“La strega buona o la strega cattiva?” L’eterno ritorno di Oz, l’allegoria per eccellenza dell’America

Dal racconto novecentesco di L. Frank Baum al grande classico cinematografico di Victor Fleming, e dall’opera di Gregory Maguir all’attuale successo di Wicked: una strada di mattoni gialli lega l’identità statunitense a Dorothy e ai suoi compagni di viaggio. In barba a quel presuntuoso di Prometeo
Cynthia Erivo nei panni di Elphaba in Wicked - Courtesy Universal Pictures Oz

È l’inizio di maggio del 2011 quando davanti ai cancelli della Casa Bianca si raduna un gruppo spontaneo di cittadini intonando la melodia di Ding Dong! The Witch is Dead, dal celebre film del 1939, Il mago di Oz, di Victor Fleming. Nessuna strega malvagia dell’est, tuttavia, è morta quel giorno. Ogni coro è rivolto alla notizia dell’uccisione di Osama Bin Laden.

Forse niente più di questo permette di capire quanto la favola scritta nel 1900 da L. Frank Baum sia entrata nel tessuto più profondo dell’identità statunitense, non solo al punto da fondersi con essa, ma fino a darle una forma nuova.

Una scena de Il Mago di Oz (1939) - Metro Goldwyn Mayer
Una scena de Il Mago di Oz (1939) – Metro Goldwyn Mayer

Oz e la creazione del mito americano

 C’erano una volta le fiabe dei fratelli Grimm o di Hans Christian Andersen, in Europa, e ancora prima i miti dell’antica Grecia, i poemi epici o le favole di Esopo. Il vecchio continente si è costruito sul racconto di grandi eroi in grado di plasmare il mondo, senza dimenticare mai il limite di Prometeo, dell’uomo che sfida gli dei. E perde.

Agli americani il destino di Prometeo non è mai piaciuto, tanto da osannare invece Robert Oppenheimer come il loro novello American Prometheus (biografia da cui Christopher Nolan ha tratto il suo film premio Oscar). Dall’altra parte dell’oceano, cioè, quei miti non hanno mai attecchito del tutto, lasciando invece spazio alla conquista dell’ignoto, del misterioso e pericoloso west. Una retorica che, cowboy a parte, nel tempo si è consolidata nel conflitto tra il noi e il loro che è alla base dell’identità statunitense, e della domanda fatale della strega buona del Nord a Dorothy: “Are you a good witch, or a bad witch?”. Sei con noi o sei contro di noi?

Ariana Grande 3 Cynthia Erivo in una scena di Wicked, diretto da Jon M. Chu - Courtesy Universal Pictures
Ariana Grande e Cynthia Erivo in una scena di Wicked, diretto da Jon M. Chu – Courtesy Universal Pictures

Si perde il conto di tutte le volte che un simile messaggio è stato trasmesso su grandi e piccoli schermi, fino a passare inosservato. Uno degli esempi più recenti – e distopici – avviene attraverso il cattivissimo personaggio di Jesse Plemons in Civil War di Alex Garland, quando con un fucile automatico al posto della bacchetta magica chiede laconico a chi ha di fronte, prima di sparare: “What kind of Americans?”

Negli anni Hollywood ha consapevolmente codificato Il mago di Oz come il racconto dei racconti, favola d’innocenza da cui tutto nasce. L’esperimento di Victor Fleming in technicolor, realizzato appena due anni dopo Biancaneve e i sette nani (1937) solo per fare concorrenza alla Disney con un film colorato e musicale, si è tramutato in una raccolta di archetipi, che funzionano anche meglio se affiancati uno all’altro.

L’eco del mago di Oz

Dopo oltre un secolo dal primo dei quattordici libri di Baum, e 85 anni dal film di Fleming, ciò che Dorothy e i suoi compagni di viaggio rappresentavano, fuor di metafora, non esiste più. Non esiste più la specifica crisi economica e politica attraversata dagli Stati Uniti a fine Ottocento e non esiste più l’esatta fotografia sociale che lo spaventapasseri, l’uomo di latta e il leone codardo incarnavano.

