L’ennesimo extraterrestre, che per un guasto, o per fare pipì, dovesse fermarsi sul nostro pianeta, dopo esserci già stato, poniamo, un secolo fa, non avrebbe dubbi sul termine Antropocene, perché stavolta farebbe fatica a trovare un angolo dove riparare l’astronave, o liberarsi, senza essere avvistato. Composto dal greco àntropos, uomo, e kainòs, recente – dunque, età dell’uomo recente – il termine fotografa meglio di qualsiasi altro lo stato attuale della Terra: quei quasi nove miliardi di brulicante umanità, che saranno pure il segno del nostro successo come specie, ma, al tempo stesso, rendono il nostro futuro persino più precario di quello di tante altre che stiamo spingendo verso l’estinzione. Nonostante la sua evidente aderenza alla realtà, però, l’uso di Antropocene non ha ancora raggiunto lo status di parola universale. I geologi, veri titolari di questa classificazione, concordano nel considerarlo parte dell’Olocene, che è il secondo periodo del Quaternario, ed è cominciato circa 11500 anni fa, dopo l’ultima glaciazione. E ammettono che abbia una sua propria identità, perché segnala con chiarezza la recente capacità dell’Homo sapiens di lasciare sulla Terra tracce così profonde da potersi definire, appunto, geologiche, cioè capaci di durare per ere e di essere avvistate dallo spazio. Tuttavia, continuano a discutere sul momento dal quale farlo decorrere, il che vuol dire, in poche parole, quali impronte umane prendere in considerazione: se le emissioni in atmosfera, o la plastica, o il cemento, o la radioattività, o i rifiuti in generale. La verità è che, da un lato, è difficile dare termini precisi a un fenomeno del quale siamo insieme osservatori e protagonisti. Dall’altro, è impossibile ignorare che stiamo modificando per la prima volta, su scala globale, i meccanismi che regolano la vita sulla Terra. E allora, è meglio che a definire l’Antropocene sia proprio il bilancio del nostro impatto