Per capire l’arte ci vuole una sedia

Impronte del corpo e della mente

Arte e religione in Fred Holland Day, e un saggio di Adalgisa Lugli

Per capire l’arte ci vuole una sedia
F. Holland Day, The Seven Words, 1898

F. Holland Day, The Seven Words, 1898, stampa al platino dalla serie di 7 foto, 4.0 x 11.5 cm, New York, The Metropolitan Museum of Art, inv. 49.55.175.1–.7 (scheda qui)

Tra il 1895 e il 1898 l’artista americano Fred Holland Day smette di mangiare, si fa crescere la barba, importa delle stoffe e una croce dalla Siria, infine si incorona di spine e si crocifigge, fino a sembrare in agonia.

Non ho riassunto l’iconografia di una performance degli anni Sessanta o Settanta, né il training di un attore americano del Metodo che si prepara a recitare la scena della crocifissione. L’autolesionismo filologico di Holland Day aveva lo scopo di confezionare la serie fotografica di stampe The Seven Words. In cui l’artista si autoritrae in sette autoscatti come Gesù crocifisso.

Per la prima volta, Holland Day fa coincidere la rappresentazione artistica tradizionale che aveva eletto per secoli le iconografie religiose come soggetti privilegiati con l’idea dell’arte come religione attuabile esclusivamente nel corpo vivo dell’artista.

The Seven Words, a buon diritto e senza forzature, è assimilabile all’avanguardia della cosiddetta performative photography, sistematicamente praticata dal giovane fotografo Ulay prima di lavorare in coppia con Marina Abramović.

Ulay, Dunes 1973. Dalla serie di auto Polaroid Renais sense, Polaroid type 107, 8.5 x 10.8 cm

Non era ancora passato un secolo quando nel 1968 Marcel Duchamp riteneva che l’arte non doveva obbligatoriamente tendere allo scopo artigianale di produrre qualcosa (a proposito degli eventi Dada e del “ruolo di noia” interpretato dalle azioni di Allan Kaprow e compagni):

“Non si può più scioccare il pubblico, almeno non con gli stessi metodi. Per scioccare il pubblico non ho idea di cosa dovremmo fare. Persino questa cosa degli eventi che annoiano non ha trattenuto il pubblico dall’andare, il pubblico va a vedere qualsiasi cosa Kaprow faccia, o Oldenburg e compagnia bella. Anche io ci sono stato, e ci vado ogni volta. Si accetta la noia come uno scopo, come un’intenzione. […] probabilmente lo shock verrà da qualcosa di completamente diverso, come dico io, non-arte, «anarte», nessun’arte del tutto, eppure qualcosa verrà prodotto. Perché dopo tutto la parola arte etimologicamente significa fare, non produrre in senso stretto, ma fare e nel momento in cui si fa qualcosa si è un artista. In altre parole, non vendi la tua opera, ma la tua azione. Arte significa azione, significa attività di qualsiasi genere“.

La stessa noia accomuna Duchamp a chi era stato protagonista dell’avanguardia cubista, per cui molte presunte novità elaborate fino al 1973 erano recepibili senza alcuna meraviglia: a detta di Picasso, gli artisti si limitavano a svaligiare il magazzino di Duchamp cambiando gli imballaggi.

Nel ‘900 l’assimilazione dell’arte visiva alla religione e il passaggio dalla pittura e dalla scultura all’arte performativa transiteranno spesso attraverso pratiche di preparazione e allestimento di opere fotografiche che hanno come oggetto la trasformazione del corpo che si ha in dote in quello che serve all’arte che si vuole ottenere attraverso pratiche che sfiorano l’ascesi (la rubrica se ne è occupata il 2 gennaio a proposito delle linee guida di Jan Fabre per il performer del XXI secolo).

Il clima condiviso negli anni Sessanta tra artisti, storici e critici permette a Barnett Newman in visita al Louvre per la prima volta alla fine degli anni ’60 di ammettere che, quando era un giovane pittore, a New York “era impossibile vedere l’arte moderna. Di Picasso, per esempio, vedevi le opere dal 1925 al 1940. Il che forse era un bene: oggi, un quadro diventa una foto ancora prima di essere dipinto”. Un artista dalle aspirazioni intellettualistiche come Newman, di fatto, ammette che un futuro pittore non figurativo americano doveva fare a meno della tradizione durante gli anni della formazione e che la fotografia era il medium ormai predominante.

