Le recenti vicende di Bari – con le inchieste della Direzione Distrettuale Antimafia che hanno investito esponenti politici della Giunta Decaro e dell’Amministrazione regionale – e le parallele indagini delle Procure di Torino e di Catania su importanti esponenti politici locali, hanno posto in luce – se mai ce ne fosse stato bisogno – oltre alle solite ruberie, l’antico vizio della politica italiana, noto col termine di “trasformismo”, al quale è strettamente legato l’altro vizio, altrettanto deplorevole, del clientelismo.
In tutte queste vicende sono stati attinti dalle indagini esponenti politici che hanno più volte, disinvoltamente, cambiato partito rispetto a quello per il quale si erano candidati ed erano stati eletti: transitati dal centro destra al centrosinistra e viceversa, con grande nonchalance, perché ciò che conta non sono i partiti per i quali ci si candida o i programmi che si sbandierano durante la campagna elettorale – e per i quali i cittadini votano e pensano di scegliere – ma le opportunità di governo (e dunque di potere) che si presentano ad elezione avvenuta, non importa in quale partito di maggioranza ma, comunque, in un contesto politico che, richiamando una famosa frase di Rino Formica, dimostra di essere ancora – e sempre – “sangue e merda”.
Vizio antico, il trasformismo, che si suole far risalire addirittura ad Agostino Depretis.
Nel vocabolario Treccani, si legge infatti: “Termine con cui la pubblicistica italiana definì la prassi politica, inaugurata da A. Depretis, consistente nel formare di volta in volta maggioranze parlamentari intorno a singole personalità e su programmi contingenti, superando le tradizionali distinzioni tra destra e sinistra… Con riferimento alla politica contemporanea, il termine viene assunto a significare, con tono spregiativo… sia ogni azione spregiudicatamente intesa ad assicurarsi una maggioranza parlamentare o a rafforzare la propria parte, sia la prassi di ricorrere, invece che al corretto confronto parlamentare, a manovre di corridoio, a compromessi, a clientelismi, senza più alcuna coerenza ideologica con la linea del partito”.
In passato abbiamo anche assistito a vere e proprie compravendite di seggi!
Un problema, il trasformismo, che negli ultimi tempi ha raggiunto punte talmente elevate da far dubitare seriamente circa la connotazione democratica nel nostro sistema: nell’ultima legislatura i cambi di gruppo (e, dunque, di partito) totali sono stati 456 di cui 297 alla Camera e 159 al Senato. I parlamentari coinvolti invece sono stati 217 deputati e 87 senatori. La discrepanza tra il numero totale di cambi di gruppo e i parlamentari coinvolti si spiega col fatto che ogni deputato o senatore può cambiare gruppo una quantità illimitata di volte, come è puntualmente accaduto (alcuni parlamentari hanno effettuato anche più di cinque cambi di casacca).
Le forze politiche più “danneggiate” da questa transumanza sono state Forza Italia (il cui saldo negativo ammonta a 47 parlamentari), il Partito Democratico (- 29 parlamentari) e, soprattutto, il Movimento 5 stelle (- 171 parlamentari).
Un fenomeno talmente vasto, quello del trasformismo, che corrode alle radici la nostra democrazia e che, probabilmente, è alla base di quel sempre più diffuso indifferentismo alla politica, che si traduce in un assenteismo pari se non superiore al 50% del corpo elettorale. Del resto, perché un cittadino dovrebbe recarsi alle urne se, statisticamente, il candidato per il quale spenderà il suo voto, ove eletto, probabilmente cambierà partito nel 30% dei casi?
In democrazia il momento elettorale riveste un’importanza fondamentale, perché attraverso le elezioni il popolo – cui, secondo la Costituzione, appartiene la “sovranità” – si esprime, scegliendo i propri rappresentanti. A giudicare dai comportamenti e dalle esternazioni di taluni uomini politici sembrerebbe che solo nel conferimento del consenso elettorale risieda il “proprium” della democrazia, talché una volta eletto, siccome espressione della volontà popolare, il parlamentare (o anche il Consigliere regionale e, in misura minore, il consigliere comunale) è libero di fare e disfare ciò che vuole e, rivendicando il primato della politica, di sentirsi se non legibus solutus, quanto meno libero da “lacci e lacciuoli” (per richiamare un’espressione cara a Silvio Berlusconi) e saltabeccare a destra e a manca.
Per quanto importanti, però, le elezioni non costituiscono l’”in sé” della democrazia, se solo si considera che anche molti dittatori hanno raggiunto il potere in quanto eletti: per dire, Putin, in Russia, è stato recentemente riconfermato alla guida di quel Paese con una percentuale di voti superiore all’80%, ma non mi pare che si possa definire un autentico democratico.
In realtà per aversi democrazia è del pari importante – e forse anche di più – la possibilità di controllo che l’elettore esercita sull’eletto: attraverso istituti come il Recall (ove esistente, come in alcuni degli Stati americani), ma anche attraverso i gruppi di pressione, la libera stampa, l’attività dei partiti politici, soprattutto il controllo di legalità esercitato dalle Autorità indipendenti, prime fra tutte la Corte Costituzionale e la Magistratura. Controllo di legalità che nel nostro Paese pare, tuttavia, piuttosto sfilacciato se si considera che l’intervento della Magistratura è sempre più mal tollerato (ne è prova la continua ricerca di soluzioni che ne limitino autonomia e indipendenza, come, per esempio, la separazione delle carriere, oggi all’esame delle Camere, pesantemente censurata dall’Associazione dei giudici europei), mentre sulla Corte Costituzionale si appuntano accese critiche tutte le volte che le sue decisioni non sono condivise e sono reputate un intralcio all’attività di governo.
