Solo un nuovo contratto sociale ci potrà salvare. Costruendo la Repubblica dei diritti forti e dei forti doveri

Il nostro Paese non cresce da un quarto di secolo.

Lo sottolineano tutti gli indicatori economici da tempi ormai lontani, tant’è che con lentezza il degrado cresce inesorabile. Nei diversi dissesti subiti dall’economia mondiale, abbiamo di volta in volta accumulato i pesi conseguenti, ma senza smaltirli, come è invece accaduto in ogni altro paese industrializzato nostro concorrente.

Questa condizione ha influito sulle condizioni economiche di vita dei lavoratori e del ceto medio e ben presto si è sviluppato malessere, da cui sono originati altri preoccupanti problemi. Si sa, il motore di un Paese risiede in gran parte nella intraprendenza del ceto medio, dei lavoratori dipendenti ed autonomi. Essi rappresentano la spinta vitale per l’economia, a ragione della loro innata volontà di promuoversi nel benessere, di scalare l’ascensore sociale.

Ma l’Italia arranca e se dovessimo enumerare i principali fattori che pesano sulla competitività, si potrebbero ricordare: l’energia con costi maggiori che vanno da 20 al 30% a causa di scelte sventurate di una decina di anni fa che ci ha esposti gravemente; il carico fiscale altissimo per gli investimenti, ingiustificabile per inefficienza e scarsezza di servizi; la giustizia amministrativa lenta e farraginosa; la pubblica amministrazione che solitamente osteggia in vario modo ogni attività di intrapresa significativa; l’education slegata dalle esigenze delle produzioni; carenti infrastrutture e scadente logistica, insufficiente cultura digitale ed infrastrutture immateriali.

Insomma la consapevolezza di come procurarci benessere e quote sufficienti di mercato internazionale, appare più che lontana dalle preoccupazioni; altre sono le priorità della politica in genere. Ci comportiamo come se avessimo acquisito il nostro benessere al riparo da doveri e coerenze necessarie per conservarlo.

La somma di queste stranezze hanno messo a soqquadro l’Italia e ne ha fiaccato buona parte del suo potenziale produttivo. Il Piano Nazionale Ripresa Resilienza si presenta come unica occasione  per riavviarci ad un cammino virtuoso. Disponendo di risorse mai impiegate, si potrà cambiare l’Italia con tecnologie digitali applicate in ogni attività umana e con energia pulita prodotta da noi.

Ma non basta disporre di risorse seppur ingenti, senza un clima di cooperazione e responsabilità, che al momento sono insufficienti a ragione di gran parte del ceto politico che sembra collocarsi in una vita parallela agli obiettivi necessari al Paese, occupandosi di altro.

Un patto sociale che responsabilizzi le parti sociali, non può che rappresentare un importante investimento sui ceti popolari sottraendoli alle tante sirene populiste, e per riaccendere la fiaccola della collaborazione  per affrontare le difficili fasi di esecuzione del Piano. Dovrà darsi l’obiettivo ambizioso di un vero e proprio “contratto sociale” che dia una prospettiva concreta di beneficio ai lavoratori ed ai ceti produttivi.

Gli investimenti per il Piano saranno una spinta per Pil e miglioreranno la nostra competitività; il salario, il fisco, il welfare, le garanzie sulla efficienza dei servizi, scuola e sanità, dovranno essere i punti di forte cambiamento con il governo che dovrà impegnarsi di fronte al paese con un “contratto”.

Il salario dovrà essere irrobustito attraverso significativi alleggerimenti  fiscali sulla busta paga, mentre  sul salario legato alla produttività dovrà essere totalmente free. La cassa integrazione dovrà essere estesa ad ogni attività produttiva in stretto collegamento con le politiche formative, ed i fondi pensione contrattuali dovranno godere di scosti fiscali maggiori.

Le attività di welfare contrattuale come le iniziative di assistenza e sanità, dovranno ottenere maggiori riguardi fiscali, come tutte le attività di assistenza e di servizi per lavoratori erogati dagli enti bilaterali di settore.

I cambiamenti strutturali e di filosofia per la “education ed il sostegno alla salute dei lavoratori e cittadini, dovranno essere aperti al “contratto”.

Anche servizi telefonici, autostradali, dell’acqua, dei carburanti, dell’energia elettrica, delle assicurazioni e bancarie, hanno bisogno di rendere più trasparenti i regimi concessori ed autorizzativi attraverso una rivisitazione delle garanzie per gli utenti. Non a caso, i punti elencati per un possibile contratto sociale, sono le questioni che rendono spesso difficoltosa la vita dei cittadini per costi, inefficienze, mancanza di trasparenza.

Sui prezzi dei beni e servizi si potrà allestire un osservatorio per evitare speculazioni e rischi inflattivi. Non credo che l’Italia possa progredire senza ridefinire ogni paradigma sui diritti e i doveri, per un riinizio che della modernità, efficienza e solidarietà fa i suoi punti fermi con il sostegno e la vigilanza sociale.

La stessa politica, senza una dinamica nuova che riporti in gioco le associazioni di massa, non potranno ritrovare vitalità, rinnovamento, responsabilità.  Sono anni che la rendita arricchisce ed il lavoro al contrario s’impoverisce proprio perché è la politica che ha interrotto il suo compito equilibratore.

Ma la redistribuzione ci potrà essere se il sistema Italia diventerà più efficiente. Ecco perché la redistribuzione della ricchezza, dovrà avvenire con criteri legati a comportamenti orientati alla crescita della produttività.

Questo criterio dovrà valere anche per gli aiuti all’impresa, nel premiare le più competitive. Su questa filosofia governo e parti sociali dovranno avere coraggio, ripristinando la regola antica che ogni diritto deve accompagnarsi un dovere. Insomma bisogna chiudere definitivamente la scellerata stagione dei bonus e delle regalie pubbliche senza obblighi, e costruendo la Repubblica dei diritti forti sostenuti da forti doveri.

*professore universitario di Diritto del lavoro, ex segretario nazionale della Cisl

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