Eppure non serve sapere che ritraevano rispettivamente gli agricoltori, gli industriali e gli uomini “nuovi” spaventati dal progresso, per capire che quelle tre figure erano e sono ancora un esatto, anche se riduttivo, ritratto degli Stati Uniti. Sempre diversi ma sempre uguali, servono a raccontare un’unica storia, che si ripete da più di cento anni e ha come suo centro solo Dorothy e il mito un po’ autarchico della casa, che non somiglia a nessun altro posto, anche quando è il brullo Kansas: l’eccezionalità, cioè, degli Stati Uniti rispetto al resto, rispetto a un ipotetico loro.

Ariana Grande in una scena di Wicked - Courtesy Universal Pictures Oz
Ariana Grande in una scena di Wicked – Courtesy Universal Pictures

Dorothy è lo stereotipo da manuale dell’everyman hollywoodiano, della persona ordinaria con cui il pubblico può subito identificarsi senza sentirsi sopraffatto dalla grandezza di un eroe irraggiungibile. Solo in apparenza la piccola e indifesa Dorothy ha bisogno del potere del mago, prima di scoprire che l’uomo dietro la tenda è un impostore e che il potere lei l’ha sempre avuto con sé; nelle scarpette che indossa e che possono riportarla in Kansas. Piccola e indifesa, perciò, non lo è stata mai, proprio come i cittadini statunitensi che intende rappresentare.

Nel mondo infantile di Dorothy – e in quello del cittadino medio statunitense – la politica, tuttavia, non esiste come argomento a sé. È puro istinto di sopravvivenza. Niente di ciò che la bambina compie è intenzionale, compresa l’uccisione della malvagia strega dell’ovest. Il mago di Oz diventa davvero politico solo quando inizia a parlare attraverso i punti di vista marginali: con la versione solo afroamericana di Sydney Lumet, The Wiz (unico ruolo al cinema di Michael Jackson, nei panni dello spaventapasseri) e soprattutto con Wicked.

Wicked e i riferimenti al presente

È solo in Wicked, infatti, che i meccanismi del potere di Oz vengono messi in discussione oltre che svelati. Prima con la serie di romanzi di Gregory Maguire, poi con il musical che ne è stato tratto nel 2003, infine con il film di Jon M. Chu, Wicked spiega con chiarezza che il mito nasce là dove esiste solo una versione della storia, quella del vincitore. E se nessuno piange la strega (“no one mourns the wicked“) è perché la strega è stata creata e immaginata per essere odiata, ma non corrisponde certo alla vera donna che vi è dietro, Elphaba (dalle iniziali di Baum, LFB).

Cynthia Erivo e Ariana Grande in una scena di Wicked - Oz
Cynthia Erivo e Ariana Grande in una scena di Wicked – Courtesy Universal Pictures

Elphaba è l’unica e l’ultima ribelle, colei che non si riconosce nel noi e che perciò è costretta a diventare loro. È il nemico perché così è stato deciso e architettato dal mago e perché è più facile trattenere il potere se si ha la forza di creare un obiettivo comune da distruggere.

In questa visione più radicale, più realista e sicuramente più pessimista della società statunitense rispetto all’opera di Baum e di Fleming, fin da subito Wicked è diventato uno specchio per chiunque non sia mai riuscito a identificarsi nell’innocente Dorothy. Per chiunque si sia sentito almeno una volta diverso come Elphaba e non accettato. Nel suo piccolo è diventato uno strumento di resistenza civile, prima per la comunità lgbtqia+ poi (e soprattutto dopo l’interpretazione di Cynthia Erivo al cinema) delle persone razzializzate e discriminate.

Oggi, alla luce della seconda rielezione di Donald Trump, è tornato a essere la chiara allegoria del tempo presente. L’immagine di un mago acclamato e venerato da un popolo che rifiuta di ascoltare qualsiasi altra versione della storia, scagliato e polarizzato contro l’Elphaba di turno, che non smette di lottare per farsi sentire.

La bella notizia, almeno, è che la Wicked Witch a suo modo vince, alla fine. E se nessun posto è come casa, almeno adesso c’è chi sta ritrovando la propria nell’urlo di battaglia della strega e non nelle illusioni di Oz.

 

Valeria VerbaroGiornalista

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