Il sublime astratto, a cura di Pietro Conte, Johan & Levi 2024, riguarda l’attività di teorico dell’Espressionismo astratto di Barnett Newman

Con Fred Holland Day la pratica di plasmare il corpo dell’artista per farlo coincidere con un progetto visivo, vincendo la resistenza plastica del corpo e facendo coincidere materiale e opera con la vera e propria autobiografia per immagini, ci ha riportato più indietro nel tempo rispetto alla Body Art e all’arte performativa degli anni Sessanta e Settanta; la fotografia diventa la tecnica più oggettiva per documentare il momento culminante dell’identificazione tra l’artista e l’iconografia che questi ha progettato per l’opera. Fin dal 1960 Edgar Wind, professore di Storia dell’arte a Oxford, aveva ricordato al pubblico non specializzato delle prestigiose Reith Lectures radiofoniche della BBC (poi pubblicate nel libro Arte e anarchia) che ormai l’arte contemporanea era condizionata dalla riproducibilità, meccanica e immediata, consentita dalla fotografia destinata ai libri; quindi l’arte contemporanea era costretta a tenere sempre di più conto delle immediate ricadute commerciali:

“I nostri occhi sono oggi molto più pronti a cogliere quegli aspetti della pittura e della scultura che con maggiore efficacia la macchina fotografica riesce a mettere in evidenza. Ma c’è un fatto più decisivo ancora: possiamo osservare che nella stessa visione dell’artista si sta sviluppando un’immaginazione pittorica e scultorica decisamente tesa verso la fotografia; col risultato di produrre opere talmente fotogeniche, da farci supporre che esse non possano raggiungere la loro indiretta compiutezza se non attraverso la riproduzione meccanica. Come se oggi la massima speranza di un pittore o di uno scultore, a parte quella di vedere le proprie opere esposte in un museo, fosse quella di vederle riprodotte e diffuse in grossi, esaurienti libri di pittura, oppure, meglio ancora, in un catalogue raisonné illustrato”.

Wind aveva altresì legato al binomio “Arte e volontà” la modifica diacronica, nella teoria e nella pratica, della “relazione tra l’artista e il suo pubblico”, ricordando “che un artista non può lavorare una materia che non gli offre alcuna resistenza plastica”. E quale migliore “resistenza plastica” per un artista di quella offerta dal proprio stesso corpo?

Arthur Danto ha chiamato in causa l’inizio del Capitolo primo di un classico della storia dell’arte, Arte e architettura in Italia di Rudolf Wittkower, per legittimare le radici nella tradizione dell’assimilazione al corpo del martire cristiano del corpo del performance artist, attraverso la progressiva identificazione con le divinità cristiane dell’artista che sottopone il proprio corpo a forme volontarie di autolesionismo per raggiungere stati di estasi o purificazione:

“Molte delle storie di Cristo e dei santi trattano di martirio, brutalità e orrore e, in contrasto con l’idealizzazione rinascimentale, una dimostrazione svelata della verità era ora ritenuta essenziale; anche Cristo deve essere rappresentato afflitto, sanguinante, sputato, con la pelle lacerata, piagata, deforme, pallida e sgradevole, se il soggetto lo richiede. Sono queste immagini “corrette” che intendono fare appello alle emozioni dei fedeli e sostenere o addirittura trascendere la parola pronunciata“.

Il processo per ideare, provare e realizzare la performance diventa progressivamente più importante del risultato, così come la performance ha maggiore significato di un oggetto. Di più: la preparazione coincide con l’opera d’arte stessa, fino a costituirne, talora, una sorta di spin-off. Per esempio, il documentario Marina Abramović. The Artist Is Present è esso stesso una sorta di performance, con sceneggiatura, regista e attori, che testimonia la realizzazione dell’opera omonima. Anche in quest’occasione, i precedenti rientrano nel canone del modernismo opportunamente consacrato negli USA: la performance dell’atto creativo di Picasso per Paul Haesaerts in Visite à Picasso. The Mistery of Picasso di Henri-Georges Clouzot, la dripping-dance di Pollock per Jackson Pollock di Hans Namuth.

Bruce Nauman nel suo studio a Pasadena, California, 1970 ca

Bruce Nauman dal 1965 affianca la performance alla scultura in “materiali fragili, o materiali che non erano necessariamente materiali artistici, perché se avessi realizzato un pezzo che chiaramente non avrebbe avuto possibilità di durare, molti elementi preziosi sarebbero stati rimossi. L’idea è rimasta e potrebbe essere rifatta”.

L’idea, il progetto, la forma trascendono il significato tradizionale della scultura e obbligano a considerare arte la processualità. Alla base dell’attività di molti artisti performativi interviene infatti anche un altro fattore fondamentale con il quale fecero i conti ripetutamente gli artisti performativi da giovani: la precarietà e la conseguente povertà. La precarietà economica impedisce, tra gli altri, al giovane Bruce Nauman di procurarsi materiali con cui lavorare: “Non c’era niente in studio perché non avevo abbastanza soldi per i materiali. Così fui obbligato a esaminare me stesso e cosa facevo in studio”.

