatto al mio discorso di accettazione del Premio fosse incentrato sul “critichese”, sia perché riguarda il tema della comprensibilità della lingua usata dagli addetti ai lavori per la divulgazione (che è uno degli obiettivi e dei criteri di valutazione del riconoscimento), sia perché a questo tema ho dedicato diversi articoli della rubrica.

Per capire l’arte ci vuole una sedia

Quindi ho montato fonti e dati che potete leggere in vari articoli di Per capire l’arte ci vuole una sedia.

Inizio come in Pulp Fiction di Quentin Tarantino, con una definizione da un vocabolario, il Sabatini-Coletti 2024. “Critichese. In usi polemici o spregiativi, linguaggio tecnico di difficile comprensione adottato dai critici di opere d’arte, letterarie, musicali”, attestato nell’uso almeno dal 1980.

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Dagli anni Sessanta il critichese si consolida, creando nel pubblico dell’arte una spaccatura, dovuta anche alle diverse competenze di coloro che si occupano di arte antica e contemporanea e curano pubblicazioni, mostre, allestimenti di musei (gli storici dell’arte) e di coloro che si occupano esclusivamente di arte contemporanea e curano pubblicazioni e mostre (i critici).

Gli storici dell’arte si distinguono dai critici anche per la lingua che usano: spesso con la complicità degli artisti, i critici loro sodali (i critici ‘militanti’) non parlano delle opere come di oggetti, ma usano progressivamente sempre di più una lingua che attinge all’emotività e agli psicologismi, che con la materialità, la filologia e la storia non ha niente a che vedere.

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Se indaghiamo le fonti prodotte dagli artisti del Novecento, ci accorgiamo che tendono progressivamente a sostituire l’opera alla critica.

Rothko
Mark Rothko – Creative Commons

Mark Rothko diffidò sempre dei critici, preferendo che aleggiasse il mistero sui suoi grandi oggetti dipinti, e che il rapporto col pubblico fosse privo di mediazioni:

“Vi è il pericolo che si costituisca uno strumento che dirà al pubblico come dovrebbero essere guardati i quadri e cosa cercarvi. Per quanto, in apparenza, questa possa sembrare un’agevolazione e un vantaggio, il vero risultato sarebbe la paralisi della ragione e dell’immaginazione (e per l’artista una sepoltura prematura). Da cui la mia avversione per le introduzioni e le informazioni esplicative. E se devo riporre la mia fiducia da qualche parte, la investirei nella coscienza degli osservatori sensibili, liberi dalle convenzioni della conoscenza. Non avrei timori circa l’uso che farebbero di questi quadri per soddisfare i bisogni del loro spirito”.

Secondo uno dei maggiori espressionisti astratti, dunque, la critica come strumento di lettura dell’arte contemporanea non deve sovrastare la coscienza degli spettatori.

Un artista che iniziò come pittore non figurativo e poi guadagnò fama come uno dei maggiori pittori anche figurativi italiani del Novecento, Mario Schifano, fu presto molto attivo nel sostituirsi a una critica che, spesso, non aderiva alla semantica delle sue opere. Affidò sempre ai titoli l’esegesi e il rapporto diretto con collezionisti e pubblico.

Durante un’intervista per Vogue Italia del novembre 1985, alla domanda: ≪Tu dici che nessuno ha scritto sul pensiero che sta dietro al tuo lavoro: non credi che chi lo comprende meglio sei tu e che tu stesso dovresti esprimerlo in parole?≫, l’artista cinquantunenne, risponde drastico: ≪Infatti non ci sarà più un testo davanti a una mia mostra. È giusto farla finita anche con questa specie di convenzione, non ho più voglia di leggere interpretazioni banali≫.

L’aggettivo “banali” è degno di nota, poiché fino al 1985 di Schifano avevano scritto i critici più noti e anche storici dell’arte diventati professori universitari che erano anche critici militanti come Maurizio Fagiolo Dell’Arco, Maurizio Calvesi, Arturo Carlo Quintavalle.

Mario Schifano, Festa Cinese (1968) - Creative Commons
Mario Schifano, Festa Cinese (1968) – Creative Commons

Gianni Michelagnoli, amico e collezionista di Schifano, ha raccontato a proposito delle opere che ancora oggi suscitano più interesse sul mercato (anche perché giovanili), i monocromi: “Sosteneva che sui monocromi avevano scritto un sacco di cazzate, che non significavano niente e che se avessero voluto dire qualcosa lo dovevano chiedere a lui”. Effettivamente, quando Schifano stesso racconta come è nata la mitologia attorno ai suoi monocromi, attribuisce la prima esegesi enfatica di essi a Emilio Villa: “[Villa] Ha girato mezzo mondo, ha tradotto l’Odissea, ha fatto da consulente a John Huston per La Bibbia, e poi s’interessava d’arte. Lui ha guardato, ha detto: ‘Si, questa è una cosa che può richiamarsi al concretismo di certi pittori tedeschi, è come se tu volessi un’ala di un aeroplano’. Io gli ho detto: ‘Beh, effettivamente’. Allora ci ho appiccicato sopra un foglio di carta da pacchi e poi l’ho pitturato di giallo. E cosi è venuta fuori la storia dei monocromi”.

Schifano era tornato sulla stessa distanza tra opera e lingua della critica con Enzo Siciliano nel 1972: “Fare un quadro giallo […] era fare un quadro e basta. Le perplessità sono nate quando i critici ci hanno steso sopra le loro motivazioni e un’intera letteratura. Ma io mi muovevo con autonomia”.

Ancora più provocatoria un’altra svalutazione della critica sui monocromi, che non convince Schifano anche a vent’anni di distanza:

“io ti posso fornire soltanto dei dati. La critica, appunto, sta a te. […] Molte volte non mi sono identificato con i testi che sono stati scritti su di me, perché spesso la critica non guarda al lavoro – in questo caso ai miei quadri –, ma elabora dei testi sulla base di altri testi scritti precedentemente. È la critica della critica”.

Floriana Conte – Professoressa di Storia dell’arte a UniFoggia (floriana.conte@unifg.it; Twitter: @FlConte; Instagram: floriana240877) e accademica dell’Arcadia

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