Il lockdown del marzo 2020 è stato come l’avvio di una gigantesca iniziazione di massa. In molte società studiate dagli antropologi (impropriamente definite “primitive”) i rituali di iniziazione aprivano una nuova fase della vita individuale: la condizione di adulto, di guerriero, di capo, di donna fertile. L’iniziando doveva cancellare ciò che era stato fino a quel momento per aprirsi ad una nuova identità. Per questo obiettivo era necessaria una drammatica riduzione ad uno stato di “natura” vicino alla morte stessa o a una specie di pre-umanità, in cui la manipolazione del corpo aveva un ruolo centrale. Denudarsi, abbandonare le abitudini consuete, sporcarsi di terra o di cenere, erano alcune delle pratiche più diffuse. E poi imprimere nel corpo un segno intangibile, una cicatrice, una mutilazione. La fase centrale dell’iniziazione era la liminalità, da limen in latino, la soglia. Stare sulla soglia equivale a uno stare né dentro né fuori, cioè in un passaggio. Non si sta (non si è) dove si stava prima, non si sta (non si è) dove si starà dopo. In conclusione, ciascuno degli “iniziandi” veniva chiamato a una prova di forza, di coraggio e di sopportazione del dolore (inflitto nel rituale) per diventare una nuova persona. Le limitazioni personali e sociali causate dalle decisioni politiche conseguenti la pandemia hanno aperto come un periodo di iniziazione di massa e di ingresso in una fase liminale. Non più quelli di prima del virus, non ancora ciò che saremo dopo il virus. In una condizione liminale, basata su sacrificio, prova, rinuncia, sofferenza, ciascuno di noi è chiamato individualmente a resistere, sopportare, subire persino nel corpo (vaccino). Ma cosa diventeremo quando ne saremmo usciti? Quale sarà la nostra futura “identità”? I popoli studiati dagli antropologi sapevano cosa si sarebbe diventati dopo, noi non lo sappiamo. Loro immaginavano un flusso temporale