Sul concetto di arte come religione, diventato popolare nella pittura simbolista prima e poi nella Performance Art, Marina Abramović ha basato diverse sue performance autolesioniste, a partire da Thomas Lips, e anche il proprio metodo didattico, l’Abramović Method, legandolo alla simbologia cristiana. In vista delle performance di resistenza (in particolare di The Artist Is Present), l’artista si adatta (e fa adattare gli studenti) a varie regole, elaborate allo scopo di discostarsi dalla vita quotidiana: fondamentali sono il silenzio e la privazione progressiva del cibo per trasformare il corpo in una macchina allenata a ogni futura performance. Tale pratica avvicina all’ascesi: non è casuale che Abramović sia stata dichiaratamente affascinata e ispirata dalla biografia di Teresa d’Avila.

Le pratiche performative trasformano il corpo quotidiano nel corpo da performance, così come le pratiche ascetiche trasformano il corpo dell’uomo in quello di un santo vivo. L’etimologia di “ascesi” rivela il significato di “esercizio”, presentissimo nei testi sacri cristiani: la chiara analisi di Laura Franco nel recente libro Al di sopra del mondo. Vite di santi stiliti, sarà utile a chi lavora sulle pratiche performative di resistenza. Due artisti molto diversi tra loro ma accomunati dalla pratica performativa, Jan Fabre e Matthew Barney, sono entrambi ex sportivi professionisti e Fabre, come la collega e amica Abramović, ha dedicato studi ed energie alle figure di Teresa d’Avila e dei santi stiliti, fino all’ultimo monologo per la giovane attrice Irene Urcioli, Simona, the gangster of art, che dal nome e dall’attitudine del più celebre stilita della storia prende le mosse.

 

Irene Urcioli in Simona, the gangster of art. Text, concept, direction: Jan Fabre. Drammaturgia: Miet Martens. Ph.: Hanna Hauer.

Essere nel corpo e insieme vederlo dall’esterno come se l’aria fosse uno specchio che circonda continuamente. È quanto ci hanno dato le arti da secoli […]. Il corpo dall’interno, come nell’emblematica opera di Marcel Duchamp With my tongue in my cheek del 1959 e verso la fine degli anni Cinquanta il corpo impresso su tela o esposto come scultura vivente di Klein e Manzoni. Il corpo, per l’artista, non ha solo una forma tridimensionale da raffigurare. Può vivere illusoriamente ancora nell’opera, lasciando ad esempio la traccia del proprio peso, la configurazione impressa di alcune parti di esso, in particolare da quando le avanguardie si sono presa la libertà (o sono state costrette al disagio) di esprimersi per frammenti. […] Centrale è prima di tutto la riproduzione del volto e del corpo attraverso il calco. […] Questo procedimento di trarre immagini del massimo mimetismo possibile e usarle per la scultura o per parti di essa, non è ricordato volentieri dagli artisti (da qualcuno sorprendentemente anche oggi). In realtà è uno dei procedimenti sperimentali […] di rappresentazione della realtà, nella preoccupazione predominante della sua resa figurativa. Gli artisti del Quattrocento lo applicano diffusamente, da Donatello, a Ghiberti, a Guido Mazzoni, nella scultura in terracotta e nei modelli in cera per la fusione in bronzo […]. È di particolare interesse il fatto che il lavoro delle avanguardie del Novecento, che frequentano con tenacia il tema dell’impronta e del calco, possa ritrovare un filo che lo lega al Quattrocento più sperimentale (e all’antico). L’artista si affida all’inafferrabile, all’ombra, alla polvere”.

Così si apre e si chiude il saggio “Impronte del corpo e della mente. Sopravvivenze e mutamenti dall’antico al contemporaneo” di Adalgisa Lugli, storica dell’arte capace di passare dalle Wunderkammern rinascimentali al Quattrocento di Guido Mazzoni alla tradizione nell’arte contemporanea. Il saggio introduce al catalogo della mostra “Identità e alterità. Figure del corpo 1895-1995”, che Lugli curò per il centenario della Biennale di Venezia. Alla fine, si torna sempre ai libri: il catalogo di una mostra che non vidi a 18 anni e della cui esistenza appresi a 20 è uno dei libri che ancora oggi sono più produttivi nel mio cammino.

 

Floriana ConteProfessoressa associata di Storia dell’arte a Università di Foggia e Socia corrispondente dell’Accademia dell’Arcadia (floriana.conte@unifg.it; X: @FlConte; Instagram: floriana240877

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