Se le guardate, le chiamate “dizi” e non serie tv, perché in Turchia si dice così. Molti dei loro titoli sono stati successi apprezzati in tutto il mondo: Love 101, per esempio, la storia di un gruppo di diciassettenni dal carattere ribelle che tenta in ogni modo di dissuadere Burcu, l’unica insegnante pronta a prendere le loro difese, dal lasciare la città, spingendola letteralmente nelle braccia del collega Kemal, insegnante di pallacanestro. Oppure Anime false, la storia dell’indistruttibile legame e dell’eterna fuga di una madre e di sua figlia: hotel lussuosi e vite da favola, presto sostituiti da economici motel e da una scia di cadaveri lasciati dietro ogni loro passo.
Ma anche le più popolari Shamaran, Mezzanotte a Istanbul, per non dire Terra Amara e Endless Love che in più di un’occasione hanno fatto brindare la rete di Cologno Monzese, raggiungendo uno share anche superiore a 22 punti percentuali.
Un’industria da export
Le “televizyon dizileri” in pochi anni sono diventate una potente industria, tanto da aver portato la Turchia – secondo le stime della società di analisi dati Parrot Analytics, pubblicate dall’Economist – a diventare il terzo paese al mondo nell’esportazione di serie tv, dietro al Regno Unito e agli Stati Uniti, ma anche davanti alla Corea del Sud e ai suoi famosissimi Squid Game e Avvocata Woo. In tre anni, dal 2020, la domanda globale di questo prodotto sarebbe aumentata del 184 per cento rispetto al 73 per cento dei drammi sudcoreani. E secondo gli ultimi dati della Camera di Commercio di Istanbul, il loro valore di mercato – stimato nel 2022 in 600 milioni di dollari – potrebbe presto superare il miliardo.
Paesaggi glamour, costumi lussuosi, protagonisti belli e affascinanti. Ma anche romanticismo, drammi di epoche passate, amore misto a vendetta: sotto la “Ay Yildiz” (così si chiama la bandiera turca, letteralmente “luna e stelle”) questi sono gli ingredienti che funzionano. Il poliziesco Yargi, in Italia “Segreti di famiglia”, la storia di collaborazione (e di amore) tra il rispettato pubblico ministero Ilgaz, interpretato da Kaan Urgancıoğlu (l’insegnante di pallacanestro di Love 101) e la determinata – quasi pasionaria – avvocata Ceylin, di Pınar Deniz, è stata premiata con un International Emmy Award nel 2023.
Ibrahim Çelikkol, idolo delle spettatrici delle soap, ad agosto è sbarcato a Venezia nei giorni del festival per ricevere il premio Kineo come miglior attore internazionale nell’ambito delle serie, per il secondo anno di fila.
Baci rarissimi, sesso assente
La Spagna, con la sua grande passione per le telenovelas, è il maggiore importatore di dizi tra i paesi europei: molte sono simili a quelle latinoamericane ma, per i più, meglio realizzate, al punto da far apparire le cugine d’oltreoceano terribilmente “cheap”. Un successo importante, paragonabile forse in termini numerici, ma non nelle motivazioni, a quello che queste serie ottengono da anni nel Medio Oriente e nei paesi arabi. Qui le produzioni turche sono apprezzate perché offrono una visione quasi eroica dei musulmani, certamente non limitata a quella di tassisti, radicali padri di famiglia o terroristi, appannaggio di Hollywood.
Ma non solo: nella maggior parte dei casi vengono offuscate le etichette di vino e alcolici, bandite le scene di sesso e anche i baci, seppur rarissimi, non sono mai come ce li aspettavamo. In Italia è vissuta come una cosa a tratti deludente. Basta aprire qualsiasi pagina Facebook dedicata a queste produzioni per trovare commenti come quello che ha lasciato l’utente Marianna Galdini che, della serie Kan Çiçekleri (in italiano “Fiori di sangue”) scrive: “Ma perché Baran e Dilan (i due protagonisti, ndr) non si danno mai un bacio e perché dopo 225 puntate il matrimonio è ancora bianco?”.