La stessa autorità del Presidente della Repubblica rischia di essere minata da un’altra riforma in cantiere, quella del premierato, mentre il Parlamento è da tempo ostaggio del Governo, subissato com’è da Decreti-legge, ben al di là dei limiti indicati dall’art. 77 della Costituzione.
Tutto ciò, probabilmente, contribuisce ai continui “salti della quaglia” dei parlamentari, in cerca di “un posto al sole” dove poter contare di più. Anche perché protetti dal divieto di mandato imperativo di cui all’art. 67 della Costituzione, secondo il quale “ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. La disposizione riproduce sostanzialmente l’art. 41 dello Statuto albertino e risale storicamente alla rivoluzione francese, allorché si volle affidare ai “notabili” scelti dal popolo ampia libertà di determinazione, “senza alcun vincolo con gli elettori, nell’opinione che altrimenti sarebbe stata turbata la visione obbiettiva degli interessi generali quali si appartenevano alla nazione” (Mortati).
In altri termini, col divieto di mandato, per un verso si intendeva garantire l’indipendenza del parlamentare da ogni influenza esterna che potesse inficiarne la funzione di garante degli interessi nazionali a vantaggio di meno nobili interessi di parte, per altro verso, sottoponendo il Parlamento a periodiche elezioni da effettuarsi in brevi intervalli di tempo, si pensava di garantire agli elettori la possibilità di controllarne l’operato attraverso la mancata conferma nella carica, ove avesse disatteso la fiducia accordatagli.
Nei primi tempi della Repubblica la norma ha funzionato, dal momento che i cambi di casacca erano pochissimi, anche perché i partiti politici rivestivano un importante ruolo di raccolta del consenso ed il sistema elettorale era di tipo proporzionale con voto di preferenza, di talché il parlamentare che durante la legislatura avesse tradito il consenso ricevuto ben difficilmente sarebbe stato nuovamente candidato e, ancor meno, eletto.
Oggi, però, la situazione è ben diversa. Da un lato, i partiti politici sono ridotti a satrapie integralmente nelle mani dei loro leader o di pochi maggiorenti e non paiono in grado di effettuare un’adeguata selezione dei possibili candidati, ma anzi sono ben disposti ad accogliere il transfuga, soprattutto se portatore di pacchetti di voti; dall’altro l’assenza di una vera “disciplina di partito” e l’evidente inefficacia di statuti e codici etici non pare in grado di arginare l’arrivismo di chi è disposto a tutto pur di scalare una poltrona. Tutto ciò, agli occhi di molti, rende ormai antistorico il disposto di cui all’art. 67 della Costituzione, e induce a ritenere indifferibile l’adozione di contromisure che limitino il fenomeno di tale eccessiva mobilità.
Un correttivo – se proprio non si vuole abolire il divieto di mandato – potrebbe essere il Recall, ossia la possibilità, riconosciuta ai cittadini, di revocare gli eletti a cariche pubbliche prima della scadenza naturale del mandato, attraverso il ricorso a metodi di democrazia diretta. Si tratta di un istituto di origine anglosassone, affermatosi soprattutto negli Stati Uniti, ma recentemente proposto nel programma di governo dei Liberaldemocratici inglesi nelle elezioni del 2010 e poi confluito nel Coalition agreement firmato da David Cameron l’11 maggio 2010.
Negli Stati Uniti non è consentito a livello federale, ma è presente nelle Costituzioni di molti stati dell’Unione , alcune delle quali – per esempio quelle di Michigan e New Jersey – lo ammettono anche per gli eletti al Congresso federale (sebbene tali disposizioni non siano di fatto operative).
Dal punto di vista procedurale l’esercizio del Recall richiede la sottoscrizione di una petizione popolare firmata, di norma, dal 20-25% dei votanti effettivi dell’ultima consultazione elettorale, la quale può essere finalizzata esclusivamente alla revoca, oppure – come in California – alla revoca e, contestualmente, all’elezione di colui che prenderà il posto del revocato, nel caso in cui il referendum risulti favorevole ai promotori.
L’interesse per questo istituto ha avuto un forte rilancio nel 2003, allorquando, grazie al Recall, venne revocato il governatore democratico della California Gray Davis e sostituito dal noto attore Arnold Schwarzenegger per il Partito Repubblicano. Prima di quel momento vi era stato un solo precedente, con la revoca del governatore in carica nel North Dakota nel 1921.
Ovviamente per introdurre da noi un sistema di tal fatta occorrerebbe modificare l’art. 67 della Costituzione e adattare il sistema elettorale, cosa non facile di questi tempi, in cui si tende più a fortificare il potere di chi governa che a garantire la partecipazione democratica dei cittadini alla vita della Repubblica.
Tuttavia qualcosa occorre pur fare per fronteggiare quella che è una vera e propria emergenza democratica e far sì che il cittadino elettore possa, in qualche modo, chiedere conto all’eletto del suo operato e, in ogni caso, impedire quello sconcio girovagare dei tanti parlamentari “in cerca d’autore”.
Roberto Tanisi – Magistrato. Già presidente del Tribunale e della Corte d’Appello di Lecce