Non è come per le serie coreane, dove la percezione della tensione sessuale è più forte delle abusate – e sempre più spudorate – scene erotiche. È la morale, quella di un paese in lotta tra modernità e conservatorismo verso i valori tradizionali islamici. Vale per le serie prodotte e trasmesse in Turchia, ovviamente: se decidete di guardare “Il sarto”, sulla piattaforma internazionale Netflix, di casto e poco erotico troverete ben poco.
Il successo dell’impero (ottomano)
Ma non è solo l’amore il filo conduttore di questo successo che, tra le tante, è stato promotore anche di un turismo curioso verso quei luoghi che hanno fatto da set ai titoli più famosi. C’è anche la storia che questi paesi hanno condiviso per quasi 600 anni, quella dell’impero ottomano.
Muhtesem Yuzyil (“Secolo Magnifico”) fa parte della prima ondata di drammi turchi a diventare un successo globale. La vita del sultano Solimano il Magnifico, trasmessa per la prima volta nel 2011, delle sue conquiste e dei suoi intrighi di palazzo, ha raccolto un incredibile successo di pubblico, ma anche la critica del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan che, appena un anno dopo l’uscita della serie, alla stampa diceva che lo sceneggiato era troppo concentrato sulle vicende dell’harem e non abbastanza sulle conquiste del grande sultano, minacciando anche iniziative giudiziarie: “Abbiamo avvertito le autorità e ci aspettiamo che il potere giudiziario prenda le decisioni opportune”, dichiarò il capo di Ankara.
“I nostri antenati non erano così”, aggiunse, condannando i produttori e i proprietari delle reti tv che trasmisero lo sceneggiato.
Contro i nemici del sultano
Di lì a poco un’emittente statale turca realizzò un altro dramma storico dal titolo Dirilis: Ertugrul (in italiano “Resurrezione: Ertugrul”): la storia di un guerriero turco del XIII secolo che accetta di combattere i nemici del sultano in cambio di una nuova terra. Lo spettacolo, nel maggio 2020 – in piena pandemia da Covid – è stata la quarta serie più richiesta a livello globale, sempre secondo i dati di Parrot Analytics. L’allora primo ministro del Pakistan, Imran Khan, elogiò il programma per i suoi “valori islamici” e una statua di Ertugrul fu eretta nella città di Lahore.
Ma questi non sono gli unici spettacoli ad aver agitato il mondo politico, dentro e fuori i confini nazionali turchi. Per altri motivi, infatti, nel 2010 fece discutere anche il film d’azione Valle dei lupi: Palestina, la storia di una squadra di commando turca che si reca in Israele in cerca di vendetta. Il loro obiettivo era quello di rintracciare il comandante militare israeliano responsabile del raid della flottiglia di Gaza.
Un anno prima della sua distribuzione questo film fu fortemente criticato – se non proprio condannato – da Danny Ayalon, allora vice ministro degli esteri israeliano, durante un incontro istituzionale con l’ambasciatore turco. In quegli anni il giornalista Seyfullah Türksoy, pubblicato da Euronews, disse che ciò di cui il Medio Oriente ha bisogno oggi è un eroe: “È una necessità – specificò, aggiungendo che “l’influenza turca su cinema e arte mediorientale continuerà. Magari ci saranno nuovi eroi”, concluse.
Salvare la patria, anche nel remake
E in tutti questi anni dizi dalle trame militari, e che esaltano la figura dell’eroe turco, in effetti non sono mancate. Da Gaddar (“No Mercy”), la storia di un soldato turco che torna dalla guerra ed è costretto a diventare un sicario per proteggere la sua famiglia, a Börü (tradotta in “Wolf”) , serie che racconta le vicende di un omonimo commando turco impegnato a salvare la patria dai pericoli che la circondano. Produzioni in genere molto apprezzate in Turchia, ma non sempre facili da esportare in Medio Oriente.
È il Post a riprendere le parole di Timur Savcı, fondatore di Tims Productions, una delle più grandi case di produzione di serie turche: “Non molti paesi sono interessati a vedere i soldati turchi glorificati”, ha osservato il produttore. E così, in alcuni casi, anziché vendere i diritti di trasmissione all’estero, si vendono quelli per i remake: la trama è uguale, ma la bandiera appuntata sulla divisa del soldato è diversa.
Francesca Carrarini – Giornalista